Una madre

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Da che ho memoria, ho sempre sognato di essere come mia madre. Da che il mio corpo era piccolo e scarno, troppo per contenerla. A 5 anni mi guardavo nel grande specchio della camera e immaginavo di inglobarla in me, di fagocitarla e di diventare improvvisamente identica a lei, stando dentro quel corpo tanto più grande del mio. Tutta quella superficie contenente gli anni di vita, le esperienze che aveva vissuto, volevo tutto. Trovavo frustrante non sapere cosa avesse vissuto prima della mia infanzia, poterlo apprendere solo attraverso i suoi racconti approssimativi e frettolosi, come se lei non fosse la cosa più interessante sulla faccia della terra. Cos’altro ci poteva essere da dire, da fare, in quale posto doveva mai andare che fosse più importante di quella camera? Resta, resta e racconta ancora, pensavo. Ma anche quel suo dover essere altrove, a fare altro, in fondo alimentava il grande mistero che lei rappresentava ai miei occhi.

Portava calze velate e orecchini grandi, si tingeva i capelli di biondo e metteva vestiti colorati, scarpe col tacco, rossetto. I suoi indumenti e i luoghi che abitava in casa profumavano di quelli che per me erano altri universi. Non metteva profumi dolci, i suoi erano speziati e torbidi, pungenti e forti al punto da essere quasi sgradevoli.
Mia madre non amava prendermi per mano, diceva che ero una bambina grande, che solo le bambine piccole avevano bisogno di essere prese per mano. Ma quando attraversavamo le strisce pedonali o camminavamo al lato della strada, la sua mano arrivava ad afferrare la mia, istintivamente. Mi strattonava per il polso, o per l’avambraccio, il primo rettangolo di carne che riusciva ad agguantare andava bene. Guardavo la sua testa spostarsi da destra a sinistra, gli occhi vigili mentre pensava lei a muoversi per il mondo al posto mio. Io mi lasciavo trascinare, sentivo la sua forza e rallentavo l’andatura perché quel momento durasse più a lungo, non facendo altro che irritarla. A volte mi portava alla presentazione di qualche libro o ad un concerto, eventi dove quasi sempre conosceva persone con giacche di camoscio e strani cappelli, che fumavano molto e non ti guardavano in faccia. All’uscita si fermava a chiacchierare e non mi presentava, rimanevo dietro la sua gonna lunga, osservavo come ammaliava le persone, come scoppiava in una risata enfatica al momento giusto. Suonava come cristallo che si rompe o campanellini che vengono scossi dal vento. Allora immaginavo di essere io quella con cui parlava, di sentire il suo alito profumato sul viso, di vedere la piccola macchia di rossetto sui suoi denti e le linee fini che le si formavano intorno agli occhi. I suoi amici non chiedevano chi fossi, forse non amavano i bambini, o forse anche loro avevano figli di cui si dimenticavano, figli che erano capitati e basta, che dovevano inserire nelle loro giornate in qualche modo, figli di cui si ricordavano il lunedì mattina appena svegli, sbuffando.

Io sognavo di essere lei. Sognavo la sua lingua pungente, sognavo di tenere testa agli uomini nelle conversazioni, di fare battute sarcastiche e brillanti come le sue. Sognavo di non chiamare mai mia madre, come faceva lei, di sparire dalla circolazione per settimane perché in fondo era una misantropa e si sentiva giù, perché nessuno contava veramente e nessuno meritava di avere sue notizie. Sognavo di leggere i libri che leggeva lei, assorta, appollaiata sulla grande poltrona in salotto con un vecchio maglione da uomo disseminato di pallini di lana. Sognavo persino di saper essere crudele come lo era lei con le persone, perché la sua crudeltà le dava potere. Osservavo con meraviglia gli uomini e le amiche tornare dopo che li aveva calpestati ballando la samba sui loro cuori infranti, dopo averla vista ignorare le loro chiamate e tradire la loro fiducia nei modi più disparati.
Più conoscevo mia madre, più conoscevo anche la distanza incolmabile che mi separava da lei. Più conoscevo mia madre, più ero incapace di indossare qualcosa che non cadesse nella scala dei grigi, di acconciare i miei capelli, di esprimere pubblicamente un’opinione, di ballare, di ridere fragorosamente in un cinema pieno. Ero anche incapace di stabilire un rapporto vero con un’altra persona, perché incapace di lasciarmi andare. Non sapevo come ero fatta, perché per tutta la mia vita la sua personalità aveva invaso ogni stanza della nostra casa e della mia mente. Perché ero anche io, dopo tutto, una di quelle amiche che calpestava e non richiamava, uno degli amanti che urlava il suo nome sotto casa alle due di notte senza ricevere risposta.

