I segreti della martesana: “Il segreto della martesana”

Il secondo racconto della rubrica è di Barbara: votate lo scritto che più vi emoziona

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Ecco il secondo racconto della nostra rubrica a opera degli allievi del corso di scrittura creativa di Artèofficina. L’autrice è Barbara, cernuschese di nascita e vimodronese d’adozione, che racconta la storia di una famiglia contadina e di una ragazzina chiamata a fare i conti con la fatica di vivere negli anni della Seconda Guerra Mondiale.

Non possiamo non ricordarvi che voi lettori siete, come sempre, al primo posto.
Votate con un like il vostro racconto preferito: al termine della rubrica, il vincitore otterrà un’intervista esclusiva con noi!

Qui il primo racconto, uscito domenica scorsa.

Buona lettura!

 

IL SEGRETO DELLA MARTESANA

Faceva freddo, tanto freddo. Era quasi la fine dell’inverno, eppure nevicava incessantemente da tre giorni. Nelle poche ore in cui smetteva, le temperature si abbassavano talmente tanto da far subito ghiacciare la neve caduta al suolo. Girare per il paese in quelle condizioni era praticamente impossibile, oltre che inutile. Era proprio quello che pensava Maria guardando fuori dalla finestra, avvolta nel suo vecchio scialle. Era una famiglia di contadini quella di Maria: vivevano dei prodotti della terra e del loro bestiame. Avevano tutto quello che poteva servire per resistere durante l’inverno, chiusi tra la casa e la stalla, anche se di certo non ce ne sarebbe stato bisogno. Prima o poi avrebbe smesso di nevicare.
Freddo o no, Maria doveva aiutare sua madre a lavare i panni nel Naviglio. Se da un lato questa era una delle attività che preferiva, dall’altro era forse quella che le costava maggior fatica. Già durante la bella stagione, tenere le mani a bagno per lungo tempo nelle acque fredde della Martesana, le faceva venire i geloni che faticavano a passare e che anzi, spesso, si trasformavano in ragadi sanguinanti. Non che la schiena la ringraziasse per tutte quelle ore che passava chinata in ginocchio. Insaponava gli indumenti di tutta la famiglia oltre alle lenzuola dei pochi letti che divideva con i suoi fratelli e le sue sorelle, ben più grandi di lei. Con questo freddo, e con tutta la neve che era caduta finora, il lavaggio dei panni sarebbe stato un massacro per mani, schiena, ginocchia e ogni parte del corpo coinvolto in questo duro compito lasciato alla totale gestione delle donne.

Il lato positivo di andare al Naviglio a lavare i panni era la possibilità di trascorrere del tempo con sua madre, sempre troppo occupata a star dietro a tutte le faccende di casa. Era proprio durante il tragitto che Maria iniziava a raccontare alla donna tutti i pensieri che le affollavano la mente, soprattutto da quando suo padre le aveva proibito di andare a scuola. L’Italia era in guerra da alcuni anni e per via dei continui bombardamenti, non ultimo quello di qualche mese prima nel quartiere Gorla, Giulio era troppo spaventato all’idea di dover andare a raccogliere i resti della figlia sotto le macerie di qualche scuola. Così, però, Maria sapeva bene che non avrebbe avuto modo di studiare tutte quelle cose scritte sui libri di scuola che tanto le piaceva imparare.

“Mamma, tu pensi che un giorno potrò tornare a scuola?”

“Non lo so Maria, dipende…”

“Dipende da cosa?”

“Dipende da quando finirà la guerra, sperando che finisca in fretta”.

“Quando pensi che finirà? Ma non potresti parlare tu col , per fargli cambiare idea? Se la guerra non finisce, vuol dire che non potrò più tornare a scuola?”

“Se la guerra non finisce e le cose vanno avanti così, qua moriamo tutti, scuola o non scuola! Lo sai che tuo padre ha paura che i fascisti gli uccidono i figli. E se non sono i fascisti, son le bombe. Quindi niente scuola. E poi, sai leggere, scrivere e far di conto, sei una donna e questo ti basta! Cos’è che vuoi di più?”

“Ma il Paolo e il Carlo sono andati in guerra. E lui non gli ha detto niente”.

Sì, tal diset ti! Perché eri ancora a scuola quando gli hanno detto che partivano tutti e due a soldato. El to papà al vusava com un matt quand ghe l’han dì!Tanto se non lo decidevano i tuoi fratelli di andare in guerra, li venivano a prendere le camicie nere, preocupess no!

Maria aveva visto la mamma abbassare gli occhi e irrigidire il volto: sapere i suoi figli in guerra era una gran preoccupazione per lei e non amava discuterne. Finché i suoi fratelli non fossero tornati a casa dalla guerra sulle proprie gambe, quell’argomento per i suoi vecchi genitori rappresentava un grande cruccio. Meglio quindi smettere di parlarne.

