Lezioni di volo per autodidatti

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“Vieni giù! Che fai lassù? Finirai per ammazzarti!”

“Cerca di mettersi in mostra, lasciatela perdere! Scenderà da sola, quando si stuferà”.

Sempre la stessa storia, ogni volta. Si dividevano tra coloro che si preoccupavano che si potesse far male e quelli che pensavano ad un bisogno d’attenzione. Ma non c’entrava né l’una né l’altra cosa: lei sapeva badare a se stessa e degli sguardi degli altri non sapeva che farsene. Era caparbia e consapevole: sapeva quello che voleva e non consentiva agli altri di parlare per sé.

Era stata una ribelle sin da quando aveva rotto il guscio, ma mai per il mero piacere di rompere l’anima agli altri. Lei rivendicava i propri spazi. Chi ha detto che una gallina non possa sognare?

Forse era un caso – ma lei non lo credeva – che il suo nome fosse proprio quello. Apparteneva a un pollaio nel quale si erano succedute generazioni e generazioni di volatili da cortile, sempre nella proprietà dell’agiata famiglia Ferrario. Per una fortuità o per un curioso senso della tradizione, i padroni attuali l’avevano chiamata Rosina, come la loro ava più nota. In nome omen, si era detta lei, anche se non proprio con quelle parole.

La storia di Rosina Ferrario si tramandava in famiglia (tanto umana quanto aviaria) con orgoglio e stima. Nacque nel 1888, un periodo a cavallo tra passato e modernità. Era la Belle Époque, con il diffondersi dell’industrializzazione, delle invenzioni incredibili, dei sogni di progresso senza fine. C’era un ottimismo diffuso e l’Italia, da poco finalmente riunificata, sembrava destinata a un ruolo da protagonista.

E protagonista voleva essere Rosina, figlia di una borghesia ricca di denaro e progetti. Con la sua nuvola di capelli e gli occhi vispi, fu da sempre una fanciulla ben consapevole del proprio valore e poco incline a farsi relegare al ruolo che la società le attribuiva per tradizione. Ribelle? Non esattamente, era una bambina – e poi donna – ben educata, in questo i suoi genitori avevano fatto un buon lavoro, assicurandole un’istruzione e dandole accesso all’ampia biblioteca di famiglia. Rosina, però, era una mente molto attiva, curiosa, con diversi interessi, dal viso dolce, ma non per questo meno fiera. Il suo era un carattere vulcanico, con la voglia di conoscere e di sperimentare in prima persona.

Si appassionò a tutto ciò che era attività fisica: sportiva poliedrica, manifestava un amore sconfinato per la montagna, praticando, appena possibile, escursioni e scalate. Per molti, nella società ancora molto tradizionalista dell’epoca, era un maschiaccio, ma non era vero: non c’è femminilità più autentica di una femminilità consapevole e lei lo era. Che indossasse un vestito elegante, pratici pantaloni che liberassero il movimento o addirittura una tuta e un caschetto, era sempre una donna autentica. Anzi, nei momenti in cui poteva dedicarsi ad attività considerate poco canoniche per il gentil sesso, il suo volto si accendeva di una luce di gioia e di entusiasmo che non poteva non far innamorare.

Rosina scoprì i nuovi veicoli, stupendi miracoli di ingegneria come automobili e aerei, e si rese conto che la vera esplorazione, in quegli anni, non attraversava foreste o deserti, ma motori, ingranaggi, sfide impossibili tra l’uomo e i suoi limiti. E chi, più di una donna, conosceva i limiti, imposti da secoli in modo arbitrario da padri, mariti, figli?

Insistette molto per ottenere la patente di guida, prerogativa maschile, ma ancor di più lottò per studiare e ottenere il brevetto come pilota di aereo. Ottenne molti no, irrisione e diffidenza. Eppure Rosina ce la fece: divenne la prima donna aviatrice d’Italia, l’ottava nel mondo.

Lei, la Rosina gallina, ripensava alla propria omonima come a una parente, quasi fosse un’ava dalla quale discendesse direttamente. Oltre al nome, c’erano molti parallelismi fra di loro. Anche lei era stata un pulcino cocciuto. Le avevano raccontato come, nella sua covata, lei avesse rotto il guscio con molto anticipo rispetto a fratelli e sorelle. Aveva imparato con rapidità a gestire le zampette e aveva da subito cominciato a razzolare in giro, a guardarsi intorno, ad apprezzare la sicurezza del proprio pollaio, ma anche a scrutare oltre la recinzione.

