Fiori di carta

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Entrò in cucina con quella domanda che le scoppiava nel cuore. Sua madre era intenta a pelare le patate per la cena. “Vieni, dammi una mano così facciamo prima, questa sera le preparo con i pomodori e le uova come piacciono tanto a tuo padre e ai tuoi fratelli”. Aisha si sedette in silenzio di fronte a sua madre e restò immobile. Sua madre le porse un coltello. Lei lo afferrò meccanicamente. Sospirò, prese coraggio e disse “Mamma la conosci la storia di Nadia Anjuman?”.

Un duello di sguardi rese densa l’aria della cucina. Le mani della madre si fermarono per risparmiare la forza che serviva per respirare “Perché mi fai questa domanda, chi te ne ha parlato?”

Aisha non distolse gli occhi da quelli di sua madre “L’ho sentito al laboratorio di cucito, ne parlavano alcune ragazze. Lo sai anche tu che per fortuna oltre ad imparare come usare ago e filo facciamo anche altro: si legge, si scrive e si discute di cose che si possono trattare solo tra donne”.

“Certo che lo so. Ti ho mandato in quel laboratorio anche per questo, almeno puoi continuare ad imparare, a migliorare la lettura e la scrittura, l’importante è che non vi scoprano, state attente vero?”

“Non devi preoccuparti. Alcune donne portano con sé i bambini, li fanno giocare fuori dall’edificio e ci fanno da vedette. Appena si avvicina la polizia religiosa ci avvisano così nascondiamo quaderni e libri e ci mettiamo a ricamare. Ma allora vuoi dirmi cosa sai di Nadia Anjuman?”

“Figlia mia, è una storia così triste e ingiusta…”

“Proprio per questo è bene che se ne parli mamma, il silenzio non risolve niente, protegge i colpevoli e condanna all’oblio gli innocenti”.

La madre sospirò più volte. Sapeva che la figlia aveva ragione, ma la paura può togliere il fiato. Aisha non andava più a scuola, aveva concluso l’istruzione elementare e in Afghanistan quella secondaria per le donne non era più permessa. Quel laboratorio di cucito in cui si riunivano solo donne due volte a settimana era anche un laboratorio di resistenza, di opportunità per continuare a leggere e a scrivere senza che gli uomini lo sapessero. Ragazze e donne più adulte che facevano loro da maestre erano solidali e custodivano quel luogo franco tutto al femminile.

Aisha voleva sapere e sollecitò ancora la madre “è vero che Nadia è stata ammazzata dal marito perché scriveva poesie?”

Una di fronte all’altra, sedute nella loro cucina, tra patate e pomodori da tagliare, erano entrambe consapevoli che il suono delle prossime parole sarebbe stato quello tra Khalida e Aisha. Due donne afghane. Non c’era più né madre né figlia.

“Nadia è una ferita aperta nel cuore di tutte noi «sono una figlia afgana, con il diritto di urlare» questo è uno dei versi più famosi di una sua poesia tratta dalla raccolta “Fiore rosso scuro”. Le declamava in pubblico le sue poesie, le riteneva la sua arma più potente. Suo marito Farid e tutta la famiglia di lui, credevano che, poiché era una donna, la scrittura di Nadia fosse una vergogna per la loro reputazione, ma lei continuò a scrivere poesie. è morta a soli venticinque anni sotto i colpi del marito che in una notte la picchiò al punto di ucciderla”.

Khalida abbassò il capo per un attimo, poi riprese “Il marito quell’ultima notte la portò in ospedale dicendo che avevano litigato e alla fine lei aveva ingoiato del veleno. I medici stabilirono che era morta per la violenza dei colpi ricevuti alla testa. Non aveva assunto alcun veleno. Il marito fu condannato e incarcerato per averla uccisa, ma gli anziani tribali di Herat riuscirono a convincere il padre malato di Nadia a perdonare Farid per la sua morte al fine di abbreviare la pena detentiva. Con la promessa che Farid sarebbe rimasto in prigione per cinque anni, il padre di Nadia ritirò la denuncia e così la morte di sua figlia fu ufficialmente considerata un suicidio dai tribunali afghani e il marito fece solo un mese di carcere. Il padre di Nadia morì poco dopo per lo shock…” Questa volta Khalida interruppe il racconto chinando il capo in un sospiro disperato.

Aisha con gli occhi lucidi prese tra le sue le mani della madre, le carezzò il volto e poi con voce dolce ma decisa disse.

“A Kabul le donne fanno fiori di carta con le poesie di Nadia e di altre poetesse afghane. La distribuzione dei fogli con le poesie avviene tramite le ginecologhe. Nei loro ambulatori gli uomini non possono entrare…”

Come scossa da un brivido Khalida si ridestò “Ma che stai dicendo, chi ti ha detto queste cose?”

“Ascolta mamma, ascolta tutta la storia. Tramite le ostetriche e le ginecologhe le poesie di Nadia sono arrivate a migliaia di donne. Oltre alle poesie vengono distribuite le istruzioni per il giorno dei fiori di carta”

“Che dici, di che si tratta?” la curiosità della madre è adesso intrisa di un timore e di una speranza sconosciuti.