“Mamma, cosa fai da mangiare stasera?”

Minestra cunt i fasö

“E poi?”

Ghe lì el furmàcc, un toc de pan e via andare!

“Ma fai sempre la minestra da mangiare… io ho fame…”

Maria, o ta magnet la minestra…”

“Sì, sì, lo so, lo so…!” bofonchiava tra sé la ragazzina.

Maria aveva dieci anni. Era di corporatura robusta e aveva continuamente fame, specie da quando si era fatta signorina. La madre cercava di riempirle la pancia di verdure, così come aveva cresciuto le sorelle più grandi, ma con lei non aveva mai funzionato troppo. Più che alle sorelle, tutte così minute e graciline, lei somigliava ai fratelli: viso tondo, due belle guanciotte rubiconde, occhi grandi e lunghi capelli mossi castani. Anche nei modi sembrava un maschiaccio: parlava spesso con un tono alto della voce e proprio per il grande appetito che non l’abbandonava mai, non perdeva occasione di rubacchiare tutto quello che di commestibile trovava in casa. Quando Anna, sua madre, la beccava lontano dai pasti con la bocca piena, non perdeva occasione di sgridarla o tirarle dietro una ciabattata. Non erano ricchi, c’era la guerra e il cibo doveva bastare per tutti. Anna faticava a tenere a bada tutta questa fame, che negli ultimi anni non riguardava più soltanto l’appetito, ma anche la voglia di sapere e di conoscere. Si rendeva conto, un giorno dopo l’altro, che questa sua ultima figlia si faceva sempre più curiosa nel tentativo di osservare e capire la realtà che la circondava e che spesso, nemmeno lei era in grado di poterle spiegare. Del resto Anna era una donna umile, con un carattere docile e senza grilli per la testa. Aveva avuto la fortuna, perché in quegli anni di quello si trattava, di aver sposato un uomo per amore. Insieme avevano creato una famiglia di sette figli, due maschi e cinque femmine e Maria era proprio l’ultima di loro, arrivata quando ormai nessuno l’aspettava più.

“La bella la va al fosso, ravanei remolaz barbabietol’ e spinaz, tre palanche al mazz,

la bella la va al fosso, al fosso a resentar, e al fosso a resentar.

Intant che la resenta, ravanei remolaz …”

Appena Zita vide Maria e sua madre, smise di cantare.

“Ue don, vardè che l’è rivada l’Anna cunt la sua tusa! Andem pusè in là che ga fem un pustisin per resentà i pagn. Cià tusan, vegni chi insema!

“Ciao Zita, ciao a tutte!” disse allegramente Maria appoggiando a terra il cestone strabordante di panni da lavare.

L’accoglienza delle donne che si ritrovavano al lavatoio del Naviglio, era sempre molto festosa e Maria si divertiva un mondo a trascorrere il tempo con loro. In particolare, era molto affezionata a Zita, un donnone di mezz’età che viveva con i suoi vecchi genitori, nella stessa corte di Maria. Zita era una maréla, come la chiamavano tutti in sua assenza, o meglio signorinacome amava definirsi lei quando qualcuno che non la conosceva, le chiedeva se avesse un marito.

Non essere sposata, in quegli anni, era per una donna quasi un’onta perché, al di là di quelle ragazze che avevano deciso di immolare la propria vita all’altare di anziani genitori da accudire, la mancanza di un uomo con il quale condividere la quotidianità, era un segno che marchiava inesorabilmente una donna. Le cose erano due: o si trattava di una femmina fallata, di salute cagionevole o con qualche problema fisico, oppure era una donna con un carattere talmente indomabile da far desistere qualsiasi pretendente. Zita era un concentrato di tutte queste sfortunate condizioni: figlia unica, nata quando i genitori erano già avanti con gli anni, donna dal carattere terribilmente rissoso e massa umana di oltre un quintale per un metro e ottanta centimetri di altezza. A onor del vero, però, la Zita era una donna di gran cuore, soprattutto per chi, come Maria, aveva la fortuna di entrare nelle sue grazie.

Maria aveva messo la sua cesta vicino a quella delle altre donne e si era inginocchiata vicino a Zita, iniziando a bagnare i primi indumenti.

“Alura Maria, cuma ta stet?”

“Bene, grazie Zita! E’ fredda l’acqua?”

Ma va là!Bolle, ci puoi buttare la pasta!”

Un momento di silenzio e poi tutte le donne scoppiarono in una fragorosa risata.

Ue Anna…” disse Rosa ad Anna cercando di parlare sottovoce per non farsi sentire dalle altre che nel frattempo avevano ripreso a cantare.“…dim una roba: ho sentito dire che vi si è allargata la famiglia.L’è vera?” continuò Rosa dando di gomito ad Anna.

Ma no, sa ta diset?Non è vero, siamo sempre noi, anzi semmai mancano il Paolo e il Carlo che, tal set, in partì a suldà!” rispose Anna con un certo imbarazzo cercando di limitare la curiosità di Rosa.

