Pellicine

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C’è un punto in cui la pellicina forma un ricciolo.

Se lo tiro piano piano andando verso il basso, riesco a seguire tutto il bordo dell’unghia.

Così, di solito, non mi faccio nemmeno troppo male e la pelle torna liscia.

Da bambina mangiavo anche le unghie. Un gesto a volte automatico, più spesso frutto di un accanimento che me le faceva rosicchiare fino a farle sanguinare.

“Le mani sono il biglietto da visita di una donna,” sibilava mia madre con la voce sporca di disprezzo.

E io lo capivo, certo. Vedevo che le mie dite sbocconcellate facevano impressione soprattutto di fianco alle sue, sempre laccate di fresco. Ma non c’era verso di smettere, nonostante i continui schiaffetti nevrotici. Ogni volta che mi colpiva qualcosa dentro di me si sorprendeva.

E la sua rabbia restava lì, pesante, a separarci.

 

Finché un giorno, non sapendo più cosa fare, mia madre mi aveva promesso la cosa più bella del mondo. Se avessi smesso di martirizzarmi le dita mi avrebbe comprato le scarpette da ballerina, quelle di raso rosa con la punta rigida e i lunghi nastri lucidi da legare intorno alle caviglie. Erano esposte nella vetrina di Ricci – il miglior negozio della città – in magico equilibrio sul supporto trasparente. Sembravano sospese nell’aria, pronte a librarsi in cielo.  Immaginavo che, se fossi riuscita ad averle, non le avrei mai tolte. Con quelle scarpette mi sarei trasformata per incanto in una ballerina e avrei danzato per sempre.

Perché quello era il mio sogno: diventare leggera come una farfalla.

Raccontare la bellezza con movimenti rotondi e delicati come solo una “danseuse” può fare.

 

Il tempo di quelle scarpette non è mai arrivato. Non sono stata capace di meritarle.

Non ho saputo smettere di torturare le dita e mia madre, a un certo punto, ha avuto altro a cui pensare.   Quel sogno è poi arretrato nell’area dell’impossibile avendo capito che, tanto, non sarei mai diventata una ballerina. Di quell’ambizione farlocca di piroettare nell’aria mi è rimasta l’abitudine di saltare il bordo delle piastrelle, atterrando al centro. Pestare le righe di quadrettatura sui pavimenti porta male e non si avverano i desideri, mi aveva detto qualcuno.

Perché i sogni nascono alti, poi iniziano la loro discesa nella vita e si trasformano, o addirittura si deformano in qualcosa d’altro. Spesso diventano fantasie, superstizioni e, scivolando sempre più in basso, si sbriciolano in necessità e bisogni taciuti, spesso nascosti.

Non importa, non ce l’avrei mai fatta. 

 

Oggi le unghie non le mangio più, mi limito a un accanimento occasionale sulle pellicine, quando sono agitata. In effetti, sono spesso in affanno e sempre di corsa.  Sono socia di uno studio legale e lavoro molto.  Mi occupo del mio adorato Luis, il bimbo sudamericano che abbiamo adottato dopo anni di tentativi di averne uno nostro. Non ho mai capito perché il mio corpo si sia rifiutato di generare un altro essere umano.   Un altro me, che non ha mai voluto arrivare.

E poi curo mia madre, oramai non più autosufficiente, tanto che vive praticamente con la mia famiglia se si escludono i mesi estivi quando va a Villa Rosa. Per curare lei ho dovuto tralasciare l’altro sogno che si era fatto largo nell’infanzia e che mi ha accompagnato a lungo: la scrittura. Fantasticavo per ore sui miei personaggi, li tenevo vicini, stretti stretti, immaginavo le loro storie insieme alle mie. Sapevo tutto di loro e mi facevano una gran compagnia. Quei personaggi hanno popolato un sacco di racconti e anche un paio di romanzi.

Adesso non potrei più nemmeno pensare di scrivere. Riesco a malapena a leggere, anche se la sera quasi sempre crollo sul libro.

Alla fine, mi sono convinta che non valesse la pena di insistere. Temo di essere stata una scrittrice mediocre, anche se i pochi che mi hanno letta mi incoraggiavano a continuare.

No, non ce l’avrei mai fatta.

 

E poi la vita inventa sempre nuove difficoltà che prevalgono su tutto. Per esempio, adesso lo studio sta attraversando un momento critico. L’assunzione della seconda segretaria è stata un azzardo. Io ero contraria, in effetti, ma il mio socio ha insistito.  Così, a causa di qualche ritardo di pagamento, le tasse e l’anticipo dell’IVA siamo in crisi: non sappiamo dove trovare i soldi per le due tredicesime di fine anno.  Per la prima volta, dovrò chiedere aiuto a mio padre.  Non ho scelta.

 

Gli occhi di mio padre, sono tagli nella faccia.

Vive da molto tempo con una donna che ha incontrato quando aveva cinquant’anni, il giorno del suo compleanno. Conosco questo particolare perché me l’ha scritto lui. Aveva necessità di spiegare. Il suo moralismo è profondo e pieno di rigore. Rispettabile.

