“Prikhod.”
Una parola. Una verità assoluta.
Arrivano.
La guerra c’era già. Fuori le porte della città incedeva col suo passo di sanguinosa marcia per l’Europa tutta e poi ancora oltre, sulla cresta dell’Atlantico, sorpassati i massicci delle Montagne Rocciose, dopo la democrazia e il Pacifico, valicata l’Asia, fino a tornar qui nel suo ciclo inviolabile.
Caos. Gente che correva per strada, sirene che suonavano, soldati che marciavano coi loro colbacchi per le vie grigie della città. La notte del dodici settembre del 1941, le flebili luci che illuminavano le nostre case saltarono, lasciandoci in un buio denso e terrificante. Dall’inizio dell’assedio erano passati soltanto quattro giorni. La città intera piombò in un clima di inquieta sospensione e incertezza e col passare dei giorni nei kommunalki come quello in cui abitavamo io e la mia famiglia, ci si rese ben presto conto che alle porte di Leningrado, presto, oltre ai tedeschi avrebbe bussato anche la fame.
Papà era sicuro che Stalin avrebbe inviato un contingente di soccorso e che avrebbe annientato l’armata nazista, ma i giorni passavano con lo scandire dei primi picchi di temperatura e i grovigli di fame all’altezza dello stomaco. Poi, iniziò il gioco alla talpa. Gli ospedali della città contavano una stima di cinquantamila feriti e sedicimila morti. Tra questi ultimi, c’era anche mio padre. Era ormai novembre inoltrato quando i nazisti presero a bombardare miratamente panifici, recinti di bestiame e tutto ciò che potesse fornire sostentamento alla città. Il giorno del mio compleanno, mia sorella di otto anni mi cedette il suo pezzo di pane ammuffito.
Quella notte, uscii di casa. Si diceva che per le vie del centro, la gente ancora ballava e suonava per sopperire a quella disperazione che, labile, segnava il confine tra pazzia e desiderio di vivere. Non so quale delle due mi spinse ad infilare le punte e a ballare sulla pietra di Moskovskaya ploschad, al ritmo affaticato di una banda di adolescenti allampanati che avevano a malapena la forza di sollevare gli archetti dalle corde dei violini e di soffiare all’interno dei flauti. Eppure, per un dolcissimo per quanto fugace frangente, mi parve di non trovarmi più lì, di aver tracciato in volo una parabola che, magicamente, mi aveva strappato via dalla miseria di quella città fantasma.
Sulla via del ritorno, mentre mi trascinavo con i muscoli intorpiditi e lo stomaco che gorgogliava, inciampai e crollai a terra. Quando mi volsi indietro, scorsi orbite vuote fissarmi inespressive. Un cadavere come tanti se ne incontravano, buttati lì senza una sepoltura né un nome… Mi chiesi se anche mio padre si trovasse in un qualche vicolo secondario, la faccia schiacciata contro la neve sporca. Che ne era del vigore e della giovinezza sprecati ad inseguire con fiducia cieca un uomo che aveva promesso di far grande la Russia? Una Russia che ora moriva di fame. Era troppo freddo, il giorno in cui la notizia c’era pervenuta, per uscir di casa e reclamare la carne fredda di un padre, un marito. Eravamo rimasti entro le mura di casa, apparecchiando la tavola come se quella sera tutti e quattro avessimo potuto sederci e cenare come prima della guerra, come prima della fine.
Mia madre stava sciacquando l’unico piatto da cui le nostre dita attingevano concordemente, quando d’improvviso, per le strade della città si diffuse una morbida voce di donna che cantava: Mi uccideranno, lo so, un lunedì, e mi lasceranno giacere dove sta il lavatoio. E là si laverà il mio scagnozzo sorprendendosi dei baci, ridendo, mentre si lava.
Io ero fuori che fumavo l’ultimo mozzicone del sigaro lasciato come una sorta di eredità da mio padre. Con quell’uomo con cui a malapena avevo diviso il tetto e il piatto, lui che rigido aveva sempre cercato di opporsi alla mia danza prima e all’amore per il pianoforte di Olga poi. Quell’uomo sordo della bellezza e così infarcito del piombo e dell’odio.