“Sai” proseguì Rosa “l’altro giorno stavo per entrare dal prestinè, quando ho sentito con queste orecchie sua moglie che diceva alla Paolina che avete degli ospiti e che vi faranno passare dei guai…”

“No!” tagliò corto Anna, visibilmente scocciata “To dì de no! Pientela Rosa! Non c’è nessun ospite. Prego Dio tutti i giorni di rimandarmi a casa i miei fiö e che la guera la fignis!”

Maria guardò la madre che aveva alzato la voce, cosa insolita per lei: non aveva però capito molto di quello che si erano dette lei e Rosa, se non che a casa loro non ci fosse nessun ospite. Ospite, pensò Maria: ma figurati se potevano mai permettersi di avere degli ospiti… già c’era poco per loro, immaginati a dover dividere letti, spazi e soprattutto cibo con qualcun altro… Rosa era proprio una visionaria ficcanaso.

Un pezzo dopo l’altro, tutti gli indumenti erano stati lavati: le mani si erano congelate a sufficienza, quindi potevano tornare a casa a stendere.

Maria e sua madre, in compagnia di Zita, raccolsero tutte le loro cose, salutarono le altre donne e si avviarono verso casa, in quella che tutti chiamavano la Corte del Cairo, a Vimodrone.

Maria l’aveva sempre considerata una fortuna quella di abitare di fianco al Naviglio, non solo perché era in una posizione comoda per andare a lavare i panni ma anche perché nei mesi più caldi dell’anno, i ragazzini e le bambine passavano interi pomeriggi a fare il bagno nella Martesana. I maschi più temerari, si tuffavano in mutande dal ponte, pensando in questo modo di dimostrare agli amici il proprio coraggio. Crescendo le bambine abbandonavano pian piano questi giochi, rimanendo in disparte fra loro a parlare, sedute sugli argini del canale con i piedi a mollo. Maria, femmina di genere, ma maschiaccio nell’animo, era sempre stata una bambina sprezzante del pericolo: aveva coraggio da vendere e, tuffo dopo tuffo, era diventata una fuoriclasse, tanto da guadagnarsi la stima degli altri ragazzini che si ritrovavano d’estate sulla sponda del canale.

In quell’inverno però le cose erano cambiate. Maria s’era fatta grande e si rendeva conto anche lei che il suo corpo non era più quello di una bambina: il pensiero dell’estate che stava per arrivare, la metteva in imbarazzo, tanto da non essere più certa di voler ancora andare a fare il bagno nel Naviglio con i suoi amici. Comunque fosse, doveva fare i conti con i bombardamenti che nelle ultime settimane si erano fatti più frequenti: non passava giorno che il suono assordante delle sirene iniziasse ad avvisare la gente di mettersi al riparo nel miglior modo possibile.

Quella stessa sera, il padre di Maria tornò a casa dopo il lavoro, accompagnato dal parroco del paese, che si sarebbe fermato a cena. I genitori di Maria erano molto religiosi e capitava che, di tanto in tanto, il parroco passasse a fare visita alla famiglia e su invito di Anna e Giulio, restasse a mangiare con loro. Maria era contenta perché ospitare Don Alfonso significava avere qualcuno di colto per casa con cui parlare, in lingua italiana, di qualcosa di interessante. Sapeva inoltre di avere l’appoggio del parroco per quanto riguardava la possibilità di riprendere a frequentare la scuola: anzi, forse era proprio per quello che lei gli aveva detto durante l’ultima confessione, che Don Alfonso aveva colto la palla al balzo e aveva iniziato a parlare con suo padre. Sicuramente fermarsi a cena era un pretesto per intavolare il discorso e far cambiare idea a Giulio per convincerlo a farla tornare a scuola.

Guardando i due dalla finestra della cucina, Maria si rese conto, però, che con tutta probabilità Don Alfonso non aveva neppure accennato della scuola a suo padre: stavano parlando animatamente uno di fronte all’altro di qualcosa che lei non riusciva a decifrare. Suo padre reggeva con una mano la bicicletta e con l’altra continuava a gesticolare facendo dei movimenti bruschi e impettiti. Aveva il busto proteso in avanti, verso Don Alfonso e gli occhi sgranati, quasi impauriti: si vedeva che era davvero arrabbiato e il parroco, dal canto suo, cercava di farlo calmare toccandogli una spalla. Probabilmente, se quello che aveva davanti non fosse stato il parroco di Vimodrone, Giulio gli avrebbe tirato un pugno senza pensarci due volte. Don Alfonso mise una mano attorno alla nuca di Giulio e lo tirò a sé: l’uomo appoggiò la fronte sulla spalla del prete e, sconsolato, iniziò a piangere come un bambino. Maria era spaventata: non aveva mai visto suo padre discutere così tanto con il parroco e terminare il confronto piangendo abbandonandosi tra le braccia dell’altro in modo così arrendevole. La ragazza si spostò dalla finestra. Restare lì e vedere quella scena le aveva fatto davvero male.

