Genesi di un sogno

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Mi tirai su sbuffando. Per fortuna la ruota era solo un po’ sgonfia. Rimontai sulla mia Ford Taunus e continuai a seguire la strada sterrata che conduceva ai tre gelsi, scansando, per quanto fosse possibile, le buche e le pietre. Infilai il muso dell’auto sotto le folte fronde ed uscii a godere un po’ della loro ombra.

Brandelli oblunghi, bianchi, striavano il cielo. Una distesa abbagliante di girasoli riempiva l’orizzonte verso sud, verso una casa diroccata, mentre a nord sfrigolava il grano disteso dallo scirocco.

Ad ovest si scioglieva nell’aria l’ombra giallognola della città, appena dietro una spianata di zolle con al centro un cipresso tutto solo. Sospirai, voltandomi come i girasoli in direzione est: là mi aspettava il mostro, la materializzazione di un suono, il gigantesco blup. Dietro di me sentivo la città distesa sulle zolle di terra abbrustolite dal sole; più tardi ci sarei tornato, sarei stato risucchiato dal suo alone sulfureo, acido, e avrei fatto ancora una volta blup!

Anche se avevo continuato a condurre la stessa vita, da circa un mese non ero più io. Dormivo, come al solito, fino all’ora di pranzo, mangiavo qualcosa insieme a mia zia, oziavo per le vie del centro o in qualche bar a giocare a carte o a chiacchierare con gli amici e poi, dopo cena, facevo il solito giro delle discoteche, dei piano-bar e delle birrerie frequentate dalle americane in vacanza.

Nell’ultimo mese ne avevo abbordate un paio niente male: una californiana appena divorziata, madre di un ragazzo della mia stessa età, e una bambolona del Missouri, alta, bionda, occhi azzurri, pelle chiara e seno rifatto, che esibiva il giovane trofeo, cioè me, nei ristoranti più ‘in’ della città o alle feste dei suoi amici italiani.

Mi muovevo meccanicamente, perché ormai certi comportamenti erano acquisiti e non occorrevano sforzi d’ingegno o di fantasia per accattivarmi le loro simpatie. Ero talmente pronto nel muovermi, nel sorridere o nel trovare le parole adatte per irretirle, che le signore straniere andavano facilmente in sollucchero dopo pochissime battute e un sorriso intrigante, il solito, del quale disponevo a mio piacimento nei momenti più opportuni.

Eppure non ero più lo stesso. La notte dormivo sempre di meno e durante il giorno ero perseguitato da un rumore viscido che segnava le mie giornate con puntuale assiduità: blup !

Magari ero seduto ad un tavolo insieme a degli amici, parlando del più e del meno e – blup – improvvisamente mi sentivo inghiottire da un liquido denso e lattiginoso, la cui superficie piatta assumeva colori sempre diversi, e nella quale il mio corpo affondava lentamente senza dibattersi, come se fosse stato consapevole dell’ineluttabilità del proprio destino. Sembrava che non aspettassi altro che la pellicola superficiale, appena tremolante per la caduta della massa da ingurgitare, ritornasse alla sua immobilità originale e non rimanesse nulla se non l’eco del liquido gorgoglio che si diluiva in un silenzio impossibile.

Poi tornavo al punto di prima, riprendevo la vita da dove l’avevo lasciata, ma con ancora il suono ossessivo negli orecchi.

Per questo da circa un mese andavo lì, sotto i tre gelsi, a cercare di uccidere il mostro, il grande Blup.

 

Mi aggrappai al ramo più basso dell’albero centrale: ad est un’immensa macchia verde di rovi polverosi, more appassite, salici e prugni selvatici, circondavano un laghetto per cacciatori, nascondendolo alla vista di chiunque si fosse limitato a camminarci intorno, tanto era fitta la sterpaglia che lo proteggeva.  Andai alla bauliera ed estrassi la carabina ad aria compressa.

Non potevo più farne a meno; ogni giorno, nel primo pomeriggio, andavo lì convinto di sconfiggere un incubo con il vecchio fucile a pallini di piombo.

 

 

 

 

 

L’incubo si presentava all’improvviso, senza segnali premonitori che avvertissero del suo arrivo. Per esempio in discoteca: i profumi mischiati tra loro mi avvolgevano fin quasi a stordirmi, le luci saettavano tutt’intorno sezionando le mani, i sorrisi e i corpi che si avviluppavano sulla pista in una spirale. Un frullato di colori, aliti e odori, fino ad annullarmi, come se le molecole del mio corpo si fossero sciolte nel mulinello di uno scarico insieme al resto della sala, disgregato nel solito, inesorabile blup !

Camminai lungo una delle stradine che partivano dal gelso più piccolo, in direzione dell’oasi verde, ad est. Ai lati qualche piccola spiga spelacchiata, seminata dal vento, ondeggiava sopra piantine di menta e di salvia dalle foglie polverose. L’aria calda seccava i polmoni.

