Terenzio

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“Allora, qual è il problema?” chiese Agenore, congiungendo le dita a formare un arco gotico sulla cui cuspide poggiò il mento ossuto, un mezzo sorriso sulle labbra e lo sguardo attento ma professionalmente discreto. Terenzio lo guardava, imbarazzato, dalla profondità della sua amicizia ormai più che trentennale con quell’affermato professionista che gli stava davanti, conosciuto negli anni dell’adolescenza, quando l’universo intero sembra essere a portata di mano e i sogni sono sempre lì lì per avverarsi. Nessuno dei due sapeva bene perché si fosse tanto legato all’altro, né se lo domandava, ché gli bastava sapere che, se anche le loro strade si erano ormai da tempo separate, l’altro era sempre lì, sempre presente, e anche dopo aver passato mesi senza scambiarsi una parola, bastava una telefonata, o un incontro casuale, e tutto era come prima, anzi, meglio di prima, ché l’uno vedeva nell’altro lo specchio di se stesso, e il tempo li cambiava insieme. Bastava un ciao, un “come va”, un “cosa vuoi, sempre lo stesso”, e subito si sentivano vicini e un po’ per volta, se avevano abbastanza tempo da passare insieme, scoprivano in fondo di non essere poi così cambiati, di essere ancora capaci di fare quelle cose che i più credono perdersi con il raggiungimento dell’età matura, di giocare, di sognare, di inventare amori e favole, di prendersi in giro solo per il gusto di farlo, di ascoltare in silenzio un po’ di musica o di filosofeggiare sui massimi sistemi della minima vita quotidiana.

Questa volta, però, Terenzio aveva cercato Agenore non per scambiare quattro parole ma perché, ormai da tempo, aveva un problema che a lungo andare lo aveva spinto a cercare l’aiuto del suo amico, noto psichiatra e stimato accademico, che adesso lo stava guardando, in silenzio, in attesa della complicatissima risposta che la sua semplice domanda esigeva ineluttabilmente. “Avanti, Terenzio, non fare il cretino, con quanto tempo è che ci conosciamo… C’è di mezzo una donna, oppure digerisci male?” scherzò, stravaccandosi sulla poltrona e bevendo un sorso dal bicchierino di cognac che aveva poggiato vicino alla tastiera del computer, accanto a una bottiglia mezza piena estratta con aria scherzosamente circospetta da un cassetto della scrivania. Terenzio, che rigirava il suo bicchiere nelle mani senza riuscire ad avvicinarlo alla bocca, lo guardò di sbieco, la gola chiusa da una morsa d’acciaio ed il palato asciutto come una lastra d’ardesia sotto il sole, deglutì un paio di volte a vuoto e poi disse tutto d’un fiato che andava tutto bene, solo che non riusciva a dormire, si scopriva spesso ad estraniarsi totalmente dalla realtà, e che una volta gli era successo in macchina, e si era ritrovato a guidare in direzione opposta a quella in cui voleva andare, così che era arrivato a casa con un’ora buona di ritardo, e via di seguito, per una decina di minuti, finché Agenore lo aveva zittito con un gesto, scuotendo il capo.

Gli aveva ordinato di bere e poi, con la sua calda voce calma, lo aveva invitato a riflettere un momento su quanto aveva appena detto. Non era un problema non riuscire a dormire più di tre ore di fila? Non era un problema decidere di andare in un luogo e ritrovarsi in viaggio verso un altro? Non era un problema non riuscire a tirar giù un pasto senza soffrire di acidità? E quali erano i problemi, allora? La fame nel mondo, le guerre, l’epidemia di AIDS nel continente africano, certo, quelli sì che erano roba veramente grave, ma lui, il grande psicologo, non poteva farci assolutamente niente, al di là del piccolo contributo di qualche adozione a distanza e dell’invio di fondi ad organizzazioni umanitarie varie. Invece, per il suo amico, era convinto di poter fare qualcosa di serio, purché lui collaborasse.

 

Terenzio, a dire la verità, non è che non volesse collaborare, anzi. Sapeva benissimo, o almeno era convinto di sapere, quale fosse l’origine dei suoi disturbi, solo che temeva di esser preso per matto. Per questo si era rivolto a quel suo vecchio amico, perché sperava che almeno lui potesse, se non aiutarlo, quanto meno ascoltarlo senza chiamare gli infermieri con la camicia di forza. La verità, l’assurda verità, era che aveva paura di dormire, di sprofondare nel sogno che lo assillava ormai da mesi. Il resto, la cattiva digestione, i disorientamenti e mille altri piccoli disturbi non erano altro che effetti collaterali della mancanza cronica di sonno che, in qualche modo, si autoimponeva. Spiegare tutto questo ad Agenore non fu un problema: in fondo lo psicologo aveva già intuito il meccanismo, peraltro abbastanza evidente. Tutt’altra faccenda fu, per Terenzio, spiegargli il motivo di quel timore. “Avanti”, gli disse Agenore, “Non mi verrai a dire che alla tua età ti è venuta la paura del buio?! E poi, via, questa storia del sogno che ti assilla, una persona come te non dovrebbe farsi condizionare da un incubo ricorrente…Due pasticchine al momento giusto, e neanche Lucifero in persona riuscirà più a disturbarti!”