Dopo qualche minuto, Giulio e Don Alfonso entrarono in casa e iniziarono a comportarsi come se nulla fosse. La cena si svolse tranquillamente e tutti ascoltarono con interesse i racconti del parroco. Maria, però, non aveva appetito: aver visto suo padre piangere l’aveva fatta rimanere male. Di cosa avevano discusso i due uomini? Perché suo padre aveva pianto? Cosa poteva fare per aiutarlo? Con tutti quei pensieri che le affollavano la mente, Maria non si era accorta che era già il momento di andare a letto, almeno per lei, la piccola di casa. Tutti gli altri sarebbero andati a scaldarsi nella stalla insieme alle mucche e ai due asinelli che in quegli anni di guerra erano un’alternativa economica alla legna da bruciare nel focolare domestico.

Nel pieno della notte, Maria si risvegliò con una gran fame. Aveva sbagliato a non cenare, ma del resto lo stomaco le si era completamente chiuso e aveva preferito andare a letto digiuna. Adesso però aveva appetito, e neanche l’idea di dover abbandonare le coperte calde per scendere in cucina a cercare qualcosa da sgranocchiare, l’aveva fatta desistere. Aveva fame e avrebbe fatto di tutto per mettere sotto i denti un pezzo di pane col formaggio. Scese dal letto scavalcando la sorella che dormiva con lei e prese le scale per andare al piano di sotto. Non voleva farsi sentire dagli altri, soprattutto da sua madre che senz’altro, se l’avesse scoperta, gliele avrebbe suonate di santa ragione. Per fortuna la luce della luna piena illuminava tutta la cucina. Maria si guardò intorno e iniziò a tastare le varie superfici della cucina per trovare il pane avanzato dalla cena. Cercò sul tavolo, sul bordo del camino e sulla credenza, ma non trovò niente. Provò allora ad aprire il buffet, dove di solito sua madre metteva il pane avvolto in uno straccio per mantenerlo morbido, ma nemmeno lì trovò nulla. Tra l’altro nel buffet e nella credenza non c’era neppure l’ombra del formaggio, oltre a quella del pane. Possibile che avessero terminato tutto quanto? Eppure aveva visto con i suoi occhi che a fine cena era rimasta un po’ di minestra nel pentolone e sulla tavola ancora apparecchiata, c’era mezza forma di taleggio e metà filone di pane. Maria non si perse d’animo e continuò a cercare, ma senza successo. Dopo un po’, però, i piedi coperti solo dalle calze si erano congelati e lo scialle che si era messa sopra alla camicia da notte non era più sufficiente per tenerla calda. Doveva desistere e tornare a letto. Avrebbe dovuto fare lo sforzo di riaddormentarsi a pancia vuota: pazienza, la mattina dopo avrebbe fatto una colazione rinforzata.

L’indomani Maria si svegliò di buon’ora e scese per prima per preparare la colazione a tutti. Poco dopo arrivò anche sua madre, quasi stupita che Maria fosse in piedi e già così attiva.

Ciao, ta se gemò chi, te durmì no?” chiese Anna con aria sospettosa.

“Buongiorno! No ho dormito, ma sinceramente avevo una gran fame e non vedevo l’ora di fare colazione.”

“Eh per forsa, ier sera te mangià no… adess ta magnet anca i gamp del taul!”

“Ieri sera non ho mangiato perché mi era passata la fame. Ho visto il papà dalla finestra mentre discuteva col parroco e poi alla fine ha iniziato a piangere. Tu lo sai il perché, cos’è successo?”

“Maria non sono cose per te. Tuo padre ha un po’ di pensieri,ma preghi el Signur de vutam. Ti, te gemò dì el pater stamatina? Prega Maria, prega el Signur!” concluse Anna sperando che la sua spiegazione fosse sufficiente a saziare la curiosità della figlia.

“Mamma, ma ieri sera non era rimasta un po’ di minestra e metà forma di taleggio? E il pane che fine ha fatto?”

“Perché me lo domandi? Il latte non ti basta? Non mangerai mica la minestra a quest’ora? E comunque no, ti ricordi male, non è avanzato niente da ieri sera. Quando sei andata a letto, son tornata qui a prendere il formaggio e il pane e l’ho portato agli altri che erano in stalla. Un pezzo alla volta, se lo son mangiato tutto”.

“E la minestra?” chiese Maria.

“Oh… ma ta stüfiset Maria! Va a ciamà i to surei che l’è prunt!”tagliò corto Anna, sempre più in difficoltà nel rispondere alle domande pressanti della ragazzina.