A volte sognavo la carta da parati della nostra sala da pranzo. Ghirigori e riccioli complessi, attorcigliati gli uni sugli altri in un motivo impegnativo, adornato di piccole ghiande e fiori bianchi. L’estate dei miei 13 anni, mia madre se ne andò da casa per due settimane, senza dire niente. Durante quelle settimane sognai più volte la carta da parati. Sognavo di essere stesa a terra, supina, con la schiena nuda contro il pavimento di graniglia freddo, mentre le ombre del mondo esterno si riversavano nella stanza dalla finestra aperta. Le ombre scorrevano sul mio corpo bianco, illuminato dalla luna, mentre io fissavo la carta da parati. La scena era immersa nel silenzio e ogni cosa sembrava emergere da una nebbia fredda. Nel fotogramma successivo ero in piedi, tutto il mio corpo schiacciato contro il muro, e la pelle fatta dello stesso motivo di quella carta da parati. Il sogno terminava quando chinavo gli occhi ad osservare una delle mie mani, scoprendo che era fatta di carta.
In quel periodo stavo molto in silenzio, ascoltavo e osservavo i miei coetanei. Carta da parati. Sentivo una sorta di dignità in loro, un’interezza che io non avevo. Pensavo che si leggesse sul mio viso, sul mio corpo, sul mio modo di camminare, che non ero altro che un insieme di cocci raffazzonato per rimanere integro, incollato insieme alla buona, sempre in procinto di rompersi di nuovo. Ero convinta che questo mi rendesse strana e impossibile da amare. Passavo le mie giornate da sola, parlavo così poco che a volte mi stupivo del suono della mia voce quando lasciava le mie labbra.

Come per conservare me stessa intera, per mantenere insieme i pezzi il più possibile, lasciai che un sentimento nuovo e più forte di quella cieca ammirazione di bambina si facesse strada dentro di me: era odio. Odio per il suo modo vistoso di vestirsi, quando veniva a prendermi all’uscita di scuola e tutti si giravano a guardarla. Odio per la sua camminata, per il suo modo di parlare e di scostarsi i capelli dal viso, odio per il suo essere continuamente troppo, per la sua incapacità di essere madre, per la sua incompatibilità naturale per quel ruolo. Odiavo le sue opinioni politiche, filosofiche, artistiche, odiavo che ne avesse sempre una, di opinione, su tutto. Che non sapesse mai stare in silenzio, che non ascoltasse mai, che non lasciasse mai intravedere nessun grado di mediocrità attraverso quel muro di fascinoso caos che aveva costruito con tanto impegno. Odiavo che alla fine fosse riuscita a convincere anche me che fosse reale.

Un pomeriggio d’estate invitò un gruppo di amici a casa nostra. Faceva un caldo torrido e soffocante, il quartiere si era svuotato per le vacanze ed era immerso nella tranquillità. I capelli mi si appiccicavano alla fronte come liane umide e i palmi delle mani mi sudavano. Tornando a casa li vidi, stavano tutti in giardino, uno di loro aveva una chitarra che non sapeva suonare. C’erano ragazze con gli shorts e ragazzi con gli occhiali da sole e le sigarette incastrate dietro all’orecchio. Mia madre rideva reggendo un bicchiere di vino bianco, a piedi nudi sull’erba. Feci il giro della casa per evitarli, ma mi videro comunque, e sentii qualcuno chiedere chi fossi. “mia sorella” rispose mia madre.