Ha sempre scritto tutto, con quella calligrafia precisa e regolare come una stampa, anche le motivazioni che lo hanno spinto a lasciarci dopo che mamma è peggiorata e lui se n’è andato con quest’altra donna, sana e più giovane.

 

Ha sempre avuto delle magnifiche mani affusolate, femminee. Non ha pellicine ribelli, lui.  Le mie, invece, anche se ho smesso di rosicchiare le unghie, sono diventate mani qualsiasi – un po’ nocchiute – e, comunque, prive di vocazione.  La vera somiglianza fra me e mio padre, sono i libri. È da lui che ho imparato a circondarmi di libri. Ne ho sempre comprati a tonnellate, senza nessuna oggettiva possibilità di leggerli tutti. Ma leggere ha sempre avuto il potere di allargarmi il cuore.

 

La casa di mio padre sembra un vagone ferroviario, è lunga e stretta e poi c’è lo stesso odore di ferro e polvere umida. Quando vado a trovarlo, mi accoglie con un grande sorriso che gli affetta gli occhi, per l’appunto, schiacciandoli in due fessure che quasi scompaiono fra le palpebre e gli zigomi.

E’ davvero tanto contento quando mi vede.

Vado sempre quando quella donna non c’è. E gli faccio da mangiare. Oggi: frittata, insalata di pomodori e panini al latte, quelli che preferisce e che sono andata a cercare apposta. Infine un dolce, per prolungare il pranzo e darmi coraggio.

Parliamo tanto, io e papà, spesso anche di cose amare. Non si sta mai in silenzio.

 

Dunque. Oggi papà dice che una vecchia parente è mancata.  Fatico a ricordare chi sia.

Le sue parole iniziano a uscire veloci, come se si rincorressero.

E quindi. Come è contento della mia riuscita.   La mamma, si sa, è così bisognosa e l’organizzazione della mia famiglia è perfetta per una malata come lei.

E io sono proprio brava a farmi carico di tutto in questo modo.

Il pollice destro ha una pellicina che sporge di lato. Non resta che tirarla. Si produce un ricciolo che gira intorno fin sul polpastrello, tagliando in due il dito.

Questa parente ha lasciato un bel po’ di soldi, dice papà. Li ha lasciati a lui, questi soldi, ripete.

 

La punta delle mie dita si riempie di un formicolio. Il cuore fa un balzo e pare uscirmi dal petto con un alleluia dorato che mi culla nel sortilegio bizzarro di quella realtà nuova nuova: papà dispone di soldi, di molti soldi.

“Sai papà, sembra proprio una coincidenza, perché ho bisogno di parlarti di una cosa.”

 

Lui però mi interrompe, gli occhi quasi spariti del tutto dentro gli zigomi che si sono fatti un po’ più rossi sotto l’indomito reticolo della couperose. E chiede scusa, ma deve proprio concluderlo quel discorso. Perché è molto, molto importante.  Questi soldi, dice papà con una voce nuova e trionfale, lui non li vuole. O meglio, vorrebbe fare come se non fossero mai arrivati.

Resto immobile mentre quelle parole atterrano fra di noi e rimangono grosse. Immense.

Guardo in basso, con una specie di vertigine. Le mani sono abbandonate sulla gonna grigia. Sposto i piedi al centro della piastrella. Da qualche parte qualcosa trema, ma non saprei dire dove. Papà ha preso una sedia e l’ha girata mettendola di fronte a me. Si è seduto a gambe larghe con lo schienale a tenergli il petto. Le braccia appoggiate sopra, servono ad aiutare le parole che si susseguono rapide.

Finché, all’improvviso, come se avesse esaurito il fiato, si blocca. Prende tempo.

Sento il suo respiro che se ne esce facendo rumore. Rimette a posto la sedia e torna alla posizione iniziale. Adesso tocca e ritocca la tazza del caffè, che è oramai vuota sul tavolo. La tocca tanto per fare, senza vederla.  E trova il modo di continuare.  Io, ormai, sono ben sistemata. Una posizione invidiabile, dice, frutto del mio talento, di una bravura che si è vista fin da piccola e poi anche all’università, con quella laurea a pieni voti.

“Ecco, papà, però bisognerebbe che tu sapessi…”

 

La sua mano rotea nel vuoto, per dire, dopo, dopo.

E’ fiero di me, davvero.

Intravedo persino uno spessore lattiginoso nelle linee dei suoi occhi quasi scomparsi. Non mi domando perché mi sta facendo tutti quei complimenti, sto succhiando il pollice come una bambina e, se non fosse per la casa-vagone, sembreremmo precipitati in un flash-back bizzarro, in un folle galoppo nel passato che ci sta riportando – insieme, io e lui – nella nostra vecchia cucina quadrata, tutta diversa da questa, lunga e stretta. All’improvviso, siamo come nelle foto in bianco e nero, quelle degli album.

Ma papà è inquieto. Si alza di nuovo, prende a camminare su e giù. Non capisco tutto quel movimento, io vorrei tanto che si sedesse e allungasse la mano sulla mia. Desidero solo vedere la sua mano perfetta.