Maria salì le scale per andare a svegliare le sorelle ancora a letto, ma dopo i primi gradini sentì chiudersi una porta. Quando raggiunse la camera dove dormivano le sorelle, nessuna di loro era già sveglia, anzi, nemmeno le cannonate le avrebbero tirate giù dal letto. Ma allora chi aveva chiuso la porta? E quale porta poi, visto che nessuna delle due camere da letto che si trovavano al secondo piano ne aveva una. L’unico portoncino che c’era era quello per andare nel solaio. Aveva assi di legno grezzo e una fascia orizzontale di ferro sulla quale era posto un chiavistello. Lì però nessuno ci andava mai e anzi, adesso che ci pensava bene, Maria si ricordava di aver visto qualche settimana prima, che il chiavistello era stato chiuso con un lucchetto tutto arrugginito. Maria, tra la paura e la curiosità, si fece forza e decise di andare a vedere se c’era qualcuno sul solaio.

Rasente il muro salì pian piano le scale e quando finalmente arrivò davanti al portoncino del sottotetto vide che il chiavistello era ancora chiuso dall’esterno con il lucchetto arrugginito. Si doveva essere sbagliata, il rumore che era sicura di aver sentito non poteva essere arrivato da lì.

Ritornò nella camera dove c’erano le sue sorelle. Aprì finestra e persiane e iniziò a urlare a squarciagola che era ora di alzarsi. Poi scappò via lasciando la finestra aperta, costringendo in questo modo qualcuna delle sue sorelle ad alzarsi a chiuderla e a quel punto a prepararsi per fare colazione.

Quando Maria arrivò in cucina, suo padre entrò dalla porta con in mano due bottiglie di latte appena munto. Giulio era sempre il primo a svegliarsi: andava in stalla a prendersi cura delle sue bestie che dovevano essere nutrite nelle prime ore della giornata.

“Ecco qua il latte caldo appena munto, va che roba!” disse Giulio tutto tronfio del latte delle sue mucche.

“Grazie papà, lo metto subito nelle tazze di tutti”.

“No Maria, fal büi! Lo sai che fa male il latte se lo bevi subito. Ta vöret sta mal?”.

“Va bene, lo faccio bollire, tanto le mie sorelle non sono ancora scese… anzi, dagli una voce tu, così vedrai come corrono!”

Tusan alura, vegnì giò che l’è ura!” gridò il padre affacciandosi sulla scala che portava al secondo piano.

Maria mise il latte a bollire e nel frattempo si sentì sollevata nel vedere che suo padre sembrava essere più tranquillo della sera precedente. Forse era solo davvero preoccupato dalla guerra e dal pensiero di avere i suoi due unici figli maschi a combattere.

Dopo la colazione, Anna chiese a Maria di andare dalla zia Angela, sua sorella, a portare le uova che le loro galline avevano fatto quella stessa mattina. L’unica bicicletta da donna che possedevano l’aveva presa una delle sorelle di Maria, quindi le sarebbe toccato far tutta la strada a piedi.

Maria si incamminò ben avvolta nel suo paltò, di due taglie più grandi. Essendo l’ultima della famiglia, tutti gli abiti che indossava erano quelli dismessi dalle sorelle maggiori. Sognava di riuscire, un giorno, ad avere la possibilità di comprarsi un soprabito adatto a lei, capace di tenerle davvero caldo nei freddi mesi invernali. Anche lei sperava che la guerra finisse in fretta perché così avrebbe potuto finire la scuola e cercarsi finalmente un lavoro che le permettesse sia di aiutare la sua famiglia che di poter fare qualche spesuccia in più, assolutamente proibita in quegli anni di conflitto. Maria era assorta nei suoi pensieri, tanto che non si accorse delle sue due amiche che la stavano salutando dall’altra parte della strada. Cecilia e Giovanna la chiamarono ripetutamente ma si accorsero dall’espressione del suo volto che Maria aveva la testa immersa in altri pensieri. Decisero quindi di attraversare la strada per scambiare due parole con lei.

“Ue ciao Maria! Non ci hai sentite, l’è mesura che ta saludum, ma ti niente!” disse Cecilia.

“Ciao tusan! Scusatemi non vi ho proprio sentite. Sto andando da mia sia ‘Ngelina a purtà i öf di gain. Voi dove state andando?” chiese Maria.

“Dalle suore per imparare a ricamare. Noi non siamo fortunate come te che hai una sorella talmente brava e ti può insegnare.” Le rispose Giovanna con un velo di bonaria invidia.

Effettivamente Pinuccia, una delle quattro sorelle di Maria, era davvero un asso nel ricamo. Aveva iniziato ad imparare anche lei andando dalle suore, più o meno quando aveva l’età di Maria. Poi, però, aveva affinato la tecnica grazie alla nonna materna che negli ultimi anni della sua vita aveva vissuto in casa con loro. Pinuccia non era brava solo a ricamare, ma anche nel lavorare la lana e a cucire abiti: come dicevano tutti in paese, aveva davvero le mani da fata.

