Notte Stellata

categories="13381,12868,6030,12964,9217,13794,12762,12863,12742,12741,12743,12862,12744,12746,12745,12747,12748,12865,12866,12799,12749,12763,12750,12864,12751,12867,12752,6546,16899,12965,6542,3,12980,210,17281,17282,17283,17284,12962,6126,13798,12981,287,1,12966,12961,12976,2916,5857,9608,12505,14138,14139,13781,6544,13496,7153,6534,5184,12977,6031,9215,6523,10994,6522,1545,6421,10995,10993,13198,361,13290,12821,12800,6062,8672,16701,16702,16703,6,5856,12959,9216,9218,27,101,14566,13209,6511,12963,12816,427" random="1" limit="1"]

Estate 1889, Saint-Rémy.

Manca poco all’alba. Le fiammelle delle candele alle spalle dell’uomo tremano, scosse da una brezza leggera che dalla campagna soffia attraverso la finestra aperta.

Lui è scalzo, la camicia lisa e imbrattata dai colori che si sono seccati, aperta sul petto magro.

Ha in mano una tavolozza e dei pennelli, di fronte una tela appoggiata su un cavalletto. Le pennellate che passa sulla trama bianca della tela sono brevi, ora oblique, ora curve, poi vorticose, come i suoi pensieri.

È immerso nel buio di una notte stellata.

Sono troppe le inquietudini che si rincorrono nella testa per esprimerle in parole. Le dipinge, assieme ai tetti, i cespugli, gli alberi, le montagne. Un grande cipresso, più simile a una fiammata scura. Sopra tutto, il cielo animato da vortici di stelle luminose e vento. Una falce di luna gialla affogata in un cielo blu.

Sorride.

Un malinconico incresparsi di labbra sul viso trafitto da una barba rossiccia.

Ricorda quando, prima di innamorarsi perdutamente dell’arte e della natura, bruciava di misticismo religioso. Allora si definiva afflitto, ma sempre lieto.

Ecco, adesso, in questa stanza grigia di un manicomio, si sente così. Sofferente, ma improvvisamente felice. Quando era a Nuenen, al nord, l’avevano chiamato imbrattatele. Ne aveva sofferto, ma qui, nella cella di quello che in passato fu un convento, solo di fronte all’infinito, si domanda che importanza possa avere il giudizio degli altri.

Aveva cercato la luce, attratto dalle tinte mediterranee, era arrivato ad Arles.

Al sud, aveva trovato il suo posto. Non gli sembrava vero di abitare in una casa gialla. L’aveva dipinta proprio così, con uno dei suoi colori preferiti, e anche la sua stanza, e poi i campi di grano mossi dal vento e i girasoli.

Dipingeva in maniera forsennata, ogni volta che poteva en plein air, come aveva imparato dai maestri impressionisti che aveva ammirato. A differenza loro, però, non immortalava la luce in un singolo istante. Lo si poteva vedere uscire di casa al mattino presto armato di cavalletto, tele e colori e tornare solo alla sera. Si riparava dal sole cocente con un cappello di paglia e dalla pioggia con un ombrello, e continuava a dipingere.

Riusciva a cogliere ciò che normalmente gli occhi non vedono. Nella sua stanza affollata di tele, osservava a lungo un paesaggio campestre che aveva ritratto. Percepiva il profumo dei fiori di campo nel quale era rimasto immerso per ore, il calore del sole che scottava la pelle, l’aria che muoveva i filari di grano e qualche volta gli scalzava il cappello dalla testa. Ma tutte queste cose, per quanto impalpabili, appartenevano al mondo materiale.

Lui voleva andare oltre. Inseguiva un sogno.  Lui bramava dipingere le sensazioni. Su quelle spighe, quei fiori, quei campi, quei volti anche, era adagiata la speranza luminosa della sua felicità, della serenità tanto inseguita, quasi con testardaggine, fin da bambino, quando aveva iniziato a disegnare incontrando già le prime critiche, da parte di suo padre.

Suo fratello, invece, lo aveva capito, sostenuto, amato. E lui lo aveva sempre ricambiato, con tutto l’amore che riusciva a comunicare. Gli inviava i suoi quadri e le sue lettere.

Poi i colori erano esplosi nella testa, abbagliandolo e lasciando un’impronta nera che lo aveva terrorizzato. Come fosse diventato improvvisamente cieco. Rabbia, dolore, tristezza.

Paura. Il sentimento che l’ha guidato fino a qui. La paura di deludere l’unico essere su questa terra che avesse mai creduto incondizionatamente in lui.

Per suo fratello, per non dargli altri motivi di preoccupazione, ha deciso volontariamente di rinchiudersi in questo posto, lontano da tutti. Solo, con i suoi colori improbabili.

Questa notte, la paura si è sciolta nell’urgenza di trovarsi di fronte a una tela bianca, riempirla con i colori che sente. Quelli che ha dentro.

Davanti alla finestra aperta ricomincia a fare l’amore con la sua arte, scosso dal desiderio. Non ne è geloso, sa che è solo sua. Gli altri non la comprendono o addirittura ne sono turbati. Il suo modo di dipingere non è per i contemporanei, questo l’ha capito. Chi verrà dopo, ne è sicuro, lo apprezzerà.

Ogni volta che prende in mano un pennello, rinasce. A dispetto di tutto.

È così ostinatamente appagante la smania che muove la sua mano che potrebbe non mangiare, non dormire neppure.

Dipingere. Solo questo brama.

Se potesse scegliere come e quando morire, vorrebbe che fosse con un pennello in mano, in un campo, all’aperto. Forse riuscirebbe perfino a ritrarla, la morte. Potrebbe coglierla nel volo disordinato di corvi neri che si alzano da un campo di grano prima che venga scosso dalla tempesta, o magari quando quegli uccellacci vengono partoriti da nubi cupe che offuscano il cielo.