Uno dei suoi amici entrò in casa mentre io ero in piedi davanti al frigo, e si chiuse la porta finestra alle spalle. Gli schiamazzi e la musica si abbassarono di volume, come risucchiati dall’esterno. Le orecchie mi fischiavano leggermente. Mi disse ciao e io risposi ciao senza guardarlo, continuavo a fissare il frigo mezzo vuoto come se qualcosa di fresco e delizioso potesse materializzarsi davanti a me da un momento all’altro. L’amico di mia madre disse qualcosa riguardo al caldo che non capii e a cui risposi con un vago sorriso imbarazzato. Venne verso di me e si allungò per prendere una birra dal frigo, sfiorandomi il braccio. Odorava di sigarette e sudore, e rimasi immobile. Si spostò alle mie spalle, e sentii il rumore di un cassetto che si apriva e poi quello del tappo che saltava via dalla bottiglia di birra. Una goccia di sudore che era in bilico da un po’ tra le mie scapole scese veloce lungo la schiena, irritandomi. Lui si mosse alle mie spalle, sentii due respiri caldi sfiorarmi il collo. Poi mi infilò una mano sotto la gonna. Ne avvertii il calore, la violenza e la sensazione appiccicosa sulla pelle. Fu come se sotto alle mie clavicole si fosse formato un lago nero e profondo, e un masso vi si fosse schiantato contro, affondando per centinaia di metri, fino in fondo, fino all’intestino. Ingurgitai il mio stesso respiro, chiuso nella gola da un nodo sempre più stretto. Avevo la bocca amara e non riuscivo a muovermi, paralizzata dal terrore. Davanti a me vedevo l’interno del frigo, di una tristezza disarmante. Una busta di insalata avviata, due birre, un cartone di succo di frutta e uno spicchio d’aglio. Pensai che concentrandomi sulla luce bianca e accecante del frigo mi sarei rilassata e sarei riuscita a muovermi, a correre via da quella mano. Ma non successe. Mi mossi solo quando sentii uno schianto alle mie spalle e la pressione di quella mano scivolare via dall’interno della mia coscia, lasciando una chiazza bollente che prudeva. Mia madre aveva preso una delle sedie pieghevoli dal giardino e l’aveva schiantata addosso al suo amico, che era riverso a terra. Urlava e teneva le braccia tese verso di lei, con le mani aperte in segno di resa. Le loro voci mi arrivavano lontane, vedevo le bocche muoversi veloci e piccoli schizzi di saliva volare percorrendo la distanza che li divideva. Poi li aveva cacciati tutti di casa urlando, ed era rimasta per un lungo momento a respirare forte dal naso con la mascella serrata e la bocca ridotta a una linea sottile, la fronte appoggiata contro la porta chiusa. Era tornata verso di me con i talloni nudi che battevano sul pavimento, e mi aveva tirato uno schiaffo, talmente forte da farmi barcollare. Poi era scoppiata in lacrime e mi aveva abbracciata, per un momento che mi era sembrato interminabile. Mi aveva tenuta stretta al suo petto, nonostante fossi più alta di lei. Avevo il collo storto e i capelli mi erano entrati in bocca, ma non mi ero allontanata.

