Jurga aveva sognato di nuovo l’angelo. Anche in quella notte d’inverno così fredda che gli alberi nella boscaglia scricchiolavano per il gelo.
L’angelo lo riportava a Vilnius, agli androni dell’Università, al cortile grande dove, dal muro, illustri studiosi del passato osservavano pensierosi gli studenti. Ma, più di ogni cosa, l’angelo gli parlava di Irena.
Irena era lì. Irena cantava, rideva con lui.
Irena era viva.
Era stata lei ad aprirgli gli occhi: erano un popolo soggiogato, loro, i lituani. Contesi per secoli da svedesi, russi, polacchi, tedeschi. Infine i russi, di nuovo.
‒ Perché così, sempre così succede? ‒ si chiedeva lei quando le impedivano di cantare i dainos della tradizione lituana nelle feste di piazza.
‒ Calmati amore mio, ‒ le rispondeva Jurga. ‒ Per farsi riempire di botte c’è sempre tempo, e anche per morire c’è sempre tempo, lo sai.
‒ Già però questo almeno non ce lo possono togliere. Tutti hanno il diritto di morire, ‒ ribatteva Irena con forza.
‒ Sì certo, ma non è un obbligo, ‒ sospirava lui.
Irena non sopportava di dover soffocare i suoi ideali. Si era iscritta al movimento democratico Sajudis, i cui affiliati si incontravano in un piccolo locale dietro la Cattedrale e, in breve tempo, era diventata una delle attiviste più entusiaste.
Una sera, dopo averla cercata ovunque per tre lunghi giorni in cui sembrava sparita nel nulla, Jurga l’aveva trovata lì, nella loro sede, con un fiore giallo tra i capelli e gli occhi pieni di eccitazione e stanchezza.
‒ Ci siamo, ‒ aveva esclamato felice vedendolo. ‒ La catena umana si farà! Ci saranno tutti: lituani, estoni, lettoni.
Jurga aveva sentito un brivido ghiacciato correre lungo la schiena. Lei era tutto ciò che aveva. Il pensiero che potesse cacciarsi nei guai lo faceva impazzire.
‒ È vero ‒ disse piano, ‒ ma, a forza di provocarli, reagiranno anche i russi. Non puoi sapere in quale modo e con quanta violenza. E noi? Cosa faremo noi?
‒ Beh, ci penseremo in quel momento. Non arriveranno certo a sparare su persone pacifiche e senza armi. E poi vedrai, tutta l’Europa sarà con noi, ne sono certa.
‒ Non so, Irena, forse è un errore accelerare i tempi, ‒ aveva protestato afflosciandosi sulla sedia come un sacco vuoto.
‒ Tutti hanno diritto di fare errori. È uno dei primi articoli che metteremo nella nostra nuova Costituzione.
‒ Va bene, però mettiamoci anche che tutti hanno il diritto di stare lontano dai guai, ‒ aveva replicato, alzandosi di scatto.
‒ Sì, però noi non vogliamo, vero Jurga?
Lui aveva chinato mestamente il capo e sentito la sua voce rispondere: ‒ No, certo, noi non vogliamo.
E se n’era pentito. Subito dopo.
Il 23 agosto del 1989 la catena umana partì da Tallin e, passando attraverso Riga, arrivò sino a Vilnius in una via baltica unita e solidale.
Quel giorno lui e Irena si erano presi per mano e, con loro, centinaia di migliaia di persone si erano unite in un abbraccio lungo più di seicento chilometri. Quel giorno tutti erano incredibilmente felici: era la loro terra, era il loro mondo. Non c’erano nemici ma solo uomini e donne con cui cantare, piangere e pregare in pace, ciascuno con le proprie tradizioni.
‒ E adesso? ‒ aveva infine chiesto Jurga prendendo commiato dai compagni. La manifestazione era stata pacifica e ordinata. I russi, inaspettatamente, non si erano fatti vivi.
‒ E adesso proclamiamo l’indipendenza, ‒ aveva esclamato senza il minimo dubbio Irena. ‒ Domani, ora, subito. Ormai è fatta!
Ma non fu così. Sei mesi dopo la catena umana, i russi mandarono i carri armati su Vilnius.
Era il 1991 e quella domenica mattina Irena si era alzata presto.
Si era vestita al buio, senza fare rumore. Aveva lanciato un bacio a Jurga che dormiva di traverso sul letto ed era uscita con la cetra e un mazzo di fiori.
