Potentilla

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Mi chiamo Ambra, o forse Alba. Sì, Alba, lo preferisco: sa di inizio.

Dunque, sarò Alba, d’ora in poi. Finché qualcuno busserà alla mia porta, e strapperà il cielo come fosse carta. Fino a quando un lampo mi restituirà al mondo, e dovrò farci i conti.

Adesso, però, reggetemi il gioco. Quasi sfogliaste un libro, o sognaste la vertigine del volo: credeteci, e basta.

 

Ho quarantanove anni, undici mesi e ventinove lune, ma ogni giorno è una sorpresa, e provo meraviglia.

Mi guardo attorno con occhi vispi, avidi, che il mondo è di chi ha fame, la vita di chi sogna. Dico quello che penso senza pensare a ciò che dico, e a volte ho gli occhi assenti, che vago con la mente. Ho tanti amici e poche leggi, qualche rimorso, nessun rimpianto; non imparo dagli errori e cambio spesso idea. Faccio domande, sempre le stesse; a volte rido, senza un perché.

Vario aspetto come acqua, muto pelle come serpe: ma, in fondo, nel profondo, sono sempre la stessa.

 

Ho il trentotto di scarpe e il cuore altrove, non appartengo ad alcun posto e ogni posto mi appartiene.

Potrei narrarvi cosa ho fatto trent’anni fa, ai piedi delle mura del paese, oppure in piazza, al concerto del patrono; potrei parlarvi dell’impasto per il pane, riuniti al vecchio casolare, o dei grappoli d’uva sotto i piedi, nel vigneto di famiglia.

Ma ho scordato gli anni della scuola, e il nome di mia figlia.

 

Chiara è mia amica. L’ho conosciuta al parco, su una panchina, mentre sfogliavo un quotidiano. Mi si è seduta accanto, con fare gentile, e mi ha porto il suo. Questo è di oggi, ha detto, il tempo va veloce.

Da allora ci incontriamo ogni mattina, nello stesso posto, ed è con me, adesso, accovacciata sull’erba fresca di rugiada. Attorno a noi si estende un manto bianco dal profumo dolce, intenso; la primavera incalza, la vita fiorisce. È Potentilla, afferma Chiara, ne coglie un bocciolo, mi adorna i capelli. È come te, fragile e forte. Sorride appena, ma ha l’aria triste.

 

Sento i rintocchi del campanile. Mio marito rientra a casa al tramonto, dopo il lavoro, così posso riaverlo finalmente accanto. Sono il suo posto, lui è il mio.

Ho iniziato a esistere quando mi ha chiamata per nome, la prima volta, dal davanzale di una casa in centro. Mi è parso d’aver vissuto a metà fino ad allora, o non aver vissuto affatto. Voltato l’angolo, di fretta, ho scorto il mio viso sulla vetrina di un negozio: avevo le guance arrossate, gli occhi lucenti. L’amore è questo, dopotutto.

Dicono che le cose esistano finché le si invoca. Cosa sarei, senza Lucio.

 

Oggi è il mio primo giorno di lavoro: ho appena compiuto quindici anni. Mi hanno messo tra le mani un lembo di stoffa, ago e filo; sul banco la carta dei modelli, un paio di forbici, del gesso. Nessuno mi ha spiegato cosa fare, come farlo. L’ho fatto a poco a poco, sempre meglio, rubando segreti, perdendo il sonno.

Ora ho trent’anni, e sono la sarta del paese: ho una piccola bottega, costata risparmi, rinunce, fatica. I preti mi affidano le loro tuniche, le spose i loro abiti. Lavoro per l’uomo e lavoro per Dio; e, in fin dei conti, non c’è differenza.

 

Chiara è la mia gatta. L’ho trovata sul ciglio della strada, dentro una scatola di cartone, alle porte di gennaio. Il suo piccolo corpo stava in un pugno, gemeva per la fame e il freddo. Così l’ho portata a casa, e le ho dato del latte. Aveva ancora gli occhi chiusi; quando li ha aperti è me che ha visto, così di me si fida: si chiama imprinting.