“Eh si, hai ragione Giovanna! Mia sorella è proprio brava! Va beh tusan, fa frech, vi saluto che vado da mia zia!”

“Sì sì, vai Maria, non vogliamo farti perdere tempo. Adesso, poi, che siete aumentati in famiglia, chissà quante cose avrete da fare” le disse Cecilia ammiccando a Giovanna.

Maria aveva già ripreso la sua strada, quando si bloccò nel sentire le parole della sua amica.

“Scusa Cecilia, cos’hai detto?” chiese Maria tra il sorpreso e l’irritato.

“Ma sì dai, non far finta di non saperlo!” le rispose Cecilia.

Giovanna, però, aveva preso Cecilia sottobraccio e aveva iniziato a strattonarla per andare via da lì e non arrivare in ritardo dalle suore.

Maria rimase ferma in mezzo alla strada, inebetita a guardare le amiche che si allontanavano. Aveva le braccia lungo il corpo e il sacchetto delle uova penzolante nella mano destra. Non aveva capito niente di quello che le aveva detto Cecilia, se non che qualcosa di strano stava davvero succedendo a casa sua.

Per il resto della giornata, Maria continuò a pensare e ripensare a tutte le stranezze degli ultimi giorni: prima le domande insistenti di Rosa, poi lo scontro di suo padre con il parroco terminato in un fiume di lacrime, il cibo scomparso, i rumori in casa, i discorsi di Cecilia volutamente lasciati a metà… Davvero non capiva quale fosse il filo conduttore di tutti questi episodi, ammesso che ne esistesse uno. La ragazzina si sentiva un po’ in ansia: sapeva, dentro di sé, che qualcosa era successo e per placare questo senso di inquietudine misto a curiosità, decise di iniziare ad indagare. Non voleva farsi scoprire da nessuno, anche se la tentazione di condividere le sue paure con qualcun altro era davvero forte.

La sera stessa, Maria studiò attentamente tutti i movimenti di sua madre sin dalla preparazione della cena. Cercava di mostrarsi agli occhi della donna allegra come sempre, saltellando e canticchiando per la cucina, senza però perdere l’attenzione per quello che succedeva attorno a lei. Dopo cena Maria rimase davanti al camino con sua sorella Pinuccia che l’aveva aiutata ad avviare una sciarpa da fare a maglia. Nel frattempo, mentre Pinuccia contava i punti, Maria controllava di sottecchi dov’erano finiti i resti della cena. Vide sua madre mettere la pasta avanzata in una grossa ciotola, lasciandola stranamente sul bordo del camino, quasi volesse mantenerla calda. Anche la verdura era stata messa vicino alla ciotola della pasta, e accanto, Anna aveva aggiunto il pane rimasto sul tavolo.

Maria andò a letto, cercando di fare il possibile per non addormentarsi: del resto, come avrebbe potuto scoprire la verità se non avesse visto con i suoi occhi dove finiva tutto quel ben di dio avanzato a fine cena? Per non dormire, iniziò a ripetere mentalmente le tabelline, ma la cantilena terminò rapidamente e dovette pensare a qualcos’altro per evitare di abbandonarsi ad un sonno profondo. Fece lo sforzo di ricordare le poesie imparate a memoria quando ancora andava a scuola: “Il sabato del villaggio”, “Il 5 maggio”, “A Silvia”, “Marzo 1821”… Ben presto, però, finirono anche le poesie, e come previsto gli occhi ormai stanchi di Maria, le giocarono il brutto scherzo di chiudersi.

Fortunatamente quella sera, le voci squillanti delle sue sorelle che stavano salendo le scale per andare a coricarsi, la svegliarono improvvisamente. Si impose quindi di non dormire e questa volta riuscì nell’impresa, nonostante continuasse a tenere gli occhi chiusi fingendo di essersi addormentata. Dopo una manciata di minuti sentì il passo stanco di sua madre salire la scala: Maria pensava che fosse venuta a vedere se le figlie stavano dormendo, ma in realtà si stava sbagliando. Anna teneva nella mano sinistra una lanterna accesa e con la mano destra reggeva un vecchio vassoio sul quale Maria riconosceva chiaramente la ciotola con la pastasciutta, le verdure e il pane. Anche suo padre salì le scale con in mano due bottiglie, una di acqua e una di vino. Maria vide i genitori salire fino all’ultimo piano della casa, proprio in direzione del solaio. La curiosità della ragazzina era insaziabile e per tutta l’adrenalina che aveva in corpo iniziò a tremare. Si mise addosso lo scialle e decise di salire anche lei per vedere chi era nascosto sul solaio. Un gradino dopo l’altro arrivò nel piccolo pianerottolo dell’ultimo piano: il portoncino di legno era spalancato. Maria si nascose dietro lo stipite della porta e guardò dentro il sottotetto. C’era una luce fioca in un angolo del solaio che non le permetteva di vedere bene tutte le persone sedute a terra attorno alla lanterna. Riusciva però a sentire quello che dicevano nonostante le persone parlassero tra loro sussurrando. Ben presto si accorse di non conoscere tutte le voci che sentiva. Sua madre parlava piano e aveva la voce dolce, quasi come se stesse parlando ad un bambino.

