Il sogno di mille altre sere

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Mi chiamo Marina e la scelta di questo nome è stato il primo e forse ultimo atto di libertà di mio padre. Per il resto, lui lasciò che ogni cosa fosse decisa da mia madre, o da chiunque avesse la capacità di sottrargli ogni possibilità di dire o fare secondo il proprio sentire.

Abbiamo sempre abitato al lago, per esempio. A dispetto del suo amore per la salsedine. Quando andavamo al mare – io soltanto una bambina – ero la sola a voler entrare in acqua con lui: per ore restavo a osservare la sua pelle mentre aggrinziva sotto i raggi solari, nell’arsura del sale. Poi diventai grande e lui perse la sua piccola e unica compagna di gioco.

Qualche volta, andavamo tutti e tre a fare una passeggiata sul lungolago. Mia madre insisteva affinché uscissimo tutti insieme, come una vera famiglia, diceva. Riusciva a convincere entrambi – il marito nella sua riluttanza al paesaggio e io nella mia svogliatezza da adolescente – solo quando l’ora si era fatta ormai buia e allora il confine dell’orizzonte assumeva quel blu indistinto che cancellava la linea chiusa della circolarità lacustre. “Al mare non si vede mai dall’altra parte”, mi bisbigliava in segreto. Qualche volta, si fermava a riva, in un punto dove alcuni pescatori tiravano in secca la propria barca, approfittando dell’ingresso inutilizzato di una villa abbandonata. Mia madre detestava il pesce e brontolava per quella sua abitudine, ma lui la liquidava con la scusa di volersi trattenere soltanto per dare un’occhiata. Guardo, ma non compro niente, le diceva: voi andate avanti.

Poi mia madre morì. Credo gli dispiacque, anche se non arrivò mai ad ammettere che quella nuova solitudine lo aveva affrancato da una sorta di schiavitù.

Soltanto un mese dopo, andai a vivere nel palazzo di fronte al suo, una costruzione gemella di otto piani, i muri a tratti scrostati del loro intonaco color salvia. Abitavamo entrambi al secondo piano, così che era piuttosto semplice, per me, tenere d’occhio i movimenti di un genitore che si faceva sempre più anziano.

Arrivato l’inverno, mi accorsi di qualcosa. Le persiane del terzo piano, nel condominio di fronte al mio, erano chiuse da diverso tempo. Non lo realizzai da subito, ma solo dopo molti giorni in cui, chi vi abitava, non si affacciava più per allungare semi e qualche briciola di pane agli uccellini che facevano tappa sul suo davanzale. Nel corso del tempo, alcune listarelle delle imposte presero a penzolare come se stessero sgocciolando nel cortile sottostante.

Ricordavo bene l’uomo che molti anni prima era andato ad abitare lì. Una figura schiva, con un’espressione vuota sul viso, come se il tempo avesse sgretolato ogni emozione creando solchi simili a quelli che vedevo sulla pelle di mio padre, mentre lasciava che il sale creasse le sue venature bianche sulla superficie di schiena e braccia. Quando lo incrociavo, sul pianerottolo o nella cantina dove andavo a prendere del vino, avevo la sensazione che accelerasse per non rischiare di incrociarmi.

Soltanto una volta, in un supermercato – mancavano due giorni a Natale – mentre eravamo in fila al reparto pescheria, mi aveva parlato. Ricordo d’essermi avvicinata a lui con aria furtiva, sgusciando a lato con la strategia d’un granchio. A quel punto, non poté evitare le mie parole e il pretesto che escogitai per spremer fuori una sua parvenza di affabilità. Ancora oggi non so dire perché mi venne spontaneo spingermi tanto in là con quella persona, considerando il mio carattere e una tendenza alla scontrosità non meno accentuata della sua. Tuttavia, dopo i miei insulsi convenevoli, mi rispose: “Oh, sì. Certo che l’ho riconosciuta. Lei è dottoressa, non è così?”

Sorrisi: “Diciamo che curo le persone, sì. Ma non sono un medico, se è questo che intendeva. Sono una psicologa… mi occupo soltanto della mente della gente.”

“Beh, dove poi c’è tutto, no?”

Restai colpita da quella sua uscita, tanto che volli provare a replicare con un tocco di tenerezza: “Anche nel cuore c’è molto, non crede?”

Questa volta, non rispose più, spegnendo il nostro dialogo con un cenno di malinconico assenso che voleva rappresentare, al tempo stesso, un saluto. Quando fui in cassa, realizzai che si era congedato, sfilandosi dalla ressa, senza aver fatto alcun acquisto. Nel parcheggio, infine, con il vento gelido che mi si soffiava nel bavero del cappotto, me lo ritrovai dietro, non appena mi voltai dopo aver richiuso il baule dell’auto.

