Il macchinista

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Sembrava una persona per bene, ma tutte le persone, quando le vedi senza guardarle, sembrano persone per bene. Aveva due occhi, un naso, una bocca, un cuore che pompava sangue e due polmoni preposti alla fornitura di ossigeno. Un uomo normale, come tanti altri. Ma lui non era un uomo come tanti altri, e questo aveva iniziato a turbarlo profondamente. Pensava di essere nato sbagliato, dentro. Fuori no, fuori era così normale da essere invisibile. Ma dentro, oddio, dentro era pieno di dolore e disordine e demoni. Quando si guardava allo specchio cercava in quegli occhi verdi un’anima, doveva pur esserci un’anima. Ma non vedeva niente e non vedere niente nel riflesso dei propri occhi fa così paura che smetti di guardarti; ed è così che inizi a smettere di esistere. Non era vecchio, ma era come se lo fosse sempre stato. Vecchiaia è rassegnazione e lui non aveva mai opposto resistenza in tutta la sua vita. Con quel suo ticchettio tremante, l’orologio segnava le sei e ventisette del mattino. La puntualità era un’inutile dote di cui non si era mai vantato, ma che lo aveva sempre contraddistinto: di lavoro, prima, faceva il macchinista di treni. L’uomo indossò la camicia buona, angusta sul petto, strinse il nodo della cravatta come un cappio alla gola, poi i pantaloni, la cintura e con il calza scarpe infilò quelle che riteneva essere le calzature della domenica.
E lui, in chiesa, ci andava ogni domenica.
Non per pregare, ma per piangere.
Entrava e si inginocchiava nell’ultima fila, quella più lontana da Dio.
Pregare era inutile, neanche Colui che siede alla destra del padre avrebbe potuto espiarlo dai suoi peccati. Oggi però non era domenica, era un dozzinale giovedì di un inutile febbraio. Ma le scarpe da chiesa le aveva indossate lo stesso perché quello era il suo ultimo giorno sulla terra e voleva essere ritrovato con abiti dignitosi, quasi come volesse nascondere con tessuti di pregio il marcio che c’era sotto la sua pelle e che era penetrato come un cancro silenzioso fino alle ossa.
Uscì dall’appartamento senza chiuderlo a chiave e scese le scale aggrappandosi al corrimano lercio; si fermò al secondo piano. Il suo cuore batteva contro la camicia troppo stretta: questo lo faceva sentire vivo, ma comunque non umano. Anche il nome con cui si presentava alle persone era inventato, un falso: non aveva anima e non aveva neanche identità. Ogni tanto si dimenticava quale fosse il nome originario che sua madre gli aveva affibbiato quando era ancora un neonato stropicciato dal dolore del parto.
Bussò alla porta che dava verso il lato sinistro del palazzo.

Lì ci abitava Eugenia.

Chi era Eugenia? La sua punizione. Il suo castigo. La sua redenzione.
L’aveva conosciuta qualche mese prima, quando si era trasferita nel palazzo. Lunghi capelli castani coprivano parte del corpo, senza nasconderne le curve. Aggraziata ma turbata, teneva un buco dentro al cuore.
E forse era per questo che l’uomo senza nome si era avvicinato a lei.
La tristezza non si vede, ma se ne sente l’odore e solo chi ce l’ha addosso può riconoscerne il tanfo. Fu lei a riconoscerlo.
Una sera Eugenia bussò alla sua porta.
Si udì un rumore provenire dall’appartamento, ma nessuno rispose.
L’uomo la guardava dallo spioncino rotondo, e anche se la sua figura veniva deformata dal vetro scheggiato, la bellezza di Eugenia era riuscita a penetrare nel legno della porta fino a insinuarsi nei pantaloni dell’uomo provocandogli un dimenticato rigonfiamento.
“I vicini m’hanno detto che è solo, che non ha famiglia. Manco io. Quindi le ho preparato qualcosa da mangiare, se le fa piacere.”
L’uomo non aprì, ma Eugenia gli lasciò comunque il piatto davanti all’uscio.
Il giorno dopo, il piatto era ancora lì, ma vuoto.
Da quella sera, ogni sera, Eugenia iniziò a lasciare qualcosa di caldo da mangiare davanti alla porta centrale del terzo piano. No, non era una brava cuoca, nessuno glielo aveva mai insegnato, ma di mattina lavorava in una libreria e di nascosto, quando il proprietario era fuori a fumare o a tradire la moglie, apriva i libri di ricette per imparare a memoria i passaggi per preparare questo e quell’altro.
Una mattina accadde che l’uomo ed Eugenia si incontrarono per strada, vicino al portone di ingresso del civico numero 5 di una via di poca importanza di Roma, e senza neanche conoscersi, si riconobbero.
Si dissero tutto senza proferire parola. Si amarono senza innamorarsi.
Erano più di 20 gli anni che si portavano di differenza e i loro corpi ne erano la testimonianza. Lei, pura porcellana, dalle cosce sode e il seno gonfio; lui, peccatore, ricurvo in schiena con pieghe profonde sull’addome.
Quella stessa sera, quando Eugenia bussò alla sua porta, la trovò aperta ed entrò nell’appartamento. Lui la aspettava e mentre la vedeva avvicinarsi avrebbe voluto allontanarla, cacciarla, rinnegarla, ma la desiderava. E lei desiderava lui. Eugenia appoggiò il piatto sul tavolo e poi appoggiò il suo seno contro le spalle di quell’uomo sconosciuto, dall’accento diverso, ma così familiare. I loro corpi si unirono per ore, e stretti dalla passione riempirono la stanza di alito caldo, di odore di carne e di sudore.
E nuda, Eugenia si spogliò in altra maniera mostrandogli il vuoto che teneva sotto al petto, vicino al cuore che batteva controtempo. Gli disse che suo padre, sua madre e sua sorella erano stati deportati ad Auschwitz, proprio da lì, da Roma. E che no, non li aveva più rivisti -erano passati anni ormai- ma che forse, diceva, stanno pensando a me tanto quanto io sto pensando a loro. Chissà, sospirava, chissà.
Da quel giorno, il macchinista smise di andare in chiesa per pregare.

Fermo davanti alla porta di Eugenia, l’uomo sperò che lei non aprisse e infatti lei non aprì, non era in casa. Era già uscita per raggiungere la libreria all’altro capo della città. Eugenia entrò nel palazzo solo la sera e, come ogni sera, si presentò con un piatto in mano davanti alla solita porta che al solo sospiro si spalancò sul vuoto, catapultandola nell’ennesimo abbandono improvviso. Il suo cuore non andò in mille pezzi perché era già rotto, ma il buco sotto al petto si allargò ancora di più inghiottendola in notti insonni e privandola del sorriso per molto tempo, fino a quando si dimenticò -in parte- di star provando dolore e i suoi occhi videro un altro amore.

Non avendo ricevuto risposta, l’uomo con le scarpe da chiesa proseguì la sua discesa agli inferi e uscì dal palazzo. Aspettò il tram che portava a Tiburtina, salì, convalidò il biglietto e guardò per tutto il tragitto fuori dal finestrino. La vita sembrava andare così veloce che non riuscì a fermare i suoi pensieri. A cosa pensa un uomo prima di morire? Lui pensò al passato. A quanto era ingenuo e orgoglioso nella sua divisa da macchinista; agli abbracci della madre dopo la notizia del lavoro ottenuto che lo avrebbe portato fino in Italia “A Roma, mamma, a Roma”. Pensò allo sguardo pieno di orgoglio del padre e all’invidia del fratello minore che era deceduto in guerra pur di essere considerato alla pari del consanguineo maggiore. Erano tutti morti, chi di vecchiaia, chi di dolore, chi per le bombe. Sopravvivere fu la sua malattia. Tornare a vivere a Roma, in quella città orgogliosa e testarda e innamorata della vita, la sua punizione. Roma gli inflisse la coscienza, gli impartì il dolore e gli donò Eugenia.
In questa città, il macchinista passò dall’essere un eroe a essere un errore. Un orrore.
Scese alla fermata e si diresse verso il lato di via Camesena, quello dove trent’anni prima si trovava lo scalo merci. Il binario che cercava, però, non esisteva più. Coperto come polvere sotto al tappeto. Come la vergogna sotto a certi sorrisi. Così si diresse verso la fine di una banchina qualsiasi, la prima su cui era prevista la partenza di un treno, ma la più vicina al binario da cui, nel lontano 18 ottobre del 1943, era partito un carro bestiame diretto ad Auschwitz, convoglio su cui aveva prestato per la prima volta servizio come aiuto macchinista.
E quando il treno fu abbastanza vicino, l’uomo, che di nome faceva Hans, si buttò, e venne travolto dal vocio di disperazione di quelle oltre mille anime che lui stesso aveva guidato come un cieco Caronte verso l’inferno.
Perdonami Eugenia.

 

 

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