Ieri ho fatto la spesa, come ogni settimana. Al mio rientro era seduta sulla soglia, come sempre, ad aspettare. Mi ha accompagnata in cucina, davanti alle sue ciotole, vuote. Per la prima volta, dopo dieci anni, ho scordato di riempirle.

 

Lucio sta per arrivare, il tegame è sul fuoco. Pronuncio il vespro a testa china, mani giunte, occhi chiusi. Medito sulla mia vita, ne sono grata. Penso alla fortuna di spartirla con qualcuno, e ricavarne il doppio; penso sia bella, nonostante tutto.

Adagio il suo pigiama sul guanciale, il mio l’ho già addosso. Passo la spazzola, spruzzo il profumo. L’attesa è dolce.

 

Chiara è mia zia. Con lei ho imparato a leggere, e possedere il mondo. Se vuoi qualcosa, soleva dirmi, devi conoscerla. E per conoscerla, concludeva, ti serve un libro.

Così correvo in biblioteca, e ne prendevo uno. Poi mi fiondavo a casa, nella mia stanza, alla luce fioca di una lampadina. Carezzavo la fodera, ruvida, poi odoravo la carta, pungente: ed era già una promessa.

Poco fa, alla locanda, ho perso le parole. Ho esitato a lungo, prima di ordinare, e la mia non era indecisione. Volevo un caffè amaro, ho preso un tè con ghiaccio. E il tè, lo ammetto, non mi è mai piaciuto.

 

Il sole è ormai calato, Lucio è in ritardo. Mi affaccio alla finestra così da distinguerlo tra i profili dei palazzi, accompagnarlo all’ingresso con lo sguardo. Mi aspetto di vederlo sbucare sulla destra, col cappello in paglia sul capo canuto. Fiero e stanco, con un fiore per sua figlia.

Aspetto ancora, e ancora.

La campana aggiunge un nuovo tocco. La minestra è pronta, la verso nel piatto.

 

Chiara è mia nonna. Quand’ero bambina passeggiavamo insieme, nel pomeriggio, lungo i viali alberati del quartiere. Aveva ideato un modo per tenermi accanto a sé, difendermi dal traffico della periferia: un mago le aveva annebbiato la vista, e io dovevo condurla a casa. Così le stringevo la mano, fianco a fianco, ed ero al sicuro. Guardavo le rughe sul suo volto, dal basso, e sognavo, un giorno, di averle anch’io.

Stamane ho smarrito la strada di casa: mia nonna non c’era, e il mio non era un gioco.

 

Di rado qualcuno mi mette tra le mani un albo impolverato, mostrandomi luoghi, puntando visi. Allora ne sfoglio la storia, confusa, quasi non m’appartenesse, o fosse di un altro. Di certo non è la mia: se non ne ho memoria, non l’ho vissuta.

Sono una scritta sul bagnasciuga, che ogni onda minaccia e rinnova; la folata di fumo di un’auto, il vapore che ne appanna il vetro. Per questo sono così leggera, e gli altri così infelici.

 

Mi chiamo Ambra, o forse Alba. Sì, Alba, lo preferisco: sa di bianco.

Come i fiori dell’arbusto, giù nel cortile, dal fogliame pennato verde e argento. Lo contemplo dalla mia finestra, scosto la tenda, resto in silenzio. Quando piove, come ora, le foglie si incurvano, rivestono i boccioli; li proteggono dal temporale, per poi ritrarsi al primo sole.

Seguo una goccia che scorre sul vetro. Penso a qualcuno, sogno il sereno.

 

Chiara è mia madre. Quando la guardo ritrovo me stessa: è come sporgersi dal molo, e specchiarsi nell’acqua. Acqua, sì, come i suoi occhi. L’ho capito a quarant’anni che bisogna averne un paio a cui legarsi; due fari come guida ai bordi del mare, due rocce come appiglio sul fianco di un monte.

