Caro diario,
ti scrivo perché il sole se n’è andato e oggi cerco qualcuno con cui parlare. La stanza è piena di silenzio e tutto sembra parlare di lui, oggi che è il suo giorno.
Non mi piace troppo parlare al passato, mi sembra di dare meno peso a ogni singola parola, a ogni pensiero che si riempie di un colore grigio, grigio come questo cielo.
Dal divano riesco a vedere il grande albero al centro del giardino, non ha le foglie e nel suo tronco mi sembra di scorgere un volto. Ora che piove, o almeno così pare dal rumore, quel volto sembra triste. Quando piove, prendo spesso questa penna in mano e mi lascio portare in un altro luogo. Chiudo gli occhi e cullata dal rumore della punta che sfiora la carta, mi ritrovo su una distesa di bianca sabbia col sole che arriva sui nostri volti, noi seduti sulla riva, con i cuori pieni di vita e di sogni… A pensarci su quella spiaggia non ci sono ancora andata, è da un po’ che quel viaggio mi aspetta… chissà quante altre pagine di diario scriverò prima di raggiungere quel posto.
Ogni essere che respira e abita su questo pianeta possiede dei sogni, anche senza averli mai chiusi in un cassetto o senza aver mai provato a realizzarli. I sogni sono quel qualcosa che ti fa brillare lo sguardo, anche al suono di una parola semplicissima o a un profumo che arriva e muove qualcosa dentro. Che poi cambiano e scriverli su un foglietto e lasciarli lì sarebbe un po’ riduttivo. Ciascuno cresce e cambia; con noi anche quei desideri, così lontani o bizzarri, non restano fermi -o almeno così hanno fatto i miei.
Quando mi potevo ancora definire “piccola”, il mio sogno era essere una spia, con una missione ben precisa da compiere a casa della nonna, nella sala celeste. Ho provato così tante volte a entrare lì che non saprei dire quante.
Sulla parete nord della stanza, quella che non riusciva a conoscere il sole durante il corso della giornata, c’era una vetrinetta: il mio obiettivo. Trattenendo il respiro, mi avvicinavo in punta di piedi alla grande porta doppia, facevo scorrere appena una delle due metà, giusto per passarci, e nel modo più silenzioso che una bambina di sette anni può conoscere, aprivo l’anta trasparente in cerca del mio bottino: caramelle rosse. Inutile dire che puntualmente un dito picchiettava sulla mia spalla appena prima di completare la missione. Guardando la sua nipotina sconfitta e amareggiata, nonna mi prendeva sulle sue gambe e mi raccontava una delle sue storie per ore intere, portandomi in mondi lontani e sempre nuovi. Non penso che abbia mai sentito la fine di quelle storie, mamma veniva sempre a chiamarmi sul più bello.
Qualche volta succedeva che la memoria di nonna vacillasse: in quelle occasioni toccava a me scegliere una storia, tra tutte quelle bloccate lì su uno scaffale. Di libri ne aveva tanti, tanti che alcuni non trovavano un posto anche dopo settimane dall’acquisto, nonostante di spazio ce ne fosse in abbondanza. Nonna lasciava sempre il ripiano centrale mezzo vuoto, per quei libri che non aveva ancora letto, per quelli che avrebbe amato con tutta sé stessa e che sarebbero arrivati al momento giusto.
Libri che arrivano al momento giusto… il mio libro è arrivato durante le vacanze di Natale, in prima media forse: “Il barone rampante” di Italo Calvino -la maestra lo diede come compito a tutte le sue classi.
All’epoca pensavo che nonna possedesse tutti i libri di questo mondo, così dopo aver appuntato titolo e autore, andai da lei. Il mio presentimento era giusto: tra i suoi mattoni colorati c’era anche quel romanzo, soltanto che non poteva darmelo perché l’aveva prestato al vicino, un certo Signor Pi che abitava nella grande casa bianca e arancione in fondo alla via. Accidenti nonna!
Come ho fatto senza quel libro? Non ho fatto perché sono andata a prendermelo, suonando a quello stupido campanello e ti direi “per fortuna che l’ho fatto”.
Il signore con la camicia stropicciata che venne ad aprire la porta, non sembrò sorpreso di vedermi. Mi salutò con un cenno della testa e prima che iniziassi a dire qualcosa, lui si era già lasciato me e la porta alle spalle. Lo seguii e, varcando la soglia di quella stanza, il fiato sembrò vacillare, un po’ come il mio piede mancando il gradino. Se credevo che nonna avesse tanti libri, lui ne aveva infinitamente di più. Perché aveva sempre amato guardare pagine piene di parole per ore intere e, con l’arrivo di quel silenzio, ancora di più.