 

Ecco, papà però. Ti devo dire. Ti vorrei dire che.

 

Non sono sicura di aver pronunciato queste parole.

Credo di averle solo pensate. Temo di non essere riuscita a dirle.

Perché lui è rimasto prigioniero dei suoi pensieri e, quindi, prosegue.  Pensa, crede, considera, (cincischia con la voce, raschiando in gola), anzi, valuta sia doveroso e, quindi, ha deciso che non può fare a meno di fare qualcosa per.

Per la famiglia.

Anzi, per mia sorella.

Che vive ancora alla giornata, con i suoi lavori intermittenti e quella gestione economica caotica e sempre ai limiti, i compagni instabili e poi avere a che fare con lei è sempre stato così difficile.

Mi ricordo le litigate feroci? il suo non occuparsi mai di niente e di nessuno, tanto meno della mamma, io lo so bene, nessuno meglio di me sa di cosa sta parlando, vero?

Con quel carattere così impulsivo, anzi, diciamo pure violento.

E adesso poi, con la bambina da tirar su da sola.

Quei soldi, potrebbero finalmente garantire qualcosa di concreto per il futuro, potrebbe sistemarsi con una base da cui ripartire. Lei non ce la farà mai a comprare una casa. Anch’io ho un figlio, posso capire. Vero che capisco?

Questi soldi, dice papà con soddisfazione, potrebbero essere la vera svolta della sua vita.

Perché, a mia sorella occorre una spinta per mettere la testa a posto.

Un piccolo appartamento, niente di che, ma vicino, così saremmo tutti a portata di mano.

Questo, adesso, è diventato il sogno di papà. Il suo sogno irrinunciabile.

 

Il fatto è che papà non ha mai regalato niente. Proprio mai. Nemmeno quando se n’è andato da casa mollandoci di colpo. Adesso è cambiato.

Anzi, è un vero testa-coda grandioso, epocale, quello di mio padre.

Tanto che lui stesso, è visibilmente esaltato da quell’esordio di munificenza, come fosse un impensato – per quanto tardivo – inedito splendore.

Si piace. Si erge su quella decisione, come fosse sul podio olimpico del genitore perfetto.   Ritrova un ruolo, mio padre. Si applaude e si redime, anzi, si santifica.

Realizzando il suo sogno di oggi cancella la sua inettitudine di ieri.

E l’idea della propria bontà nuova nuova deve essere una medicina molto potente perché sembra più alto e più forte. Persino più giovane. È bellissimo mio padre in questo momento.

 

Cerco nuove pellicine, mastico l’angolo sopra l’unghia e stacco un piccolo triangolo. Così, si crea il varco. Tiro, spelo, scarnifico. I denti procedono con metodo mentre le labbra si arricciano all’interno scoprendo le gengive. Non lascio niente, nessun riparo. Rimango senza pelle.

 

Cosa succederebbe se mi dovessero prendere adesso, in questo momento, le impronte digitali?

Sono tagliuzzate, monche, sfigurate.   Ho cancellato tutti i segni di riconoscimento sul polpastrello del pollice, quelle tracce identitarie concentriche e speciali che hanno tutti.

Le mie, invece, non ci sono più. Mi sono divorata.

 

Non importa, non ce l’avrei mai fatta. 

 

Credo di essere riuscita a sorridere, prima di uscire dalla casa-vagone. Fuori, l’inverno è denso e fitto e quel tempo glaciale mi sorprende, come se fino a quel momento non ne fossi stata davvero consapevole.

Anche se allungo la strada e sto tremando di freddo decido di passare per i giardini, mandando in gola l’aria ghiacciata per fare spazio nel petto.  E attenuare quel peso.

Incrocio una giovane mamma con una carrozzina blu. La donna si china teneramente verso il bimbo, sorridendo, sembra che gli stia aggiustando la copertina per proteggerlo dal freddo.

 

No, non ce l’avrei mai fatta. 

 

Il polpastrello scorticato pulsa. Tiro fuori la mano dalla tasca del cappotto.

Il pollice è cianotico e il sangue ha imbrattato anche le altre dita.

Le metto in bocca tutte insieme e le succhio avida, con quella fame prepotente, quel bisogno antico. Devo sembrare strana, infatti mi accorgo che la sconosciuta della carrozzina si è bloccata e mi fissa. Pare stupita. Anzi, spaventata.  Restituisco uno sguardo di sfida, mentre continuo camminare e a ingozzarmi con le dita. Dopo averla superata però tolgo le dita dalla bocca e rimetto le mani in tasca.

Faccio qualche passo e mi blocco. Mi giro, cerco la donna con la carrozzina.

Vorrei guardare quel bambino solo per un momento, niente di più. Mi sarebbe sufficiente per capire se è davvero il figlio di quella donna. Ma non c’è più nessuno. Mi guardo intorno. Giro su me stessa.

I giardini sono deserti. Assopiti sotto la brina.

Immagino che dentro quella carrozzina non ci fosse niente.

Forse quella tizia stava solo fingendo, come fanno le bambine con i giocattoli.

Era solo un vuoto con la coperta sopra.

 

 

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