È mezzanotte. Siedo sull’orlo del letto, sfatto, davanti al mio riflesso, nudo: allo specchio c’è una donna che non conosco, e ne ho paura.

 

Mi hanno trovata nel corridoio, rannicchiata a terra, con la gonna zuppa. Va tutto bene, ho detto loro. Volevo solo andare in bagno.

Forse hanno ragione. Questa casa è troppo grande per una sola donna; troppo vuota per una donna sola.

 

Chiara è mia sorella. Siamo cresciute insieme nei sobborghi del paese, come due fiori nell’asfalto, due pesci in un acquario. Ho indossato i suoi vestiti, letto i suoi diari, mentito a nostro padre quando rientrava tardi la sera. Abbiamo fatto bagni nel lago fino ad avere le dita grinze, cantato in coro accanto al fuoco fino a perdere il fiato. Abbiamo perso occasioni, taciuto segreti, diviso dolori.

Insieme siamo entrate in quella sala spoglia, strette l’una all’altra, il pomeriggio in cui questa storia ha avuto un nome.

 

La casa è ricoperta di foglietti gialli. Come mi chiamo, dove mi trovo, da dove vengo; cosa faccio durante il giorno, cosa mangio; chi chiamo se ho bisogno d’aiuto; chi amo. Vorrei strappare tutto e fingere di stare bene, oppure strizzare gli occhi e svegliarmi nel corpo di un’altra, da un’altra parte, in un altro tempo.

In ogni caso, perderei me stessa. E, mio malgrado, succederà comunque.

 

Chiara è mia cugina. Ieri l’ho presa in braccio per la prima volta, e abbiamo spiccato il volo. È incredibile come si venga dal nulla, per diventare tutto; come si giunga dal corpo di un altro, impalpabili, e pian piano si prenda forma. I suoi versi fendono l’aria, i suoi pugni stringono il mondo. È un miracolo.

L’ho guardata a lungo, nella culla, per trattenere qualcosa del suo viso, salvarne il ricordo. Ripenso ora ai suoi lineamenti: si sciolgono piano, dentro me, come l’ultima neve.

 

È notte fonda, ormai, e Lucio è ancora fuori. Sospiro sulla sedia accanto alla sua, vuota.

Il pane è secco, la minestra fredda. Un lampo squarcia il mio presente. Grido.

 

Mi chiamo Ambra, o forse Alba. Sì, Alba, lo preferisco: sa di luce.

Mi sveglio ogni mattina, diversa, poi invecchio all’improvviso, e mi ritrovo in fasce. Ho un’età incerta, indefinita; sono una quercia millenaria, un fossile, una stella.

Mi succhio il dito, di tanto in tanto, e capita che bagni il letto mentre dormo. Ma non provo vergogna, né imbarazzo. Accade, ai bimbi, è naturale: e io, più cresco, più divento piccola.

 

Chiara è il mio medico. D’ora in poi, ha detto, abiterò in un sogno. Potrà accadere che non trovi la via del ritorno, o non ci sia via d’uscita; che la gente cambi volto, che un oggetto cambi nome; che il passato riemerga, che il futuro sprofondi; che voglia scappare ma rimanga ferma, che voglia urlare ma non abbia voce.

Le ho chiesto una cura. Mi ha detto che da questo sogno, dal mio sogno, non c’è risveglio.

 

A volte mi guardano con tenerezza, altre con disprezzo: odio entrambi. Non mi servono colpe, né compassione; false presenze, o nuove assenze; non ho bisogno di parole dure, né troppo buone. Facciano pure, che importa, alla fine: fra qualche tempo, l’avrò dimenticato.

 

Ho sognato che era bambina, e volavo sul mare. In testa una musica lontana, nel cuore la strada di casa. Non avevo timore, anzi. Mi affidavo all’aria, sospesa, senza sapere come, senza sapere dove. Volteggiavo sulle increspature, sicura, che il senso delle cose lo portavo in me.