Il Signor Pi non era un banchiere famoso, non portava la cravatta (in effetti non ne aveva mai avuta una, forse non l’aveva nemmeno mai chiesta a nessuno per Natale) e si muoveva solo con i mezzi pubblici; l’auto rimaneva chiusa nel garage, come in attesa che servisse a qualcuno per andare lontano. Raramente qualche suo collega lo passava a prendere, magari quando c’era qualche riunione importante al mattino e non erano ammessi ritardatari.
La signora Pi era una giornalista, con il sogno di raggiungere ogni angolo del mondo e di catturare ogni istante nei suoi articoli. Fu la sua ultima partenza a rendere tutto silenzioso.
I due avevano un figlio che non conoscevo, corvino di capelli come la madre; ora era lì sulla poltrona color prato, vicino alla grande finestra: si presentò con il nome di Tommy -se fosse il diminutivo di qualcosa non l’ho mai saputo. Da quel pomeriggio, quel bambino in cerca di più risposte possibili, divenne il mio migliore amico.
Tutto per quel libro che non finii mai, ma che rimane il mio libro preferito. In quei giorni, Tommy aveva iniziato a stare a casa nostra più tempo perché il padre doveva lavorare e cucinare non rientrava nelle abilità del bambino.
Una mattina Tommy era seduto a cavalcioni su di un ramo -secondo lui abbastanza stabile, a me sembravano tutti poco robusti-, dell’albero grande del giardino. Riusciva a salire senza strapparsi i pantaloni e gli piaceva guardare tutto dall’alto: tutto bianco e diverso, come fosse un mondo nuovo. Quella notte aveva nevicato un bel po’. Io ero poggiata al tronco e col naso all’insù cercavo di non sentire il freddo; Tommy, intanto, mi raccontava cosa vedeva. Nei suoi occhi c’era quel luccichio lì.
A un certo punto, si apre la portafinestra e compare mamma: rimane un attimo ferma, come se il gelo l’avesse addirittura bloccata, e inizia a chiamare a gran voce il “baronetto” per farlo scendere. Tommy scoppia a ridere e dice che vuole essere come Cosimo, vivere sugli alberi senza toccare mai più terra. “Chi è Cosimo? Un amico tuo?”. Credo di aver letto da qualche parte che, quando qualcosa inizia, fa un rumore e se ci stai attento è un rumore bellissimo. Ti direi che le risate di quella mattina sono quel rumore lì, il rumore della nostra amicizia appena iniziata.
Perché siamo diventati amici? Ovviamente per tutto quello che ho detto sopra, ma ad essere sinceri anche per le caramelle. Quelle che non riuscivo mai a prendere a casa di nonna e che anche a Tommy piacevano. Gliele comprava sempre la madre quando era piccolo e ne teneva sempre un po’ nel comodino: a quanto diceva lui per rendere più vero il suo sogno; secondo me era soltanto perché gli piacevano da morire. Quale era il sogno di Tommy quando diventammo amici? Essere un soldato. Quale è il sogno del Tommy diventato grande? Essere ancora un soldato. Perché il suo sogno era così forte e vero da restare immutato negli anni e, caro mio diario, questa cosa gliela ho sempre invidiata. Lui non voleva essere un soldato con le armi, ma bensì un uomo buono e forte, capace di far sparire la tristezza dalle persone. E per quest’ultima cosa le caramelle rosse erano fondamentali.
Per Tommy però esistevano anche gli incubi, che lo venivano a trovare ogni tanto. A nessuno però lo diceva. A me era permesso leggerlo nei suoi occhi verdi. Difficilmente era lui a raccontare, ma a volte se lo sentiva. E io ero lì, mai abbastanza pronta, mai con le parole giuste.
L’ho letta quella lettera, la lettera che la Signora Pi ha lasciato sullo scrittoio nella libreria. Risaliva a molti anni prima, per la precisione a prima di quella spedizione senza ritorno. Diceva in poche righe quanto si sentisse bene a bordo di un aeroplano, con le nuvole tutto attorno e con una meta nuova da raggiungere, lontana da quel posto che avrebbe dovuto chiamare casa. Chiedeva scusa ai suoi due ometti e confessava di avere paura: paura di vivere per sempre nello stesso posto, paura di trascorrere solo giornate tutte uguali e paura di perdersi. Se per ciascuno esiste una persona, quella persona che ti completa e ti rende semplicemente migliore, lei era fortunata, perché di persone ne aveva addirittura due: Tommy e suo padre.
