Non è facile trovare dei film concepiti e girati con l’occhio di un fotografo.
E, come in questo caso, per lo spettatore non è scontato accettare il primato dell’immagine sulla trama.
Un’estate densa di sensazioni e sapori, senza nessun vero dialogo, è proprio quella che troviamo in “Un eté a Saint-Tropez” (1984), l’ultimo esperimento cinematografico del fotografo inglese David Hamilton, i cui scatti più di una volta sono stati censurati e pesantemente criticati perché da molti considerati oltre il confine tra “nudi artistici” e “pornografia”, critica sovente avanzata ma spesso esagerata.
In quegli anni era ancora accettato rappresentare la corporeità con una disinvoltura che oggi ha perso di significato e che comunque relega il film tra quelli vietati ai minori di 18 anni.
Soprattutto quello che Hamilton ha portato sullo schermo sono stati i suoi scatti, le sue donne, le sue storie di scoperta della vita in una Provenza che mescola odori con una luce intensa e vaporosa.
I suoi soggetti si stagliano nell’azzurro mediterraneo e vivono il corpo come essi lo animano nella staticità delle sue fotografie. Come tante Ermione che abitano pinete, le sue giovani muse sanno calare lo spettatore nella macchia mediterranea e toccare nascoste verità dionisiache.
Chi conosce David Hamilton come fotografo si sorprenderà nel vedere con quale coerenza ed efficacia è riuscito a dare movimento alle sue pose.
Per chi è questo film:
Per chi non si aspetta nulla. Serve solo aver voglia di seguire un flusso di emozioni scatenato esclusivamente dalle immagini e nient’altro. Per chi è appassionato di fotografia, per chi ama immergersi nei sapori mediterranei e per chi è nostalgico di un paesaggio antico e allo stesso tempo novecentesco.
È anche un film per chi è alla costante ricerca della bellezza e non si scandalizza per un lungometraggio con la parola ridotta al nulla e ampio spazio al corpo.
FABIO REGIS