Dopo quell’episodio le cose tra noi migliorarono. Mia madre si sforzava di non ignorarmi, di fare cose normali come cucinare verdure e affacciarsi in camera mia per controllare come stessi. Mi aiutò persino a scegliere l’università e ad iscrivermi. Per studiare mi trasferii lontano da casa, avevo dei coinquilini gentili e andavo a piedi in facoltà tutti i giorni e al lavoro nei fine settimana. La distanza mi rivelò che non ero tra le persone a cui mia madre non rispondeva al telefono. Mi chiamava spesso, le mancavo. Non lo diceva mai, ma iniziavo a credere che fosse così, se non altro per un suo egoistico desiderio di compagnia in quella che era diventata una vita di profonda solitudine. Al telefono non parlavamo mai di niente di serio, mai delle nostre vite. Ormai erano divise dai chilometri e da troppe differenze. La sua voce era meno sicura di prima, come se dalla mia nuova prospettiva avessi finalmente avuto accesso ad un segreto che era stato sotto il mio naso per tutta la vita, come se avessi scoperto il suo bluff. Forse, mentre il mio mondo si staccava piano da lei, aveva avuto una vertigine, e la sensazione di non essermi più necessaria come l’aria. Quando tornavo a casa la trovavo più bassa e più smunta, il suo viso era più scavato, la pelle più sottile. Il suo telefono squillava raramente e lei non andava più così spesso in giro. Non c’erano uomini ad invocare il suo nome sotto la finestra, o amiche a chiedere i suoi consigli. Mia madre si era sforzata così tanto di mettere una distanza tra lei e le altre persone perché potessero ammirarla meglio, che alla fine era rimasta sola. E nella sua solitudine era così umana, così terrena e imperfetta da spezzarmi il cuore. Avevo l’impressione che le persone si ricoprissero di strati, per proteggersi dalla paura e attutire quella sorta di enormità che a volte ha la vita. Capii che mia madre doveva avere avuto molta paura, e l’odio lasciò piano il posto alla compassione. Lontana da casa e dalla sua influenza, mia madre mi appariva come una donna che non aveva mai appreso l’amore, ma solo la violenza e la prevaricazione, la necessità di sopravvivere ad ogni costo. Per la prima volta nella mia vita, iniziai a sentirmi fortunata. Fortunata perché riconoscevo quel destino, vedevo quella strada fino in fondo, l’avevo maneggiata con destrezza, negli anni, perché mi si srotolasse davanti e mi rivelasse i suoi segreti con chiarezza. Non l’avrei percorsa. Questo mi dava forza, sapere che la riconoscevo significava sapere che non l’avrei mai imboccata, perché sceglievo di non farlo. Potevo scegliere. Potevo comprendere e potevo affrancarmi da quelle stesse dinamiche che avevano reso mia madre succube del suo vissuto. Potevo spezzare quel cerchio. C’era qualcos’altro, adesso, quando pensavo a lei. Era tenerezza. Tenerezza per la donna che mi aveva partorita con dolore, da sola, che mi aveva allattata fino a rimanere prosciugata e dolorante, che mi aveva amata, a modo suo. Era questo il segreto che tradiva la sua voce esitante al telefono: che lei mi amava, e che io l’avevo scoperta a farlo.

Passava il tempo tra una delle mie visite e l’altra, e vedevo mia madre in una nuova fase della sua vita, una sorta di stagione della pace. I molti rapporti superficiali e artefatti che intratteneva prima si erano dissolti, le erano rimaste un paio di amiche, che vedeva spesso. Continuava a leggere molto, se ne andava al parco vicino a casa e passava molto tempo sulle panchine. A volte alzava lo sguardo verso gli alberi e si godeva lo spettacolo dei rami più alti e sottili che danzavano nel vento. Aveva imparato un nuovo modo di sopravvivere, che era quello delle piccolissime cose. Apprezzava una buona tazza di tè in una giornata fredda, il gusto del cibo, una giornata di sole, un momento passato insieme in silenzio. Io non ero più ossessionata da mia madre. Sapere che mi amava mi aveva liberata da lei. Vivevo in quel nuovo stato delle cose e mi pareva di avere tanto tempo e una mente libera, da occupare con cose bellissime. Ma in fondo sapevo che le lezioni impartitemi involontariamente da mia madre, e le profondità che mi aveva mostrato, sarebbero rimaste le più preziose della mia vita.

 

 

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