“Tutte le donne si riuniscono nel giorno stabilito nella grande piazza della città. Ognuna sotto il burka porta con sé un fiore di carta che nasconde una poesia di Nadia. Giunte nella piazza si dispongono in decine di cerchi concentrici, come quando getti un sasso in uno specchio d’acqua. Si sfilano lentamente il burka, infilano il fiore di carta tra i capelli. Si mostrano con vestiti leggeri a colori sgargianti e cominciano a fare ginnastica, a saltare e muoversi agitando braccia e gambe…”

La madre sgomenta giunge le mani dinanzi alla bocca “Ma che stai dicendo, spogliarsi in pubblico, indossare abiti colorati, fare ginnastica sono cose proibite e punite duramente…”

Aisha in preda all’euforia si è alzata in piedi, mima i movimenti che racconta, quasi balla e aggiunge: “sono centinaia di donne che continuano a fare altre cose proibite: iniziano a ridere a gran voce, nelle tasche portano un piccolo barattolo con del succo rosso di melagrana o fragola, vi intingono il dito e si colorano le labbra. In un altro barattolo hanno della polvere di cacao mista a burro con cui si bistrano le palpebre. E continuano a ridere. Gli uomini urlano e cercano di fermarle ma il numero aumenta perché altre donne si uniscono, anche quelle che erano in piazza per altri motivi si aggiungono al gruppo”. Mentre racconta apre le braccia e ruota su sé stessa come in una danza leggera e libera.

Khalida è sempre più sconcertata “Figlia mia non è possibile, che stai dicendo, è tutto vietato, gli uomini vorranno ammazzarle…”

“Qualche uomo cerca di strattonarle fuori dal cerchio ma le altre donne si avventano sul malcapitato e gli scagliano addosso i barattoli di vetro come proiettili. Tutte poi si tolgono le calze e mostrano le caviglie…”

“Le caviglie scoperte? Ma cosa stai dicendo, chi ti ha raccontato queste cose…”

“E alla fine tutte insieme aprono il fiore di carta che avevano tra i capelli e leggono in un unico grido alto e fiero, le parole di Nadia.

«Sono stata silenziosa troppo a lungo.

Ma non ho dimenticato la melodia,

ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore

ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia

libera da umiliazioni ed ebbra di canti

per volare via da questa solitudine.

Io non sono un fragile pioppo

che trema nell’aria.

Io sono una figlia afgana

con il diritto di urlare»

 

Aisha ripete due volte a gran voce i versi di Nadia e quindi si affloscia sulla sedia. La madre la guarda attonita, il silenzio è denso di attesa, ma Aisha non dice più niente. “E poi?” la sollecita nervosa Khalida alzando il tono della voce “E poi che succede?”. Aisha ha cominciato a tagliare un pomodoro. La madre la incalza: “Allora, perché non parli più? Poi che è successo? Hanno sparato a tutte vero, dimmi la verità!”

Adesso la voce di Aisha è flebile e lontana, lo sguardo è basso sulle sue mani “Mamma non hanno sparato a nessuna. Vuoi sapere la verità? Non è successo niente. Era tutto un sogno. Forse l’ho fatto ad occhi aperti dopo aver sentito la storia di Nadia o forse l’ho fatto davvero non lo so, ma non c’è niente. Né giorno dei fiori di carta, né salti, né rossetti, né libertà, né risate, né poesie.”

L’urlo di sua madre è terrificante. Urla oltre il dolore, oltre la paura, non c’è suono di rimprovero o delusione, non c’è liberazione né rabbia. è il diritto di urlare di una donna afghana. Dalle viscere di un tempo di schiavitù troppo lungo, per rinunciare alla speranza.

Sono quelle viscere che adesso parlano. La donna si è alzata in piedi nervosamente, il respiro è rumoroso, la voce ferma e definitiva. “Alla tua età non sarei stata nemmeno capace di inventarlo un sogno così. Anche i sogni erano condizionati e sottomessi. Aspirare ad un matrimonio non troppo infelice, curare la casa, avere dei figli, meglio se maschi, era tutto quello che mi concedevo anche nei sogni.” In un gesto rapido e improvviso Khalida fa saltare per aria le bucce dei tuberi appena tagliate. Aisha è sbalordita: “Mamma che ti prende, che stai facendo?”. La donna non la sente nemmeno e con tono perentorio aggiunge “Vai a prendere i quaderni che usi al laboratorio di cucito. Strappa dieci, cinquanta o cento pagine. Scrivi del sogno, delle poesie di Nadia e racconta del giorno dei fiori di carta. Dirò a tuo padre di avere dei disturbi intimi e lo convincerò a fissare una visita dalla ginecologa la prossima settimana. Tu verrai con me e porteremo le decine di fogli che avrai scritto nel frattempo. Diremo alla ginecologa di fare altrettanto. Lo stesso potremo fare in moschea: gli uomini hanno deciso di dividere i giorni e gli orari in cui possiamo entrare rispetto a loro, dovremo stare attente, ma la moschea è una buona opportunità per informare le altre. Ricordati di scrivere anche queste parole di Nadia nei biglietti «Se con i miei versi tu notassi una luce: questa sarebbe il frutto delle mie profonde immaginazioni». Dovremo essere tante, tantissime. Davanti agli occhi del mondo non potranno ammazzarci tutte”.

Immerge il dito nella ciotola del concentrato di pomodoro e con un gesto nuovo e antico insieme, percepisce il sapore aspro del composto mentre le sue labbra si tingono di rosso scuro.

 

 

 

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