Per molto tempo, Tommy si era sentito abbandonato, non voluto e aveva condiviso tutto con la paura. Perché aveva paura del silenzio, di stare solo e di non sognare più. La paura era diventata come la sua ombra e si prendeva gioco di lui, che poi a dirlo così sembra un’altra storia. Una paura che ti blocca, che ti fa mancare il fiato la mattina presto, ma che ti spinge comunque a fare quello che uno stupido programma della giornata dice. La nostra casa, che sapeva di biscotti e aveva libri su ogni parete, gli era stata amica, portando la luce dove la luce non c’era.
Lui era forte, così forte che finiti gli studi, prese un aereo e andò a fare il soldato per davvero. Lui che andava in bicicletta senza mani, lui che si appendeva a testa in giù dagli alberi e iniziava a dire tutti i nomi dei paesi degli Stati Uniti senza dimenticarne nessuno. Lui che si fermava a guardare il cielo ogni mattina chiedendosi se fosse diverso dal giorno precedente. Lui che ora stava realizzando il suo sogno.
Quel pomeriggio di fine estate, mi diede la chiave del suo comodino e mi disse di aver chiuso lì i suoi cinque sogni, quei cinque buoni motivi per cui ogni mattina si alzava, per cui andava a vivere la sua vita e per cui ora stava partendo. Sottolineò che avrei potuto trovarci anche qualche caramella, in quei giorni in cui mi fosse mancato un po’ troppo. Quando l’ho abbracciato, l’ho stretto così forte a me, come per fermare il tempo. Non ricordo cosa mi disse… diamine avrei dovuto starci attenta.
Il giorno in cui è tornato me lo sentivo: avevo lo stomaco attorcigliato e quella mattina non ero riuscita a mandare giù niente. A lavoro non riuscivo a concentrarmi e il cielo mi sembrava diverso.
Me lo sono ritrovata sulle scale di casa, con una busta della spesa piena di caramelle, probabilmente tutte quelle reperibili in aeroporto. Il suo volto aveva qualche anno in più, qualche graffio di troppo. Gli occhi erano i suoi, sempre lo stesso verde, sempre con quel luccichio dentro. Sul petto, che alzava e abbassava più lentamente di quanto ricordassi, portava una stella -onorificenza con un nome troppo complicato-: ora aveva con sé un pezzo di cielo.
Tommy è diventato grande dall’altra parte del mondo e pensare che ora vive in un condominio, fa strano, anche a distanza di anni. Non ci siamo mai sposati -giusto per la precisione- perché non compatibili a dividere lo stesso divano o un barattolo di gelato per una vita intera; restiamo entrambi il primo amore dell’altro.
Quale era il mio sogno? In effetti non ne ho proprio parlato o, meglio, così può sembrare. In realtà sono quasi un centinaio di righe che lo sto narrando.
Il mio sogno era che Tommy tornasse da quella missione, da quella prima maledetta missione, perché in realtà non è mai tornato. A volte ripenso a quell’ultima volta che mi ha sorriso, all’ultima volta che i suoi occhi verdi mi hanno guardato dentro e sembra tutto così lontano. Il mio sogno era mangiare ogni giorno quelle caramelle rosse con lui –il mio dentista, pensandoci, sarebbe diventato ricco.
Tommy se n’è andato presto, un po’ come il sole oggi. Con una valigia non così pesante e lasciando qui il suo cassetto, ancora troppo pieno. Molti dimenticano di avere un cassetto e dei sogni; alcuni perdono la chiave con il primo trasloco o perdono sé stessi. Io ora al collo di chiavi ne ho due, due chiavi che aprono un cassetto solo perché ai miei sogni si sono aggiunti i suoi e quei cinque buoni motivi ora sono un po’ di più.
Confesso che sto cercando ancora di realizzarli, almeno per quanto sia possibile -andare sulla luna, scusa Tommy, è un po’ difficile. Una vita forse non basta per svuotare il proprio cassetto -che poi lo si potrebbe anche solo alleggerire un po’-, ma due forse sì. Nel nostro cassetto, quello dove i miei sogni si sono mischiati ai suoi, rimane il voler prendere un mezzo qualsiasi e raggiungere il punto in cui il mare è più sincero e limpido, e fermarmi lì, godendomi il sole, che sembra di nuovo qui con noi…
“Mamma, vieni a vedere, è uscito l’arcobaleno” grida un bambino dall’altra stanza. È mio figlio, si chiama Tommy anche lui e domani sarà il suo compleanno. Compie cinque anni. Oggi l’altro Tommy, quello con il cielo sul petto, ne avrebbe compiuti qualcuno in più.
Grazie diario per avermi ricordato di lui, grazie diario per avermi fatto ritrovare i miei sogni. Ora ho una torta da preparare -forse due- e un tesoro da cercare.
Con affetto,
Bea
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