Apro gli occhi nel buio. Mi chiedo quale sia il confine, il limite tra sonno e vita: se quattro mura, o una coperta fredda, gli occhi chiusi, forse l’aurora. Se si possa tornare indietro, o non tornare più.

Resto in bilico, nel mezzo, ancora per un po’; o forse per l’eternità.

 

Chiara è la mia maestra. La sua mano guida la mia, sul foglio a righe: ho appena sei anni, imparo l’alfabeto. Dondolo i piedi sotto il banco, ridacchio, sbadiglio: non me ne accorgo, ma sono felice.

Traccio un’acca a matita, incerta, poi la cancello; lei mi incoraggia, così riprovo, ricalco a penna, orgogliosa.

È discreta, la lettera muta, ma se manca si fa sentire. Rimugino a lungo su quelle parole: da grande, decido, sarò come l’acca.

 

Ho perso l’uso delle mani. Sono curve, intorpidite, livide. Non posso cucire un orlo, né allacciarmi le scarpe; afferrare una tazza, o soffiarmi il naso. Non posso scrivere, sbucciare un frutto, né stringere il dorso di una mano amica. La mente vacilla, e il corpo non risponde.

Dicono sia tutto in prestito, nella vita, un giorno andrà restituito. Quel giorno è qui, e io non sono pronta.

 

Chiara è mia nipote. La vado a trovare ogni giorno, da quel giorno, all’apertura. Aspetto oltre il cancello, col petto in affanno, gli occhi gonfi. Cambio l’acqua ai fiori, lucido la foto; mi gira la testa, respiro.

Le ho portato un lecca-lecca e qualche caramella; c’è un pupazzo nuovo, sul marmo, lo dispongo accanto agli altri. Mi accanisco sulla macchia di cera da scrostare, sulle foglie secche da ripulire, finché qualcuno mi prende sottobraccio, e mi porta via con sé. Mi ritrovo a cercare ordine, dove ordine non c’è mai stato; a dubitare della fede, e maledire il mondo.

Sua madre verrà quando sarà pronta; per ora bado io, a lei. Ha solo sette anni, li avrà sempre: e questo non si può dimenticare.

 

Mi chiamo Ambra, o forse Alba. Sì, Alba, lo preferisco: sa di nuovo.

Ho tante prime volte che ho smesso di contarle, e altre avanti a me che devono avvenire. Ho appreso cose che già conoscevo, scoperto sensi, vissuto vite; giocato senza regole, e ballato fuori tempo; celebrato il Natale con la famiglia, senza famiglia, con altra gente; detto bugie senza volerlo, e verità, senza saperlo.

Ho pranzato con Silvia, riso con Emma, pianto con Vera.

Ho baciato Carlo, della stanza accanto. È un uomo buono, somiglia a Lucio.

 

A volte mi vengono a trovare. I loro visi ricordano quelli delle foto: ne ho diverse, sulle pareti, alcune sotto il cuscino, come spiriti che vegliano sulla mia vita. Una gatta ozia ai piedi del mio letto. Non sono mai sola.

C’è aria di festa, quest’oggi, ricevo doni, scarto sorrisi. All’ingresso, dei palloncini toccano il soffitto; sul comodino c’è un mazzo di boccioli bianchi.

D’un tratto le luci si spengono, davanti a me cinquanta candeline.

Buon compleanno, sussurra qualcuno, di’ un desiderio, poi soffia forte.

Chiudo gli occhi, gonfio i polmoni: voglio volare, come nei sogni.

 

Vi ho già parlato di Chiara? È la donna più bella che abbia mai visto, e ha cura di me. Non so chi sia, da dove venga, ma mi rimbocca le coperte, la notte, prima che mi addormenti. Mi accarezza la fronte col suo palmo caldo, e mi racconta una storia che credo sia mia.

Questo fanno le madri. Anche quando sembrano figlie e, forse, lo sono ancora.

 

 

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