Mentre ascoltavo in silenzio il verdetto, i miei nervi erano tesi come le corde di un violino; avevo l’impressione di sentirmi mancare e dovetti raccogliere tutte le forze per rivolgere all’uomo che era seduto davanti a me la domanda più scontata:
«Quanto tempo mi rimane, dottore ?»
«Cinque, forse sei mesi …» rispose il medico distogliendo lo sguardo dai miei occhi
per non vedere lo sconforto che vi era dipinto.
Mi trovavo nello studio del primario di oncologia dell’ospedale di *** quando fui colpito dalle parole pronunciate con gravità da quell’uomo dal volto magro e pallido e dai modi garbati.
Colpito … colpito e affondato è il caso di dire: anche se nei giorni precedenti avevo messo in conto di ascoltare una previsione che non mi lasciava scampo, la mia prima reazione fu quella di sprofondare negli oscuri abissi della disperazione.
Se fino a quel momento avevo conservato un esile filo di speranza, quel filo veniva ora reciso con un taglio netto e impietoso.
Cinque, forse sei mesi, ripetevo mentalmente uscendo dall’ospedale mentre mi accorgevo, per la prima volta nella mia esistenza, di odiare il sole ancora basso del mattino che trafiggeva i miei occhi pieni di lacrime.
Che senso aveva tutta quella splendida luce adesso che brancolavo nel buio della angoscia?
Come era possibile che quella fonte di vita fosse destinata a scomparire nell’arco di poco tempo dopo avere alimentato, illuminato e riscaldato i miei giorni per quarantasei anni ? Il sole per me si sarebbe spento, solo per me, tra pochi mesi …
Non avrei più goduto della sua luce, dell’ombra dei boschi, della vastità del cielo, del candore delle nubi e di mille altri doni che mi erano dati ogni giorno gratuitamente;
doni che mi sarebbero stati tolti per sempre per un castigo di cui non comprendevo le ragioni.
Che avevo fatto di male per meritarmi una simile punizione?
Perché Dio mi chiedeva di restituirgli così presto il dono che mi aveva fatto e per il quale lo avevo sempre ringraziato e onorato osservando le Sue leggi e santificando le feste?
Non avevo nemmeno spalle su cui piangere: mia moglie se ne era andata di casa tre mesi prima, per la sua felicità (e per la mia); gli amici e i parenti erano all’oscuro delle mie vicissitudini.
Non ero però il tipo abituato a piangersi addosso per troppo tempo …
Se il futuro mi veniva strappato brutalmente io, Osvaldo Magrini, dottore in agraria, dovevo reagire con carattere e determinazione, dovevo mostrare gli attributi, dovevo digrignare i denti a quel destino che mi voleva negare il bene più prezioso.
Il modo migliore per affrontare con dignità la prospettiva di una prematura dipartita mi sembrava quello di vivere pienamente il tempo che mi rimaneva, senza sprecare un minuto, una frazione di secondo.
Dovevo prosciugare la piccola brocca di vita che mi veniva offerta senza disperdere nemmeno una goccia: solo così potevo combattere la mia battaglia contro la malattia che mi aveva pugnalato alle spalle come il più vigliacco dei sicari.
Erano questi i pensieri che mulinavano nel mio cervello (nella parte malata o in quella sana?) nei giorni seguenti quel drammatico colloquio.
Le mie sensazioni oscillavano come un pendolo impazzito da momenti di grande sconforto ad altri di vero ottimismo: a volte mi sentivo come Donchisciotte, destinato alla sconfitta nella sua lotta contro i mulini a vento; altre volte mi sentivo come Ulisse al cospetto di Polifemo: grazie all’astuzia avrei potuto vincere il ciclope, accecare il tumore e fuggire verso la mia Itaca e la mia Penelope per ritornare alla vita di sempre.
Dovevo combattere la tentazione di arrendermi alla malattia e impastoiarmi nelle paludi dell’autocommiserazione.
L’unico modo per conservare la stima di me stesso era quello di ingaggiare la mia lotta personale contro il Tempo che il destino voleva sottrarmi.
Dovevo vivere i pochi mesi a mia disposizione con l’intensità e il coinvolgimento emotivo con cui avevo vissuto i giorni più importanti e irripetibili della mia vita passata, giorni che ora mi tornavano in mente con un sentimento di nostalgia mai avvertito prima: il primo giorno di scuola, quello della prima comunione, il primo giorno di campeggio con l’oratorio, quello della laurea, il primo giorno di lavoro, quello del mio matrimonio.
Dovevo vivere ogni istante come fosse l’ultimo, come ricordavo di aver letto in un libro (ma quale?) molti anni prima.
Non potevo permettere che il lavoro mi derubasse del poco tempo che mi rimaneva e così, una settimana dopo aver ascoltato quel verdetto di condanna, mi licenziai dalla azienda in cui avevo lavorato per oltre vent’ anni.
Non volli spiegare la mia decisione al titolare e rimasi amareggiato quando lo vidi stupito e contrariato, ma la decisione era irrevocabile.
Avevo fatto dei semplici calcoli: lasciando il lavoro mi sarei riappropriato ogni giorno di otto ore di vita che moltiplicate per i centocinquanta giorni che mi rimanevano (nell’ipotesi più malaugurata) facevano la bellezza di milleduecento ore.
Anche il sonno mi derubava il poco tempo che mi veniva offerto dalle previsioni dei medici, così mi ripromisi di dormire solo tre ore per notte; in tal modo avrei guadagnato cinque ore per notte che moltiplicate per centocinquanta giorni facevano la bellezza di settecentocinquanta ore.
In totale avrei recuperato millenovecentocinquanta ore che corrispondevano a circa ottantuno giorni da vivere con l’avidità di un animale feroce ed affamato.
Il Tempo recuperato grazie ai miei calcoli era davanti a me, pronto per essere aggredito, dilaniato e divorato.
Per realizzare al meglio i miei propositi, decisi di trasferirmi nella baita di montagna che avevo ereditato da mio padre. Iniziò così il periodo di vacanza più lungo ed intenso della mia vita.
Durante i giorni di bel tempo facevo lunghe passeggiate nei sentieri in compagnia del mio husky, curavo il piccolo orto che avevo allestito dietro la baita, mi rifornivo di legna, raccoglievo funghi e frutti di bosco, mi recavo alla malga soprastante per acquistare latte e formaggi, cucinavo le trote che pescavo nel vicino laghetto e cuocevo la polenta sul fuoco del caminetto.
Nei giorni di maltempo mi dedicavo alla manutenzione della baita (c’era sempre qualcosa da riparare), alla preparazione delle conserve e alla lavorazione del legno, intagliando piccoli rami di larice per realizzare piccoli utensili. (Avevo in mente di regalarli ai miei amici poco prima dell’addio, ma per il momento avevo intenzione di non rivelare a nessuno il dramma che stavo vivendo).
Di notte trangugiavo grandi quantità di caffè così potevo rimanere sveglio a leggere i libri che, per mancanza di tempo, non avevo letto in passato. (Ancora il Tempo, ancora lui, si intrecciava con la mia vita).
Al chiaro di luna redigevo anche un diario; avevo iniziato a scriverlo al mio arrivo in baita nella convinzione che annotando quello che facevo, pensavo e vedevo potevo fermare la corsa del Tempo, almeno sulle pagine del mio quaderno.
Ogni quindici giorni scendevo in città per recarmi all’ospedale dove mi aspettava la chemioterapia. Avendo un organismo forte, tolleravo bene la terapia: i lievi effetti collaterali mi consentivano di risalire in montagna la sera stessa.
Dopo circa due mesi dovetti sottopormi agli esami clinici di controllo.
Quando mi incontrai col primario che doveva illustrami l’esito degli esami e ridefinire la terapia più adeguata al mio stato di salute, lo trovai insolitamente rilassato.
Per la prima volta da quando lo conoscevo, mi guardò diritto negli occhi e il suo volto si distese in un sorriso.
«Signor Magrini» mi disse «sono felice di avere sbagliato le mie previsioni: il tumore è parzialmente regredito. Se il suo organismo continuerà a rispondere positivamente alle terapie, le sue aspettative di vita si dilateranno notevolmente.»
«Vuol dire che non morirò dottore?»
«Non ho detto questo signor Magrini; ho detto semplicemente che si intravede uno spiraglio; la porta della speranza si è dischiusa un poco lasciando filtrare un barlume di ottimismo. Ma dobbiamo aspettare di conoscere l’evoluzione della malattia. Occorre avere pazienza, occorre aspettare che il Tempo pronunci il suo verdetto.»
“Ancora lui, ancora il Tempo” pensavo mentre il dottore ribadiva: «intanto le sue aspettative di vita sono migliorate.»
La sera stessa tornai alla baita. Mi sembrava di avere perso almeno una decina di chili tanto era il senso di leggerezza che avvertivo nel mio corpo e nel mio cervello ora un po’ meno malato.
Se il dottore non si sbagliava, avevo più Tempo davanti a me: più tempo per passeggiare, per pescare, per raccogliere i frutti della terra; più tempo per nutrire il mio corpo coi cibi che mi offriva la montagna e il mio spirito coi cibi che la contemplazione della natura e la lettura dei libri mi servivano su un piatto dorato.
Il Tempo era di nuovo nelle mie mani, ma ora lo tenevo ancor più stretto perché avevo imparato a viverlo intensamente; avevo imparato a non subirlo come avevo fatto in passato quando lo ritenevo una risorsa inesauribile come l’aria che respiravo.
Trascorsi in montagna altri due mesi, due mesi in cui sentii affievolirsi il pessimismo e riaccendersi la speranza; ora mi sentivo un po’ meno Donchisciotte e un po’ più Ulisse: la mia Itaca si avvicinava lentamente?
Vennero ancora i giorni degli esami di controllo e della visita oncologica.
Il primario, anche questa volta, mi guardò negli occhi; dal suo modo di parlare traspariva una forte emozione: mi disse che il male era regredito ancora.
La porta della speranza si era dischiusa ulteriormente. Il Tempo, ancora lui, stava facendo il mio gioco.
Intanto i giorni passavano. Mi ero trasferito definitivamente alla baita e avevo iniziato a cercare un altro posto di lavoro ma alla mia età era un’ impresa davvero ardua.
La vita in montagna, anche se meno costosa di quella di città, comportava delle uscite mensili di quasi mille euro e il mio conto in banca si stava prosciugando, lentamente ma inesorabilmente.
Presi una decisione difficile e sofferta: mi risolsi a vendere la casa di città.
Col gruzzolo ricavato calcolai di poter vivere (naturalmente senza scialare) fino alla età della pensione. Certo, avrei avuto una pensione modesta. Ma che mi importava ?
Nel periodo trascorso alla baita avevo imparato a vivere con poco e quel poco mi bastava per essere felice.
Venne l’inverno con la neve e il gelo: il freddo era il principale avversario ma il mio piccolo camino a legna mi consentiva di sopravvivere senza il rischio di buscarmi ulteriori malanni.
I giorni passavano, il Tempo scorreva. Avevo imparato a conoscerlo bene, a considerarlo una risorsa limitata come i miei risparmi, come la farina con cui preparavo la polenta, come le patate che coltivavo nel mio orto e le castagne che raccoglievo nei boschi; avevo imparato a prenderlo per le corna sconfiggendo l’apatia che mi aveva spesso accompagnato quando ero sano come un pesce, quando tiravo sera e vivacchiavo vinto dalla noia e dall’indolenza.
In verità, dopo il primo entusiasmo suscitato dalla scoperta del valore del Tempo, la mia smania di godermelo pienamente si era attenuata un poco, ma solo un poco.
Ora limitavo i caffè notturni e mi concedevo dormite più lunghe come se l’aumentata aspettativa di vita mi permettesse di concedermi qualche ora di sonno in più.
Ma non abbassavo la guardia nel mio match contro il Tempo.
Un anno dopo arrivò l’incredibile notizia.
Il vecchio primario era andato in pensione. Il suo successore, un signore alto snello e distinto, sembrò davvero contento di comunicarmi che ero guarito, guarito definitivamente:
«Lei è un uomo fortunato, un uomo molto fortunato signor Magrini.» Mi disse il medico salutandomi con una stretta di mano.
Come l’eroe di Omero, avevo accecato Polifemo e navigavo a gonfie vele verso Itaca nello splendido mare della vita …
Anche quella mattina, all’uscita dell’ospedale, il sole era basso e mi trafiggeva gli occhi colmi di lacrime. Questa volta però erano lacrime di felicità e il sole mi sembrava un dono magnifico.
Volli fare una passeggiata nelle strade della città in cui avevo abitato per oltre quattro decenni. Mi sembrarono strade estranee e incredibilmente fredde: solo i miei sentieri mi erano famigliari, solo nella mia baita potevo sentire il calore che mi scaldava il cuore.
Nel pomeriggio feci ritorno alla baita: mi pareva la dimora più accogliente della terra, la più desiderabile … Ero davvero un uomo fortunato …
Quella notte non chiusi occhio: troppo forte era il desiderio di rivedere le luci dell’alba e di lasciarmi cullare nuovamente dai ritmi armoniosi della natura.
Non avevo più una moglie, non avevo più un lavoro, non avevo più una vera casa ma avevo davanti a me tanto tempo e la chiara consapevolezza di avere imparato a governarlo con saggezza, come un abile manager gestisce una grande azienda.
Il Tempo era troppo prezioso per lasciarlo scorrere senza afferrarlo, senza rivoltarlo come un calzino, senza tuffarsi in esso come in acque profonde e trasparenti.
Come avevo potuto non accorgermene prima ?
Erano state necessarie le parole di un medico che mi comunicava che il Tempo a mia disposizione stava per scadere. Solo così avevo aperto gli occhi. Solo così era scattata la molla che ora mi catapultava nei territori splendenti della serenità.
Oggi, a distanza di otto anni dai fatti che ho provato a raccontare, vivo ancora alla baita come un semplice uomo di montagna, un uomo semplice ma solo apparentemente povero: ora sono più ricco di quando avevo un lavoro e una bella casa in città; ora possiedo un vero tesoro: il segreto del Tempo.
Lo custodisco gelosamente nella teca del cuore mentre con il mio cagnone cammino felice lungo i sentieri assolati della mia montagna incurante delle effimere lusinghe della vita passata.
La mia baita è isolata e non ha impianti d’allarme; il mio husky è un pessimo cane da guardia e io non possiedo un fucile o qualche altra diavoleria con cui difendermi.
Malgrado ciò lascio la porta aperta anche di notte e, quando il buio scende come un velo leggero a ricoprire i prati e i boschi della mia montagna, dormo tranquillo e sereno: nemmeno il più abile dei ladri, nemmeno Arsenio Lupin in persona potrebbe rubare il mio inestimabile tesoro, il segreto del Tempo.