Il gallo, suo padre, l’aveva più volte richiamata all’ordine:

“Rosina: sei una gallina, torna con le altre e pensa a curare le tue uova”.

Ma lei non si convinceva:

“Che male faccio? Non voglio essere altro che me stessa. Ho le ali, sono un uccello”.

“Non si è mai vista una gallina perbene che si creda un’aquila. Non s’è mai fatto”.

“Se non si è fatto prima, è sbagliato?”

Nessuno rispondeva, ma le altre chiocciavano tra loro, scontente e scandalizzate.

Rosina Ferrario lottò per vedersi riconosciuto il diritto di imparare a volare e per farlo come era consentito agli uomini. Contro il pregiudizio che certe cose fossero solo da maschi. Contro l’idea che una donna fosse buona solo per gestire la casa, ricamare e fare figli. Contro persino l’idea che una donna in pantaloni fosse strana ed eccessivamente ammiccante.

La donna era affascinata dalle nuove invenzioni, dall’epica sfida contro gli elementi e le leggi naturali. Essere pionieri aveva un che di avventuroso, in cui la paura e la poesia si sommavano al valore sportivo della sfida. Era un sogno romantico di futuro e idealità: chi, nella vita, non aveva mai immaginato di volare?

La gallina con il suo stesso nome condivideva con lei anche il desiderio più intimo: sfidare i preconcetti e librarsi in cielo, anche se femmina, anche se inadatta per costituzione a levarsi in volo. Anche per lei la presa di coscienza era stata graduale: si era resa conto che quelle sue appendici erano ali, che di solito un volatile le usava per librarsi in cielo ma le galline no, al più qualche salto per levarsi da un impiccio improvviso. Ma era come avere gli occhi e tenerli chiusi. Uno spreco. Forse era per quello che, provando a svolazzare, i risultati erano stati mediocri, perché lo scarso uso per generazioni aveva atrofizzato tali arti.

“Che sciocchezze si è messa in testa!”

“Che svampita!”

“Quando dicono cervello di gallina, ecco cosa intendono”.

Le critiche delle compagne erano feroci. Qualcuna era gelosa, qualcuna sciocca; molte proprio non concepivano che si potesse desiderare qualcosa di più che razzolare nell’aia e beccare qualche chicco di grano.

“Abbiamo sempre fatto così!” sostenevano, come se questo rendesse tutto il resto impraticabile.

Tuttavia – come l’antenata umana dei Ferrario non desiderava rinunciare al proprio ruolo femminile, ma solo poter esercitare la libertà che spettava a ciascun individuo – così Rosina non voleva smettere di essere una gallina, solo riappropriarsi del miracolo strabiliante del volo. Ci aveva creduto tanto da andare contro le maldicenze del resto del pollame, contro la disapprovazione del padre.

Si era esercitata con pazienza: muovendo le ali da ferma, simulando planate e virate come nei giochi dei bambini umani, saltando dai pioli di una scala posata ad una parete del pollaio – via via da uno più alto – abituandosi gradualmente al timore di buttarsi nel vuoto, allo smarrimento della caduta. Si era esercitata ad arrivare al terreno in modo delicato, riducendo l’impatto, a scuotere le ali per capire come meglio tenersi in sospensione.

“Come è potuta nascere dalle mie uova una figliola tanto svitata?” gemeva sua madre, ondeggiando il capino preoccupata. “Così facendo non troverà mai un compagno. Si farà del male”.

E qualcuno le dava la colpa di averle messo in testa le favole di una donna umana controcorrente. Rosina non si lasciava condizionare.

“Perché dovrei rinunciare?”

“Perché sei una gallina!”

“Appunto, una gallina non è forse un uccello?”

Il gallo scuoteva la grande cresta, decisamente non abituato a non essere ascoltato. Era contrariato. Ma Rosina non voleva sfidare il padre, non voleva essere quella strana: lei desiderava solamente vivere pienamente la propria natura.

“Imparerò a volare e poi lo insegnerò a tutte le sorelle che vorranno imparare. Persino a te, papà!” dichiarava sognante.