“Tieni Giosuè, mangia un pochino di pastasciutta, altrimenti come fai a diventare grande?”

“Grazie Anna, ho tanta fame, non vedevo l’ora che venivate su a portarci da mangiare!”. A rispondere era la voce di un bambino, Maria non aveva dubbi.

“Grazie Anna, non so proprio come avremmo fatto senza di voi e la vostra generosità. Spero davvero un giorno di potervi ringraziare non solo con le parole”. Maria non sapeva a chi apparteneva questa voce di donna, che continuò a dire alla madre “Anna, sai, sto iniziando a perdere le speranze. Ho paura di non farcela, quanto dovremo vivere segregati qua sopra? Quanto durerà ancora la guerra?”. La donna iniziò a piangere.

“No Clara, non ricominciare a piangere!” disse un uomo dalla voce profonda “Ne abbiamo già parlato tante volte, anzi a dire il vero, non parliamo d’altro. Dobbiamo essere forti, non possiamo farci prendere dallo sconforto altrimenti è la fine. Dobbiamo tenere duro sia per il nostro Giosuè che per questa famiglia che ci ha accolto e ci ha nascosto. Lo dobbiamo a Don Alfonso e alla Zita che ci hanno trovato un riparo. Se i fascisti ci trovano qui è la fine per tutti: sai qual è il trattamento che riservano a chi nasconde gli ebrei in casa propria, vero?” l’uomo non riuscì a terminare il suo discorso, perché la voce gli si riempì di commozione e scoppiò in un pianto irrefrenabile.

Maria era sconvolta: stavano nascondendo una famiglia di ebrei, ecco qual era il segreto. Era piena di paura: aveva sentito parlare di quello che combinavano i fascisti a chi, come loro, aiutava gli ebrei o era contro al regime. Una volta durante l’omelia, Don Alfonso aveva persino raccontato della fine che era toccata ad un suo amico prete che aveva nascosto nella canonica della chiesa tre famiglie di ebrei. L’avevano preso a bastonate e poi appeso ad un ponte a testa in giù e l’avevano lasciato lì penzolante. Quando il sergente era tornato lì dopo due giorni, si era accorto che il prete non era ancora morto e lo aveva finito con una rivoltellata in testa.

Maria tornò a letto, ma inutile dire che non prese sonno per tutta la notte. Continuava a pensare a quello che aveva appena scoperto e alla povera vita che era toccata in sorte a queste persone. Perché tutto questo accanimento verso gli ebrei? Che male aveva fatto questa gente per essere obbligata a vivere segregata in un solaio?

L’indomani mattina, dopo aver aiutato la mamma nelle faccende domestiche, Maria andò a sedersi sul ponticello del Naviglio. Aveva le gambe a penzoloni e la testa tra le mani. Guardava nel vuoto e pensava ancora al segreto della sua famiglia.

Di lì a qualche minuto passò la Zita in bicicletta e vedendo Maria così sconsolata sul ponte le urlò:

Mariaa!! Sa ta fet lì linscì? Te se dre spetà el tram?”

Maria, sentitasi chiamare a gran voce, ebbe un sussulto. Zita si fermò in prossimità del ponte e Maria alzò la mano per salutarla, senza però andare verso di lei. Zita scese dalla bicicletta, l’appoggiò alla siepe e salì sul ponte.

Ue tusa, cosa c’è? Perché sei così triste?” chiese Zita a Maria.

“Zita ho scoperto tutto: so qual è il segreto della mia famiglia”.

Dai ven giò dal punt, andiamo a sederci sulla panchina che ci parliamo con calma insieme, mi e ti. Dai però, fa in freta, che col peso da piuma che ho, lo sfondo questo ponticello!”

Le due si sedettero su una panchina sotto le piante: l’inverno era finito e finalmente il sole iniziava a manifestarsi nelle prime timide temperature primaverili. Era piacevole stare sedute all’ombra delle piante lungo la Martesana, luogo ideale dove fare due chiacchiere e condividere i pensieri.

“Chi te l’ha detto Maria?” chiese Zita alla ragazzina.