Lui non c’era quando gli uomini dell’unità speciale Al’fa erano scattati all’assalto per occupare il palazzo della stampa. Non c’era quando Irena e i suoi amici avevano trascinato tutti, uomini, donne, vecchi e bambini verso il centro per difendere il parlamento e la torre della televisione.
Non c’era quando si erano messi davanti ai carri armati cantando e tenendosi per mano. Non c’era quando Irena aveva lanciato i suoi fiori. Non c’era quando il suo canto si era spezzato, la cetra era volata via e il carro armato aveva travolto il suo corpo, senza neppure arrestare la marcia.
I giorni seguenti Jurga li aveva trascorsi in stato di shock. Non c’erano più sogni e non esistevano più angeli a Vilnius. L’unico vero angelo, quello che gli viveva accanto, l’avevano ucciso senza che avesse potuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, anche solo stargli vicino e morire con lui.
Così, dopo un mese passato a vagare come un fantasma per le strade della città, non ce l’aveva più fatta.
Aveva tentato di impiccarsi sulla collina delle croci.
L’avevano trovato i vecchi compagni di Sajudis, l’avevano sedato per poi portarlo in una clinica per gli stress di guerra. E da lì non era più uscito. Quantomeno non con il corpo, soltanto con la mente.
I sogni erano diventati i suoi unici compagni.
Una sera aveva fantasticato di attraversare il fiume Vilnia e di inoltrarsi in uno dei sobborghi più antichi della città, Uzupis, un quartiere povero sulla riva destra dove un tempo abitavano prostitute e gente di malaffare. Entrando nel caffè dopo il ponte, si era imbattuto in un compagno di Università, Romas, che stava parlando animatamente a un gruppo di giovani.
‒ Non importa se ci sono già trenta articoli, possiamo aggiungerne ancora dieci, venti, quanti ce ne pare, ‒ diceva con voce accorata.
Jurga si era avvicinato incuriosito. ‒ Di cosa stai parlando, Romas? Della nuova Costituzione?
‒ Certo, Jurga. Dello Stato del libero pensiero. Senza politica, senza soldi, senza potere, ma con i suoi confini, la sua moneta, il suo esercito. Piccolo però, non vogliamo certo carri armati o generali. La vedi la nostra bandiera? C’è una mano con un buco al centro. Perché qui si può amare, accarezzare, sentire, ma non si può possedere.
‒ E quel piedestallo? ‒ aveva chiesto lui indicando una base di pietra nella piazza vicina.
‒ Ci faremo un monumento, amico mio, con al centro l’Arcangelo Gabriele: suonerà una tromba per testimoniare il ritorno della libertà nei Paesi dell’Est.
Jurga nel sogno era impallidito. Alzando gli occhi dal basamento aveva improvvisamente visto l’angelo, il suo angelo finalmente sorridente che si trasformava a poco a poco nel viso allegro e luminoso di Irena.
Ed era scivolato in pace nel sonno più profondo.
I due infermieri che l’assistevano gli avevano sfilato dolcemente la cannula dal braccio e l’avevano girato a pancia in giù per frizionargli la schiena, come ogni sera. Tanto lui, con i sedativi che aveva in corpo, non si sarebbe certo svegliato sino al mattino.
In fondo alla corsia la luce del tramonto illuminava debolmente il muro bianco dove campeggiavano gli articoli di quella Costituzione che avevano inventato con entusiasmo lui e Irena nei giorni felici dell’Università.
Ma non era la nuova Costituzione della Lituania, quella scritta sulla parete.
I lituani avevano votato dopo la proclamazione dell’indipendenza e avevano assegnato la maggioranza dei seggi agli ex-comunisti. Alla gente non interessava l’ideologia, il passato: l’inflazione aveva spinto in alto i prezzi e tutti dovevano trattare, ogni giorno, con le piccole e grandi mafie degli ex agenti del KGB riconvertiti agli affari.
Quelli riportati sul muro altro non erano che i principi della Repubblica nata per scherzo, la Repubblica di Uzupis, il luogo perfetto al centro di Vilnius dove ognuno è responsabile della propria libertà e tutti possono essere unici senza venir considerati sbagliati.
Ora Jurga è lì che vive. I sogni sono diventati a poco a poco il suo mondo reale, l’unico in cui le speranze sono ancora intatte e l’esistenza ha un senso: a Uzupis è libero di piangere o di ridere da solo quando gli va, senza dover giustificare il dolore che prova agli occhi degli altri.
Dedicato alla Repubblica semi seria di Uzupis dove il fiume ha diritto di scorrere, il gatto non è obbligato ad amare il suo padrone e tutti hanno il diritto di morire, ma non è un obbligo.
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