Ferma la mano a mezz’aria, turbato dall’immagine che ha spiato tra i complicati labirinti della sua mente. Sbatte un momento gli occhi, per liberarli da un peso invisibile.

Come spesso gli accade, tenta di ricacciare quei pensieri lontano da sé. Ne subisce il fascino ma ne riconosce il pericolo, come il canto delle sirene di Ulisse.

 

Tuffa il pennello nel verde e nel marrone, li mescola tra loro e li trasferisce rapido sulla tela, a sinistra, dall’alto in basso. I due cipressi scossi dal vento sono fiamme che ardono ai suoi occhi e uniscono il cielo e la terra.

Li sente fremere, ne percepisce l’odore resinoso. Li accarezza, con movimenti fluidi e sinuosi, dissimulando il terrore che gli trasmettono. Sono scuri, bui, gonfi del vento prima di un temporale. Sono colpe, forse rimorsi, o ancora presagi indicibili, giganteschi e vibranti, capaci di nascondere il resto alla vista. O magari sono dei portali che trasportano l’anima fino alle stelle, attraverso la morte. Ma lui li doma e li costringe a un lato.

La sua notte non è ferma. Fugge di continuo. È carica di mistero e inquietudine.

Deve fare presto a catturarla, prima che svanisca.

Dietro agli alberi si stende il ricordo del suo villaggio natale.

Il calore delle braci che si consumano nei camini in inverno gli arrossa il viso.

Le pennellate si fanno affettuose, più leggere. L’azzurro tenue disegna i tetti delle casette e la guglia della chiesa inginocchiata e raccolta in preghiera. La punta del pennello sulla tavolozza si sporca di giallo. L’uomo lo preme sulla tela a disegnare piccole e sparute finestre. Dietro una di esse, una madre sta cullando il suo bambino. Un brutto sogno lo ha svegliato all’improvviso. Nel silenzio può udire la cantilena della ninna nanna sussurrata dalle labbra materne che soffiano baci sulle palpebre per riaccompagnarlo nel sonno, al sicuro.

Lui non è al sicuro, non lo è mai stato.

Colline immerse nell’oscurità e ulivi vegliano a loro volta sul piccolo villaggio, ma le dipinge come se incombessero, quasi onde ribollenti di un mare in tempesta.

La brezza porta alle sue orecchie l’ininterrotto frinire dei grilli.

Sotto i piedi nudi, l’erba gli solletica la pelle, soffice e umida di brina.

Quando cerca il blu sulla tavolozza, lo stempera in decine di gradazioni, dalla più scura e impenetrabile fino all’azzurro turchese e ruota il pennello sulla tela. Nulla nel suo cielo è immobile.

Poi, all’improvviso, carica le setole del giallo più brillante che ha e lo esplode nel mezzo del firmamento, creando stelle vorticanti e di una bellezza terribile, disperata.

La luna, fatta di linee curve, s’ingigantisce. Tutto pulsa, palpita, trabocca di vita, deformata dalle lacrime che invadono gli occhi dell’uomo, eccitato e stravolto dalla vista del quadro che prende forma attraverso le sue mani, ancora incredulo di essere riuscito a imprimere le proprie sensazioni sulla tela.

Rimane a guardare, incapace quasi di respirare. Fa un passo indietro e inclina la testa per osservare meglio. La brezza rinforza, diventa un vento più caldo che spegne le candele con un’improvvisa folata.

Se ne riempie i polmoni. Davanti a lui la finestra si allarga e il cielo brilla degli stessi colori con i quali l’ha dipinto.

Si solleva dal pavimento di pietra e inizia a volare in alto, leggero come un sogno.

Si accorge del pennello che stringe nella mano e quando arriva vicino a una stella, prova a intingerlo nel giallo e lo stempera nel bianco zinco che ha tracciato intorno, creando una gradazione di arancio.

Galleggia nel blu cobalto del cielo e di nuovo stende il colore, denso come una crema in alcuni punti, alleggerendolo in altri, grattandolo fino a lasciare intravedere il vuoto.

Chiude gli occhi. Il profumo degli oli e dei solventi lo inebria quanto l’assenzio che lo aveva dolcemente avvelenato a Parigi.

Quando li riapre, i suoi piedi si stanno posando nuovamente sul pavimento della stanza.

Davanti a lui il quadro che ha dipinto. In quel blu cobalto, ultramarino, i gialli indiani e lo zinco, l’uomo riconosce con chiarezza la propria solitudine, lo smarrimento e la fragilità che lo hanno accompagnato per tanto tempo. È convinto ora di poter esorcizzare quei demoni.

Si asciuga gli occhi col dorso della mano, lasciando sul viso una traccia di olio colorato.

 

Spedirà anche questo dipinto a suo fratello. La galleria che ha a Montmartre brulica dei suoi lavori.

Rimane così. In bilico. Tra sogno e realtà.

Domani dipingerà ancora, incurante delle critiche, dell’indifferenza, dello scherno.

E vorrebbe che fosse già domani.

 

«Osservo negli altri che anch’essi durante le crisi percepiscono suoni e voci strane come me e vedono le cose trasformate. E questo mitiga l’orrore che conservavo delle crisi che ho avuto […] oso credere che una volta che si sa quello che si è, una volta che si ha coscienza del proprio stato e di poter essere soggetti a delle crisi, allora si può fare qualcosa per non essere sorpresi dall’angoscia e dal terrore […] Quelli che sono in questo luogo da molti anni, a mio parere soffrono di un completo afflosciamento. Il mio lavoro mi preserverà in qualche misura da un tale pericolo».

(Lettera a Theo Van Gogh, 25 maggio 1889)