“Nessuno, l’ho scoperto da sola. Ultimamente succedevano un po’ di cose strane, allora ieri sera ho tenuto d’occhio mia mamma e ho visto che prima di andare a dormire, lei e mio padre portavano la cena avanzata in soffitta. Li ho seguiti di nascosto e ho visto a chi l’hanno portata. Zita, ho sentito mentre quei tre che parlavano con i miei genitori e gli ebrei dicevano che ti sono molto grati per tutto l’aiuto che gli hai dato. Solo adesso ho capito perché mio padre aveva discusso l’altra sera con il parroco. Immagino che fosse per la paura di avere in casa persone come loro. Se i fascisti lo vengono a sapere ci ammazzano tutti, te compresa!”.

“Stai tranquilla Maria che non succede niente di male. Basta far finta di niente e continuare con la stessa vita di sempre.”

“E sta povera gente poi… ma come vive? Hanno un bambino, quanti anni ha?”.

“Nove, mi sembra. Si chiama Giosuè. È una famiglia che arriva da Milano, avevano un’azienda di tessitura, son dei sciuri, questi chi, gan i danè… o almeno è stato così finché non hanno iniziato con i rastrellamenti, quelli più restrittivi. Erano talmente ricchi che avevano comprato dei documenti falsi, in modo che quelli del fascio non li beccavano. Poi però qualcuno dei dipendenti deve aver fatto la spia alle camicie nere e allora hanno iniziato a perseguitarli. Sono riusciti a scappare solo perché avevano degli amici molto in alto che li hanno avvisati in tempo. Ma è più o meno da un anno che vivono così. Si nascondono un po’ di qua e un po’ di là, nelle cantine o nei solai delle famiglie che sono contro al regime e hanno il coraggio di aiutarli. Dopo che tua mamma gli porta su da mangiare, in piena notte, escono dalla soffitta e vanno in fondo alla corte dove ci sono i bagni, perché sai, è dura tenerla tutto il giorno… Poi, una volta alla settimana, vengono giù da me nella mia cantina dove gli preparo una tinozza d’acqua calda, per fare il bagno. Sì l’è vera, fan una vita da rat. Però preocupess no, teniamo duro, vedrai che presto la guerra finirà e anche loro torneranno a vivere alla luce del sole. Non bisogna mai perdere la speranza.”

“Lo spero Zita. Ma senti, cosa fa Giosuè tutto il giorno? Come fa a far passare il tempo? Non si annoia?”

“Ah non lo so cosa fa. Certo che si annoierà, ma per aver salva la pelle, non c’è molto da fare.”

“Secondo te Zita, potrei scrivergli una lettera, digli che esisto, regalargli dei fogli e qualche matita per farlo scrivere, un libro da leggere, potrebbe aiutarlo a sentirsi meno solo, a non annoiarsi? Cosa ne pensi?”

“Penso che avere la tua compagnia, anche se da lontano, è per lui il più bel regalo che gli puoi fare. Avviso io tua mamma che lo sai, così non devi litigarci come al solito… Scrivigli una lettera al Giosuè, vedrai come lo fai felice. Ma mi raccomando non dire niente a nessuno che è un attimo che si sparge la voce per Vimudrun e pö…”

*******

Caro Giosuè,

Mi chiamo Maria e sono la più piccola di questa famiglia. Ho dieci anni e fino a un paio di mesi fa, andavo a scuola. Poi per via della guerra e dei continui bombardamenti, mio padre si è preso paura e non ha più voluto mandarmi a scuola. Ha paura che una bomba colpisce la scuola o che i fascisti un giorno diventan matti del tutto e vengono dentro alle classi per uccidere tutti i bambini. A me dispiace molto di non poter andare a scuola, perché mi piace studiare e imparare le cose che si leggono sui libri. Adesso che non vado a scuola aiuto la mamma nei mestieri e nelle faccende, ma spesso mi annoio anche se ho un sacco di amici.

Conosciamo tanti giochi, ma quello che preferisco è quando d’estate andiamo a fare il bagno nel Naviglio. Adesso non è ancora il tempo giusto, ma tra qualche settimana, quando inizia a fare caldo, spero che possiamo andarci ancora al Naviglio… sai con questa guerra non si può mai sapere… Quando però finisce questa maledetta guerra, vieni anche tu con me a fare il bagno nel fiume, così ti faccio conoscere tutti i miei amici.

Volevo dirti che mi dispiace che devi vivere chiuso in soffitta e se a volte mi annoio io, chissà quanto ti devi annoiare tu lì dentro. Allora ho pensato a cosa potevo fare per aiutarti a far passare il tempo. Ti lascio qualche foglio che ho strappato dal mio quaderno e una matita che usavo a scuola, tanto per un po’ mi sa che non mi serviranno… Se vuoi ci possiamo scrivere, così ci passa il tempo. Poi l’altro giorno sono andata dalle suore e ho chiesto in prestito un libro della loro biblioteca, così lo puoi leggere se vuoi. Poi però quando l’hai finito me lo devi ridare perché lo devo riportare alle suore. Sai quelle sembrano tante buone e gentili, ma son sparagnine e alle loro cose ci tengono.

Allora se hai voglia scrivimi. Ciao!

Maria