Il pollaio intero rimaneva perplesso, per nulla affascinato da quel progetto che sembrava pura fantascienza. Rosina non se ne dava pena: prima o poi avrebbero capito, ne era sicura.

Si esercitava con determinazione, tenendo l’esempio della sua omonima come riferimento costante. La prima donna italiana con il brevetto di volo. Lei sarebbe stata la prima gallina a librarsi in cielo dopo chissà quanti millenni. Erano espressione della stessa forza di volontà, dello stesso ideale.

C’era fra loro, tuttavia, anche una grande differenza. La Rosina umana aveva avuto degli istruttori a insegnarle come è fatto un motore, come si manutenesse, in quale modo sollevarsi in aria e atterrare. Lei, per contro, aveva dovuto imparare da sé, come autodidatta: aveva osservato il volo dei corvi che di tanto in tanto volavano nell’aia a rubare qualche chicco di granturco, il moto dei piccioni che la guardavano con i loro occhietti stupiti, domandandosi cosa volesse da loro quella gallina dalle piume dorate. Aveva scrutato il dispiegarsi delle ali, la posizione delle zampe prima di toccare il suolo, come planare, salire in cielo o scendere a terra. Era stato molto più faticoso, anche perché lei non aveva un macchinario a supportarla, poteva contare solo sulle proprie forze.

Inoltre c’era anche un altro aspetto. La Rosina pilota aveva sperimentato cosa volesse dire librarsi in cielo tra i primi umani nel mondo, aveva vissuto una Guerra mondiale (cui non aveva potuto partecipare neanche come soccorritrice volontaria) e poi aveva deciso di smettere. Forse si era resa conto che certi stereotipi di genere erano ancora troppo forti perché potesse vivere appieno il suo sogno, forse aveva ritenuto che si fosse ormai entrati in una fase di normalizzazione e il fascino di quel percorso da pioniera, di esplorazione di un mondo nuovo fosse ormai venuto meno. Aveva appeso caschetto e tuta al chiodo e si era sposata, a trentatré anni, e si era dedicata alla famiglia e alla gestione di un albergo, senza mai più volare. Lei, per contro, desiderava con tutto il suo cuore imparare a volare non per un brivido momentaneo, ma per non smettere più.

Entrambe avevano visto nel volo l’affermazione della propria identità profonda, senza i limiti di tradizioni, pregiudizi, paure; per l’umana era stato sufficiente provare e sapere di poterlo fare, per lei, che era un volatile, significava riappropriarsi della propria natura. Per questa ragione, se per la prima era stato possibile anche smettere, per lei diveniva una meta necessaria e a cui non avrebbe potuto più rinunciare.

Ora – dopo tanto lavoro, rospi inghiottiti, speranze impellenti – finalmente era arrivato il momento della grande prova. In cima al tetto del pollaio era pronta per il volo più importante della sua vita. Il primo, quello da cui tutto sarebbe derivato.

“Rosina, ti prego, scendi!” la supplicava la madre.

“Quella ha di sicuro battuto la testa” spettegolavano le chiocce.

Intanto, tutto il pollame era riunito e la stava osservando, in attesa. Rosina rizzò il capo, con la cresta rossa e i bargigli gonfi d’orgoglio. Avrebbe volato, si sarebbe librata nel cielo

I pulcini pigolavano eccitati da quella follia, affascinanti dal progetto quanto dall’eventuale disastro di un suo fallimento. Il gallo teneva il becco serrato, preoccupato.

Rosina Ferrario aveva sperimentato il volo e aveva smesso. Lei, Rosina la gallina, invece, non intendeva rinunciare al volo, neppure quando avrebbe avuto la propria covata. Non era più un pollo, era una gallina. Era pronta per prendere in mano il proprio destino.

Ci avrebbe provato sino a che non sarebbe stata una tecnica perfetta per un volatile da cortile, non si sarebbe fermata. Oltre il bordo della tettoia c’era il vuoto, c’era il cielo. C’era la libertà. Aprì le ali, che sembrarono brillare per il sole che le illuminava da dietro. Era il momento della verità. Era il momento di puntare al futuro. Rosina si lanciò nel vuoto con le ali spiegate.

 

 

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