Aveva un pallone lunare spalmato sulle guance, ma sorrideva come se avesse perduto la sua sobrietà: “E mi dica, dottoressa – mi interrogò senza alcun preambolo – lei, allora, è di quelli che sanno che cosa vogliono dire i sogni, non è così?”

Non mi lasciò annuire, o diversificare.

“Allora mi dica che significato ha questo mio sogno. Per anni si è ripetuto nelle mie notti…”

Incrociai le braccia sul petto, come per raccogliere pazienza e disponibilità all’ascolto, anche se, in parte, sentivo che quella mia posa era anche difensiva.

“Ebbene, il sogno è sempre lo stesso: un vortice che si crea al centro del lago e che da blu diventa grigio e poi ancora nero, fino a quando, io, sa cosa faccio?”

“No, che cosa?” accolsi con un sorriso, cercando di dissimulare una sottile inquietudine.

“Io scelgo di guardarci dentro.”

“Nel vortice?”

“Sì.”

“Sembra… un atto di coraggio” azzardai.

Ma lui si girò su sé stesso per andarsene, senza finire di accogliere le mie ultime sillabe. Restai di stucco, e in fondo, anche un po’ seccata. Finsi di non volerci fare caso, ma una volta salita in macchina, un impeto di stizza mi spinse a scendere dal sedile e a girarmi verso l’uomo che, pur ingobbito, occupava ancora la mia visuale.

“Ma perché non mi ha detto che cosa ha visto in quel diamine di vortice?” gli urlai contro.

Il vecchio si girò e io ebbi l’impressione che i suoi occhi stessero luccicando nel buio.

“Ci vidi dentro la vita, mia cara!” mi rispose, allargando le braccia.

Me ne andai sbattendo la portiera e chiudendo fuori quella risposta che aveva avuto soltanto il potere di farmi sentire presa in giro. Ma ora la casa di quell’uomo appariva inesorabilmente abbandonata e in me tornava a bussare un piccolo senso di colpa per non esser stata capace di cogliere alcun tipo di significato in quel suo strambo racconto. In fondo, mi aveva pur sempre riportato un sogno: quanta razionalità potevo aspettarmi da un aneddoto di natura onirica? Buffo, pensavo, che proprio io sia stata capace di tanta ottusità, di tanta impermeabilità a una sfumatura così affascinante del mio prossimo. Quante altre volte ero stata così?

I giorni passarono, le ante restavano ostinatamente chiuse, nessun vicino di casa sembrava saperne nulla: non soltanto come se non ci fossero aggiornamenti, ma come se quella persona non fosse mai esistita.

Anche mio padre, ebbe la stessa reazione. Non mi stupì in considerazione della sua triste ma progressiva perdita della vista. I suoi occhi stavano diventando sempre più sensibili alla luce, motivo per cui teneva spesso le tende tirate, rinunciando all’osservazione dell’andirivieni del palazzo, un tempo sua affezionata occupazione. Eppure, la posta continuava ad accumularsi nella cassetta in alluminio. Fino a quando, un giorno, vidi il postino rinunciare alla consegna per riporre nuovamente la busta nella sua borsa. Per un po’, rimisi quel pensiero nello sgabuzzino della mia attenzione.

Una notte, anche io feci un sogno. Un sogno che era diventato ricorrente. L’acqua del lago prendeva a incresparsi fino a quando, raggiungendo una densità come di lava vulcanica, diveniva concentrica e capace di aprire al suo centro… un vortice. Un vortice d’acqua che centrifugava con forza crescente e attrattiva. Che cosa si poteva davvero osservare in quel cratere? Mi sporsi con la sensazione di voler spiare in casa d’altri, ma l’acqua era impenetrabile allo sguardo e tendeva a farsi sempre più densa, sempre più dura. D’un tratto, divenne un piano rigido, parallelo alla mia altezza, e in corrispondenza del vortice, si materializzò una cassaforte. Con il piglio agile di un ladro, mi avventai sul meccanismo di chiusura. Grazie a un compasso, mi riuscì di disegnare un cerchio perfetto intorno alla combinazione. Un tondello d’acciaio venne estruso da quell’acqua divenuta muro e io potei vedere all’interno di quella cavità: non vi era nulla, se non pareti di un azzurro sfolgorante, un colore che per me aveva sempre simboleggiato il sollievo di sentirsi liberi.

Mi risvegliai all’improvviso, come se si fosse trattato di un incubo, trattenendo dentro di me la sensazione di aver fatto una scoperta eccezionale. Eppure, che cosa avevo scorto in quell’anfratto immaginario se non una superficie colorata?