Rabbrividii all’udire quel canto senza musica. Entrai in casa e trascinai fuori dal letto mi sorella. Ascoltò quel lamento folle con gli occhi grandi che si riempivano di una bellezza che non riuscivamo a vedere, che perveniva soltanto dall’inconsistenza dell’aria che vibrava di quelle armoniche che costruivano la voce della donna. Rimanemmo stretti l’uno all’altra, scaldandoci, lei rannicchiata nel mio cappotto lercio e ormai quasi pesante contro il corpo orfano del vigore con cui il Bol’šoj lo aveva forgiato. Erano tempi così lontani, sospesi in un ricordo cristallizzato sulle note del primo balletto da protagonista, Petrushka. Era accaduto tre anni prima e ancora ricordavo l’ebbrezza del momento in cui il Ciarlatano mi aveva animato. Mi ero risvegliato, quasi come il mio personaggio, in un universo vivo, di spettatori che mi osservavano affamati dei miei movimenti, in un gioco paradossale tra la finzione che incanta il reale e il reale che impregna la finzione. Mia sorella aveva aspettato fuori dal teatro, il corpo avvolto dalla pelliccia vecchia di nostra madre, gli occhi grandi proprio come li aveva in quel momento: “Hai volato?” “Ho volato.”
D’improvviso, un accordo rabbioso strappò i ricordi alla mente per ghermirla dentro il presente. S’annuvolò, allora, il silenzio di rincorse di semiminime e terzine che nervosamente parevano quasi richiamare alla resilienza e alla lotta noi fantasmi, esuli e prigionieri al tempo stesso della nostra Leningrado. La trovai esagerata, la trovai… politica. Avevo sentito dai racconti degli altri ballerini della bellezza dei compositori al di là del confine, della dolcezza e della maestosità di quelle menti. E avrei voluto sentirle anche io, assaporare una musica diversa da quella imposta dal partito che aveva costretto tanti dei nostri ad inscatolarsi nei limiti imposti.
Il contatto della mano di Olga mi fece sussultare: osservava il buio con un sorriso nostalgico e mi pareva quasi una vecchietta nei suoi dieci anni.
“E’ bellissimo.”
“Non lo trovi… arrogantemente caotico?”
Olga annuì e finse di muovere maldestramente le dita, trascinandole, sulla pelle del mio avambraccio. “Del resto, non è forse così anche la vita umana?”
“Se solo ce ne fosse davvero rimasta, di vita.”
Olga mi aveva guardato con i suoi occhi liquidi, quasi si scioglievano assieme alla neve che ammantava la città. “Fintanto che ci aggrappiamo alla speranza, fintanto che non cediamo alla disperazione che infeltrisce i sogni del futuro, ci sarà sempre vita. Per quanto sia debole, baluginante, quella del presente, il domani è carico di un tripudio di quella vita, fratello mio. O almeno, così mi piace sognarlo, il domani.”
Ma non ci sarebbe stato quel domani per mia sorella. Due giorni dopo, Olga si tratteneva nel mondo dei vivi con la sola forza della stretta della mia mano e della speranza che infondevano le melodie vibranti dall’altoparlante. Mi chiese di aprire la finestra, nonostante il freddo pungente: “Voglio ascoltare.”
Pathetique di Pëtr Il’ič Čajkovskij. L’avrei scoperto solo tempo dopo, in un teatro a Parigi. Avrei riconosciuto le note, il dolore traspirante dalle corde, i corni, l’oboe, la tuba… Avrei stretto la manina delicata di mia figlia Marie e lei avrebbe chiesto: “Papa, perché piangi?” Non avrei saputo rispondere.