Camminai fino alle prime mazze di San Giuseppe sui bordi di un fosso parallelo alla piccola foresta intorno al lago; lì c’era un po’ più di ossigeno.

Dall’intricato boschetto provenivano scricchiolii e sibili indecifrabili. Decisi di tentare una strada nuova rispetto ai giorni precedenti e così, senza logica, mi avventurai dietro una fitta muraglia di canne dalle foglie taglienti.

La sera prima ero uscito con Evelyn, la bambola bionda, e sembrava proprio che filasse tutto liscio. Ci eravamo preparati accuratamente per partecipare ad una festa. Io avevo distribuito sul suo corpo i brillantini dorati e l’avevo aiutata ad indossare una tuta semitrasparente che la strizzava come una salsiccia, mentre lei si era divertita a tingermi i capelli di nero alla base e d’oro sulle punte con una tintura vegetale inventata da lei quando, prima di sposare un ricco albergatore francese, lavorava in un istituto di bellezza.

La festa era in una villa della campagna senese, in cima a un cocuzzolo, tra filari d’uva e ulivi secolari.

Durante la serata mi eclissavo tra la gente, tra gli ulivi, tra le bottiglie di Vernaccia o tra i tavoli di liquori, e riapparivo ogni tanto per salvare Evelyn quando si trovava intrappolata in mezzo a un gruppo di conoscenti e soci in affari che chiedevano notizie sulla salute di suo marito. La recuperavo con una scusa qualsiasi guadagnandomi la sua gratitudine.

Ma la tranquillità durò poco. Stavo bevendo in compagnia di un giapponese dal collo taurino che aveva tutta l’aria di essersi invaghito dei miei riflessi dorati quando, dopo qualche minuto, arrivò Evelyn che baciò sulla bocca il giapponese per poi appoggiarsi a me. Si scambiarono qualche battuta in francese, ben sapendo che io non li capivo e dopo un po’ lui uscì dirigendosi verso il portico. Allora Evelyn mi infilò una mano tra le gambe e sfoderò la sua enorme lingua per inghiottirmi in un solo boccone: blup !

La notte si era nuovamente aperta come un baratro per annichilirmi nelle proprie viscere. Ci ritrovammo dietro la villa, appoggiati a un muro e, mentre il giapponese guardava, Evelyn mi faceva sparire dentro di sé.

Mi scioglievo nel suo grembo, come una candela, goccia dopo goccia, come un oceano che non lascia tracce quando si richiude: blup !

E così anche quella notte non avevo chiuso occhio ed ero rimasto per ore e ore a scrutare il cielo. Come per certe canzoncine fin troppo orecchiabili, soprattutto quelle della pubblicità, che tante volte mi avevano perseguitato, obbligandomi a fischiettare per giornate intere lo stesso motivetto stupido, così cercavo di esorcizzare l’odioso rumore, ripetendomelo continuamente o provocandolo al di fuori di me.

Tutte le volte che mi imbattevo in un corso d’acqua, lanciavo un sasso facendogli percorrere una parabola morbida, non molto alta, in modo da ottenere il suono giusto, non un ‘pluff’ che svanisse in un attimo tra schizzi che avrebbero ricoperto il greve mormorio, ma un dolce e persistente blup, un ribollire, un piccolo tonfo morbido, come se l’oggetto che si perdeva fosse caduto in una vasca di petrolio nero striato da riflessi oleosi, facendo sì che l’inesorabilità della caduta, della perdita dell’oggetto, fosse chiaramente visibile e lenta.

 

 

 

 

 

 

 

 

Era l’identico borboglio che andavo a cercare nell’oasi dietro il prunaio.

Saltai un fosso ricoperto di borraccina e arrivai alla foce di uno scolmatore con la cateratta alzata, sui cui bordi, protetti da foglie e ramoscelli caduti, si erano acquattati due ranocchi verdi con gli occhi semiaperti e le zampe immerse nell’acqua.

Colpii il primo: si rovesciò col ventre bianco verso l’alto e affondò piano piano, mentre l’altro si immerse, scomparendo nell’ombra di una pianta di ortica. Sparai a vuoto, in mezzo a un nugolo di bollicine.

Con circospezione mi avvicinai alla saracinesca e mi ci appollaiai sopra. Altri ranocchietti minuscoli fecero capolino a pelo d’acqua, per poi affiorare del tutto, gracidando in coro.

Ma non volevo loro, io cercavo il grande Blup, il rospo gigante che si gonfiava nel suo involucro grigiastro, spalancando gli occhi a palla sotto la pelle lucida, umidiccia.

