I sogni lucidi sono un’ottima via di fuga se sei depresso, ma non troppo.
Chiudi gli occhi e se riesci, quando riesci – perché non è affatto scontato-, ti addormenti: chissà quale scenario mi riserva oggi il mio intricato subconscio. Mi cullerà in una verde distesa di fiorellini di campo profumati o mi scaraventerà ancora e ancora davanti alla commissione di maturità? Poco importa, le possibilità sono infinite. Il bello dei sogni lucidi è proprio la malleabilità, plasmare l’ambiente e le azioni a piacimento. Tutto il contrario rispetto alla vita del depresso.
Ma non troppo. Vittorio aveva scoperto la sua abilità di onironauta all’inizio di quel che chiamava “il periodo buio”. Era una perifrasi come un’altra, per di più abbastanza inflazionata, per etichettare ed esorcizzare un malessere che gli cresceva dentro, mettendo radici e germogliando rami infestanti. Definirlo solo un periodo lo aiutava a sminuire le proprie sensazioni, insomma non era altro che una fase passeggera- o no? Vittorio lo credeva fermamente, perciò non lo preoccupava minimamente la sua nuova tendenza a dormire ad ogni ora del giorno.
Si preparava il pranzo e poi sbirciava stancamente le stoviglie incrostate impilate nel lavandino, titubava per qualche secondo, quindi sospirando appoggiava le mani ben aperte sulla tovaglia per alzarsi. Dava un ultimo sguardo ai piatti abbandonati e decideva, odiandosi per questo, di voltare le spalle al gravoso compito di lavarli. Il sonno gli calava prepotentemente le palpebre, entrava nelle sinapsi del suo cervello spargendo un velo di foschia sui pensieri. La sua operatività: annichilita. In un misto di confusione e sensi di colpa annaspava fino al letto stropicciato dall’ennesima dormita.
Dire che si adagiava sul materasso sarebbe un eufemismo, piuttosto sarebbe corretto immaginarlo lanciarvisi sopra a peso morto, come se la gravità avesse di colpo aumentato la forza attrattiva verso il centro della terra. Però, nonostante lo sforzo immane che gli costava fare quei quattro passi alla ricerca del proprio giaciglio, sapeva che lì sarebbe stato cullato in una sempre nuova avventura che gli avrebbe permesso di dimenticare il vortice di trascuratezza in cui stava precipitando. Non importavano più le briciole sparse sul tavolo o la macchia di sugo che spiccava sulla felpa verde menta. Piano piano la sollecitazione del dovere- pulire, pulirsi, rispondere a messaggi e mail, inoltrare CV o iscriversi in palestra- si diradava calmando i pensieri intrusivi che rimbalzavano senza sosta all’altezza del cranio.
Una volta, ad esempio, Morfeo lo aveva trasportato a Tokyo, costruendo una città immaginaria: un prisma sfaccettato dalle mille rappresentazioni del Giappone che Vittorio ingurgitava giornalmente. Sognava il suo sogno di un viaggio nipponico ed era felice. Con curiosità gatta si aggirava tra le insegne luminose di viuzze affollate da kanji e negozianti. Gli odori, i colori erano vividi e tangibili. Aveva voglia di sperimentare i gachapon, le macchinette che al prezzo di una modica monetina e di una girata di manovella dispensavano i gadget più disparati e buffi. