«Sei squisito, tesoro».
La sala da pranzo ha due finestre grandi. La musica è Bach, Variazioni Goldberg, Aria. Il tavolo è un rettangolo di noce ma il colore non si vede.
«Davvero. Dopo tutti questi anni. Sei ancora così…delizioso».
La tovaglia è bianca. I piatti di porcellana. La donna afferra il calice alla base, stringendolo tra indice e pollice, e lo solleva verso l’alto. Il vino è rosso e fermo e si muove oscillando lungo le pareti di cristallo del bicchiere.
«Buon anniversario, caro».
L’uomo sorride e un filo di carne gli scivola tra gli incisivi, ricadendo appena sotto il labbro.
«Buon anniversario anche a te, cara».
Le risponde, imitando nel gesto la moglie, solo scandendo meno il movimento. Il calice traccia una curva rapida nell’aria, s’inclina a un passo dalla bocca, le labbra si aprono. Tutto qua.
Poi aggiunge:
«E nonostante tutto, cara, sappi che anche tu sei ancora tenerissima».
Infine abbassa il calice e insieme lo sguardo sul piatto.
«Nonostante tutto?»
Nel piatto.
«Si?»
«Cosa intendi con quel nonostante tutto?»
«Come? Nulla, cara».
Il piatto – la sua reale essenza – è la somma di ciò di cui è fatto e di ciò che contiene.
«Invece adesso mi spieghi cosa volevi dire con quel nonostante tutto».
Gli intima lei. Ha poggiato il calice sul tavolo ma insiste nel tenerlo tra le due dita.
«Non intendevo niente. E’ solo una frase di circostanza».
Sospira lui.
«No, tu lo sai cosa volevi dire».
«Cosa?»
«Che non sono più buona come prima».
L’uomo alza gli occhi al cielo. E’ così bianco.
Così pulito.
«Ma certo che lo sei».
Bach.
Ci sarebbe silenzio, altrimenti.
Lei è lì ferma e non dice nulla ma strofina la base del calice.
Lui sta fermo lì e non dice nulla.
Crede sia finita qui.
«Non ti piaccio più».
Non è finita lì.
«Cara…ti prego».
«Non ti piaccio più!».
Sta singhiozzando.
«Cara, ora basta».
Lui torna a posare lo sguardo sul piatto.
«Non è il caso ora di fare una tragedia per una frase senza importanza».
E poi sulla forchetta.
«E invece è importante!».
L’uomo scuote la testa, due volte. La forchetta ha una forma strana e spaventosa. Non è come il cucchiaio. Il cucchiaio ha una forma davvero stupida.
«Franco, guardarmi».
Il piatto e la forchetta.
«Franco, ho detto di guardarmi!»
L’uomo la guarda. Una goccia di sangue caldo le orna la guancia come il neo di una diva.
«Luisa, tutti con gli anni diventiamo diversi. Io per primo: ti sembro la stessa persona? Lo vedi bene anche tu, credo. Lo vedi, quello che non ho più».
E allarga un braccio. Un braccio solo.
«Sai benissimo che non intendevo quello».
Pausa. La donna sposta le dita dal calice alla tovaglia. Le fa scorrere sulla superficie di cotone finché non trova una leggera increspatura del tessuto. L’attrae e la soffoca fra le falangi.
«C’entra Lucia, vero?»
«Ancora con questa storia».
Sbuffa lui.
«Non hai mai provato niente di meglio di Lucia, eh?»
«Luisa, ti prego».
«Ma quanto è buona Lucia, quanto è dolce Lucia, quanto mi piace Lucia. Non mi stancherei mai di Lucia…».
«Non l’ho mai detto».
Mentre le mente, dilata il suo campo visivo. Il tavolo, le sedie, i piatti, i bicchieri, le bottiglie. La distanza tra loro è colmata da una serie di cose che per lo più contengono altre cose.
«L’hai detto. E ti si leggeva in faccia, cosa credi?»
La sala da pranzo è un sistema complesso di elementi statici, pieni e destinati a svuotarsi.
«E allora? Dove vuoi arrivare? Sai benissimo che dobbiamo farlo. Abbiamo bisogno di altre persone, per andare avanti».
«Non è vero».
«E Carlo allora? Ti sei dimenticata di lui, adesso?»
«Con Carlo era diverso».
«Ah, era diverso!»
«Carlo era necessario».
«Appunto, è quello che dico io».
Ma lei risponde:
«No. Perché Carlo non mi è mai davvero piaciuto. Era sopravvivenza, semplicemente».
La donna libera le dita dal loro appiglio di stoffa.
«Mentre tu, Franco, lo fai per il piacere. Lo fai per il gusto. Non perché non ti basto. Non perché ne hai bisogno, un bisogno vitale intendo. Tu lo fai perché lo vuoi, Franco. Tu lo vuoi!».
E così dicendo solleva l’unico indice che l’è rimasto.
E lo piega prima verso di sé.
«Questa è la differenza che c’è tra me».
E infine verso di lui.
«E te».
Poi tace.
Bach.
Ci sarebbe silenzio, altrimenti.
Franco annuisce.
«Forse hai ragione, cara».
Pausa.
«Si, mangiare lo stesso ogni giorno è stancante. Non solo: è nauseante. Lucia mi piaciuta? Si, eccome! L’ho divorata! Era buona con tutto: la patate, le zucchine, i piselli, i cavolfiori! E che ripieno ne ho fatto, e le polpette, e il lesso – sai cara quanto io odi il lesso – e invece Lucia…un lesso magnifico!»
«Sei crudele, Franco».
«No, non sono crudele. Sei tu che non vuoi guardare in faccia la realtà! Dobbiamo nutrirci di altri, mangiare altre persone, cibarci di esseri viventi, del tutto uguali a noi, perché né tu, né io siamo sufficienti. Non bastiamo a noi stessi. Eppure all’inizio capita di crederlo. Te li ricordi, i primi tempi, appena conosciuti? Tu, il mio piede sinistro. Io, la tua mano destra. Eravamo così affamati. Eravamo convinti di riuscire a farcela da soli. Non è vero? Non avevamo bisogno di nessun altro! Poi capisci che non è così. E’ una questione fisica, di proporzioni. Di quantità. Di tempo. E quindi di sopravvivenza? Si, naturalmente. Ma non venirmi a dire che è solo questo. C’è di più».
La donna si asciuga una lacrima col polso monco.
«La verità è che siamo golosi, siamo famelici, siamo voraci. Siamo cannibali! E mangeremmo chiunque, anche solo per sapere che sapore ha. Anche solo per poi sputarlo via al primo assaggio. Ma non importa. Questa è la nostra natura. Mangiamo quello che siamo. Certo, possiamo far finta che non sia così. Possiamo nutrirci di quel poco che basta e possiamo convincerci che sia giusto così».
L’uomo si accarezza il petto, la spalla, si ferma lì.
«E allora sì. Forse, cara, hai ragione».
Ogni tanto gli capita di sentire di avere ancora il braccio.
«Forse dovremmo smetterla davvero. Non mangiamo più nessun altro. Facile, no? Ci nutriremo solo di noi stessi. Da domani, ogni giorno, come oggi, come ora. Pezzo dopo pezzo. Al forno, alla griglia, stufato, arrosto, in brodo, fritto e al sangue! Fino a consumarci a vicenda. Preferisci così, cara?»
La donna fa segno di no con la testa.
«Bene».
Dice lui, con la forchetta in mano.
«E ora mangia, che le dita si freddano».