Già, neanche Lucifero…

Terenzio prese il coraggio a due mani, scolò d‘un sol colpo la più che generosa dose di carburante che ancora aveva nel bicchiere, ingranò la quarta e partì di gran carriera. Porca miseria, pensava fra sé sulla strada di casa, l’ho fatto ancora.

Non sapeva come, ma si era completamente perso il suo colloquio con Agenore e si era ritrovato in macchina, senza neanche sapere se avesse concluso qualcosa o se avesse semplicemente perso tempo, con l’assurda sensazione di aver messo in moto nel preciso istante in cui aveva finito di bere quel meraviglioso liquido d’ambra scura. Però…

Però nel taschino della camicia c’era qualcosa di estraneo. Ne tirò fuori a tentoni un pacchettino rettangolare, che sbirciò con l’occhio destro mentre teneva  il sinistro incollato sulla strada, e che si accorse contenere un sonnifero. Sospirò di sollievo: evidentemente era riuscito a spiegare il suo problema ad Agenore il quale, come del resto aveva sperato, aveva trovato la soluzione, o almeno un inizio di soluzione.

 

Si infilò a letto con un’allegria che non provava da tempo, pregustando una bella dormita davvero rilassante, priva di quel fastidioso sogno ricorrente, tanto realistico da riuscire ormai indistinguibile dalla realtà. Si svegliò come sempre al suono della radio, programmata per accendersi alle otto meno un quarto, e andò come sempre ad aprire la finestra. Maledizione, le pasticche di Agenore non servono a niente, ci risiamo, pensò mentre guardava un panorama fatto di case, di alberi, di segnali stradali, di tetti in lontananza in tutto identici a quelli che sapeva trovarsi di fronte alla sua finestra, tranne per il fatto che le case avevano le facciate sporche e fatiscenti, gli alberi sembravano moribondi, i segnali stradali erano arrugginiti ed i tetti urgente bisogno di manutenzione. Su tutto aleggiava la solita cappa di smog, e se avesse aperto la finestra avrebbe sentito, ne era certo, il fetore dei cassonetti della spazzatura che, chissà poi perché, nel suo sogno nessuno provvedeva mai a svuotare. Fu assalito dalla depressione, tristemente consapevole del fatto che non sarebbe riuscito a svegliarsi finché la sua psiche contorta non avesse fatto i suoi comodi a dispetto del suo io cosciente. Si rassegnò così a recarsi al solito bar dove il solito ragazzo brufoloso gli avrebbe servito il solito caffè che pareva fatto con le ghiande e dove avrebbe mangiato la solita brioche alla crema che sapeva vagamente di rancido. E Pensare che quel ragazzo faceva invece un caffé così buono, e le brioches erano sempre freschissime… Poi sarebbe andato a lavoro, dove avrebbe trovato i soliti colleghi che come sempre lo avrebbero snobbato, particolarmente quella ragazza arrivata da poco che invece più di una volta aveva cercato proprio la sua compagnia, eccetera, eccetera, eccetera, come se uno spiritello perfido si divertisse a sottoporlo ad una specie di supplizio del contrappasso onirico, costringendolo a vivere in sogno una vita in tutto contraria a quella reale. Il brutto era che, di questo passo, la sua vera vita sarebbe stata rovinata, visto che lo stress e la mancanza di riposo lo stavano poco a poco distruggendo. Non sarebbe certo riuscito a mantenere a lungo la propria salute mentale, in quelle condizioni, sempre ammesso che non finisse prima contro un camion con la macchina, visto che sempre più spesso si ritrovava a guidare senza rendersi neanche conto di aver cominciato a farlo. Inutile dire che era spaventato, e molto, tanto più che, con il passare del tempo, aveva cominciato a confondere sogno e realtà, a non distinguere più con esattezza la sua vita vera da quella onirica, ed era stato proprio il timore di perdere completamente il contatto con la realtà a spingerlo a chiedere aiuto ad Agenore.

 

Cosa succedeva durante i periodi di cui non aveva coscienza né ricordo? Cosa faceva, come si comportava, soffriva di sdoppiamento di personalità o si trasferiva totalmente in quella brutta copia del suo mondo che lo assaliva ogni volta che si assopiva anche solo per pochi minuti? Qual’era il Terenzio reale, quello di successo, stimato ed ammirato da amici e conoscenti, o quello depresso e disprezzato che viveva in un quartiere ridotto ad una specie di sobborgo semiabbandonato? E poi questa strana condizione per cui, pur non potendo interrompere in alcun modo il corso dei suoi sogni, era comunque abbastanza cosciente da annotare mentalmente le cose di cui avrebbe dovuto parlare con Agenore un volta sveglio.