Negli ultimi tempi, infatti, il suono che mi accompagnava durante le oniriche immersioni di cui ero vittima, aveva parallelamente sviluppato nella mia mente la forma visiva corrispondente: un enorme rospo soffiava riempiendo per intero il campo visivo e le macchie della sua pelle viscida si ampliavano fin quasi a sgranarsi; poi, da quella specie di palla sgusciava velocissima la lingua affusolata e lunga come una serpe bianca che, a mo’ di ventosa, mi carpiva per inghiottirmi orribilmente, blup, proprio come quando varcavo la soglia di una discoteca, lasciando che la mia pelle si impregnasse in pochi attimi di fumo e di aromi violenti e che la massa calda di carne e di sudore si dilatasse per ingabbiarmi nelle sue fauci, oppure in birreria, in uno stadio o in una donna; proprio come quando Evelyn apriva languidamente la bocca sopra il mio corpo nudo, proprio come quando i miei parenti, vestiti di scuro e con gli occhi bagnati per la morte di uno di loro, si stringevano intorno a me, seppellendomi tra gli abbracci e le lacrime. Proprio come quando Sara, mia cugina, fu fatta entrare in una stanza bianca, senza finestre e con le pareti imbottite: la porta si chiuse dietro di noi che l’avevamo accompagnata facendo blup.

L’origine di quella raffigurazione, di quel passaggio dal suono all’immagine, mi era ignota anche se dopo molti giorni di riflessione ero giunto ad un’ipotesi più o meno plausibile. Una volta, quando ero piccolo, avevo sentito mia nonna parlare con Ada, la sua amica fattucchiera, mentre le confidava di avere ucciso un rospo, entrato chissà come in casa sua e saltato proprio sullo sgabello basso dove il  defunto marito poggiava i piedi per riposarsi e vi era morto; proprio dove nessuno, per paura e per rispetto, si era più seduto.

Da quel giorno, disse Ada, avrebbe ucciso tutti i rospi che le fossero capitati a tiro, perché aveva capito che in realtà quelle erano le false sembianze sotto cui si presentava il defunto per avvicinare e fare del male al figlio di lei avuto successivamente da un altro uomo.

Da allora ho sempre provato una certa ripugnanza per quegli innocui animali e forse proprio per questo li avevo associati al mio Blup.

Sondai accuratamente ogni anfratto cercando di non farmi trarre in inganno dalla capacità mimetica di cui sono dotati gli anfibi, scandagliai con lo sguardo le zone ombreggiate dove di solito gli animali cercano refrigerio e, infine, lo individuai: a mezz’acqua, proteso verso le foglie di un ributto di fico selvatico, galleggiava, maestoso, il grande Blup.

Appena colpito, si allungò in avanti con un guizzo fulmineo, ma poi si sgonfiò lentamente cedendo un po’ alla volta agli altri pallini di piombo che conficcai nella sua testa enorme.

Dietro una scia di bolle d’aria, il grosso cadavere andò a posarsi sul fondo melmoso: blup.

Rimasi ancora un po’ in bilico sul ciglio del fosso ad osservare la forma dai contorni tremolanti sotto non più di tre palmi d’acqua verde. Respirai come non ricordavo quasi più si potesse respirare, con calma, a poco a poco, fino a riempire il torace in tutta la sua capacità di estensione.

 

 

 

 

 

Lentamente feci a ritroso il viottolo fino ai gelsi, riposi la carabina nel baule e mi fermai sotto gli alberi a vegliare sull’inaspettato silenzio del quale poteva godere ora la mia mente.

Con aria di sfida guardai la città che ora si stagliava, in lontananza, nel fuoco del tramonto.

Più tardi, senza fretta, me ne tornai a casa.

Feci una doccia alternando bruscamente l’acqua calda a quella fredda, mi asciugai con cura usando un morbido accappatoio blu e, nudo sul letto, lessi il giornale. Infine mi addormentai.

 

Dopo non so quanto tempo mi svegliai di soprassalto, sudato e con lo sguardo fisso nel vuoto.

Avevo sognato: ero sulla terrazza di casa mia in una notte senza luna, la città sembrava coperta da un’infinita lavagna nera, nessun segnale giungeva dall’interno della casa. Vicino a me c’era la scatola con gli aghi e i fili e i ditali che per tanto tempo aveva usato mia cugina Sara quando passava l’estate da noi; l’aprii per cercare uno spillo e ne trovai uno infilato in una spagnoletta di filo, lo presi e richiusi la scatola, quindi mi alzai in piedi su una sedia, mi bucai l’indice della mano destra e, come se avessi voluto dipingere il cielo, puntai verso il buio il dito ferito, ma la goccia di sangue rosso cobalto, un grumo minuscolo, fece blup e sparì nel grande lago d’ebano.

Rimasi sospeso nel buio, smarrito.

 

 

 

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