Quegli stessi altoparlanti da cui si levava l’asprezza delle parole che profetizzavano guerra e gloria, si erano solo riempiti di una musica che, nelle macerie, ricostruiva un qualcosa forse ancor più importante delle case, del cibo… La nostra umanità. Ci aggrappavamo a quelle poesie e a quella musica con le unghie per non abbandonarci al degrado della nostra condizione.
E aveva ragione, Olga. Mi costrinsi ad aggrapparmi a quei sogni fragili come le ali di una farfalla perché io volevo vivere. E forse, forse anche Olga, se avessi sperato e combattuto per entrambi, sarebbe vissuta.
L’Inverno stava per finire. Per le strade si rincorrevano voci: che l’assedio sarebbe terminato in primavera, che Stalin avrebbe, nuovamente, stretto la mano del cancelliere in cambio della salvezza della città… Voci che, mescolandosi alla dolcezza di sinfonie e versi, rincuoravano. E poi c’erano quelle brutte, quelle di fronte a cui era meglio premersi le mani sulle orecchie. Uomini che per la fame lancinante mangiano altri uomini. Uomini che si nutrono dei cadaveri per le strade… Ma quelle voci era meglio ignorarle.
Comunque sarebbero poi andate le cose, comunque si sarebbero rivoltate le sorti della guerra, Olga non avrebbe comunque visto l’alba del mattino a seguire. Lo sapevo io, lo sapeva anche lei. Avrei voluto chiederglielo, se era quello il tripudio di vita che sognava per sé, per me, per la nostra città.
“Balleresti. Per me?”
E ballai per lei. Ballai per lei sapendo che quella sarebbe stata la nostra ultima volta. Nel risicato contorno della piccola stanza, volteggiando in maniera impropria, scoordinata, selvaggia, una danza sbagliata, una danza universale per richiamare la sua piccola anima a me. La presi tra le braccia sul lamento del Moderato con cui il Principe Siegfried giungeva al lago, ai suoi cigni. Il mio piccolo cigno giaceva abbandonato tra le braccia, i suoi capelli cenere sparsi sul viso che m’impedivano di vedere, che mi rendevano goffo, brutto, disperato in quella stretta morbosa.
Prima che i cigni potessero comparire agli occhi del principe, al rintocco della mezzanotte, gli occhi di Olga si cristallizzarono come uno dei tanti fiocchi di neve che appannava il vetro delle finestre. Prima del sospiro, una preghiera sussurrata all’orecchio, tanto flebile la voce e possente la musica che proveniva dall’altoparlante della piazza: “Non lasciarmi sulle strade”.
Mia madre la avvolse con il lenzuolo di lino che per primo aveva foderato il materasso del letto coniugale. Le cosparse i capelli con un unguento che ormai aveva perso quasi totalmente il suo profumo e le chiuse gli occhi, baciandole la fronte. La soffitta pullulante di topi divenne il suo sepolcro. Le finestre la sua porta per il Paradiso. Quella notte, mia madre apparecchiò la tavola sebbene di che mangiare non avessimo più nulla se non neve fresca. Rispolverò le argenterie, si acconciò i capelli in un’elaborata capigliatura, indossò uno dei suoi vestiti più belli… C’era questa cura, questa attenzione alle piccolezze dell’esistenza che permaneva e aiutava ad ignorare il resto. Infine, aprì la finestra e in quell’esatto momento, dall’altoparlante di fronte casa risuonò un accordo struggente e angoscioso. Un do maggiore che mi s’insinuò sotto pelle. Un do maggiore che sapeva di desolazione e abbandono. La nostra città era desolata e noi, noi eravamo poveri sciocchi abbandonati… Eppure. Eppure nella morte eravamo così vivi, come non lo eravamo mai stati. Sognavamo la fine della fame, la fine del dolore e nell’infantile gesto di sognare, ci perdevamo nella vita.
Una vita che irrompeva in ogni dove in quel do maggiore che parlava di noi, di Leningrado. E poi vennero gli archi, speranzosi, testardi nelle loro promesse di rivincita. Io m’infilai le punte, mia madre si sedette al posto di papà, e iniziai a volteggiare.
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