 

Il “mattino dopo”, non appena la sveglia suonò, questa volta sul serio, Terenzio, svegliatosi come al solito stanco come una bestia, si lavò la faccia con l’acqua fredda, si preparò e andò in ufficio. Quel maledetto sogno! Sbrigò le solite pratiche con la solita efficienza, poi, considerato che erano ormai le dieci passate, decise di telefonare all’amico medico, visto che a quell’ora non lo avrebbe certo disturbato. Agenore non c’era, ma la sua cortesissima segretaria riuscì a fissargli un appuntamento per la sera stessa. Ormai il ghiaccio era rotto, Terenzio aveva superato il primo scoglio e veleggiava tranquillo sulle accoglienti acque della terapia. Stabilirono di comune accordo un programma che prevedeva incontri bisettimanali, pomeridiani, con Agenore e settimanali, serali, con la sua biondissima segretaria, cosa che, pur non avendo sicuri effetti terapeutici, contribuiva fortemente a migliorare il morale del buon Terenzio. Comunque, il suo sogno stava in qualche modo cambiando. A parte la solita chiacchieroterapia, come la definiva Agenore, Terenzio aveva accettato di buon grado di assumere determinati farmaci a dosi progressivamente crescenti, aumentando di una pillola la dose serale di sedativi per ogni settimana di trattamento, cosa che avrebbe dovuto portare, nelle intenzioni del medico, alla cessazione dei disturbi del sonno del paziente. Qualcosa, in effetti, si stava muovendo: la durata del sogno diminuiva progressivamente con l’aumentare del dosaggio dei farmaci, e questo faceva ben sperare Terenzio, che già si vedeva, di lì a poche settimane, completamente liberato da quello che, pur se non si poteva definire esattamente un incubo, era qualcosa per lui molto simile ad un supplizio. La cosa buffa era che, in sogno, il suo capo gli rimproverava sempre più spesso la scarsa puntualità e la sempre minore presenza in ufficio, quasi che il suo spiritello malevolo volesse fargli pagare caro il fatto che stesse riuscendo, a poco a poco, a sfuggirgli dalle grinfie. Agenore gli aveva spiegato che doveva aspettarsi qualcosa del genere: il suo inconscio, che per mesi era emerso liberamente durante il sonno, resisteva ai suoi tentativi di riprenderne il controllo. Quando ci fosse riuscito, quando il suo io cosciente fosse riuscito nel sogno ad affrontare il suo capo, che rappresentava il suo subcosciente sfuggito al controllo, i suoi guai sarebbero finiti.

 

Finalmente, alla dodicesima settimana, quando ormai era costretto a prendere quattordici pastiglie ogni sera prima di dormire, ci fu la svolta. Arrivò tardissimo nel suo ufficio onirico, trovò ad aspettarlo il suo altrettanto onirico capo e, senza dargli nemmeno il tempo di fiatare, lo mandò a quel paese, aggiunse un bel “Mi licenzio”, voltò le terga e se ne tornò a casa, a dormire.

 

“Ma mi vuole prendere in giro?!”, stava dicendo, o meglio sibilando, l’Ispettore al medico legale, “Siamo di fronte a un caso di suicidio da manuale, un soggetto depresso che si lascia sopraffare dalla frustrazione, comincia a trascurare il lavoro fino al momento in cui si licenzia, torna a casa, si fa un bel sandwich ai barbiturici, si mette a letto e si addormenta in maniera definitiva e irreversibile. Nessuna complicazione, nessun dubbio sulla dinamica dei fatti e lei mi scrive nella relazione medica che le pillole ingerite dal suicida non solo non sono identificabili, e questo lo posso anche capire, ma che si tratta addirittura di una molecola sconosciuta. E poi mi viene anche a dire che l’etichetta sulla confezione è scritta in una lingua assolutamente ignota! E cosa gli raccontiamo al magistrato, eh? che questa roba viene dal mondo dei sogni?”.

 

“Visto che ce l’abbiamo fatta, Terenzio? Te lo avevo detto, con un po’ di pazienza… però devo ammettere che sei stato proprio bravo, non tutti avrebbero avuto il tuo stesso coraggio!”. “Sì, va beh…” rispose quello abbracciando Dina. la segretaria di Agenore, “…ma sai, anche lei mi ha aiutato molto, e poi ti conosco troppo bene, ero sicuro che con te non avrei corso alcun rischio. Adesso scusami, devo andare in ufficio, ho un appuntamento con il Capo.” Aggiunse un gorgheggiante “C’è odor di promozione…” e  uscì canticchiando dallo studio.

 

 

 

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