Mi alzai per andare in cerca di un sorso d’acqua. Avevo lasciato aperte le mie imposte e quello che vidi, al di là di esse, mi fece trasalire. Una sagoma scura sembrava aggirarsi nell’appartamento del terzo piano del palazzo di fronte, nell’appartamento dell’uomo che per tutti era semplicemente svanito. Ombre nere si agitavano dentro una luce fioca, forse quella d’una torcia. Poteva trattarsi di un ladro? Chiamai la polizia. Gli agenti entrarono e io, poco dopo, li seguii. Ciò che riuscii a sbirciare mi lasciò perplessa. Non sembrava affatto una casa svuotata da un trasloco, quanto piuttosto una situazione congelata nel tempo, ogni oggetto al suo posto, abbandonato alla polvere come dopo… una sparizione. Ne seguì una segnalazione alle forze dell’ordine, e poi, più nulla.

A nessuno sembrava importare di lui, sebbene qualche vicino si fosse preso la briga di raccontarmi d’aver udito qualche rumore sospetto provenire da quella casa. Cominciai ad avere la sensazione che la gente fantasticasse, stimolata soltanto dalle mie investigazioni.

Un giorno, mio padre non rispose più al telefono. Preoccupata, mi precipitai dal mio studio alla sua abitazione. Anche al citofono non ottenni risposta. Decisi di salire per le scale scorciando i tempi del vecchio ascensore. Bussai, ma lui non venne ad aprirmi, eppure, la luce filtrava da sotto la porta e un odore di zuppa di pesce al pomodoro, il piatto preferito di mio padre, aveva saturato l’intero pianerottolo.

Non so perché non avevamo mai pensato di duplicare le chiavi del suo ingresso affinché io potessi conservarne una copia di sicurezza, ma non mi restò altra via che contattare i pompieri.

Mentre attendevo gli aiuti sperati, mi venne spontaneo salire di un piano e raggiungere lo zerbino dell’uomo che aveva abitato al piano superiore. Una ragnatela ormai setosa colava dagli stipiti. Non vi dedicai altro tempo e scesi per accogliere i soccorritori.

Quando, dopo non pochi sforzi, riuscimmo a entrare nell’abitazione, vi trovai una pentola ancora calda e zeppa di brodo rossastro. Il mio papà giaceva al centro del letto matrimoniale, il respiro era stabile, la temperatura normale, ma i suoi occhi faticavano a restare aperti nello stato di semi coscienza in cui si trovava. Decidemmo di chiamare un’ambulanza.

Feci il numero dal telefono fisso, poggiato sul comodino; mi sedetti al fianco di quel corpo sdraiato e immobile. Comunicai l’indirizzo di casa all’altro capo e congedai i pompieri: sarei rimasta io ad attendere e vegliare.

Quando rimanemmo da soli, volli sdraiarmi un attimo accanto a lui, tenendogli affettuosamente la mano. Restai per qualche secondo a fissare il soffitto chiaro e il grande oblò di gesso dipinto d’azzurro da cui pendeva il lampadario. Ci misi almeno un minuto a realizzare che quel lampadario non era più nella sua posizione originaria e che, dal centro, doveva esser stato spostato a lato della stanza.

Lo stucco intagliava un cerchio perfetto nel soffitto e per un attimo mi sovvenne il tondo che, nel mio sogno, avevo disegnato con un compasso sulla parete della cassaforte emersa dalle profondità del lago. Nella mia visione notturna, il disegno aveva creato un’incisione dalla quale si era staccata una porzione di materiale.

Mi alzai. Tesi un braccio verso quelle luci. Tirai leggermente il puntale che decorava centralmente il lampadario. Della polvere mi crollò sui capelli. Infine, una serie di catenelle metalliche lasciarono che la rondella di gesso si sganciasse dal foro nel quale, fino a quel momento, era rimasta incastrata.

Dal grande buco che si creò nel soffitto io intravidi due occhi.

Erano gli occhi di un uomo che tremava come un bambino terrorizzato da un lupo.

Erano gli occhi dell’uomo che mi aveva raccontato un tempo il suo sogno, influenzando i miei per diversi anni a seguire.

Erano gli occhi dell’uomo che abitava al terzo piano di quel condominio e che un giorno, per amore di mio padre, aveva rinunciato al resto del mondo per far credere d’essere sparito e poter vivere con lui, in segreto, gli ultimi suoi anni di felicità.

Erano gli occhi di un pescatore stanco, di cui solo in quel momento mi ricordai, che una sera o forse mille altre sere finse di vendere del pesce a mio padre in cambio di un’ora di tempo per loro due soltanto.

Erano gli occhi di un uomo che avrei dovuto capire, così come il mio inconscio mi aveva suggerito nella dura decifrabilità dei sogni.

Erano gli occhi di un uomo che a un certo punto non guardarono più i miei, ma con infinita disperazione, quelli di colui che aveva abbassato le sue palpebre per sempre.

 

 

 

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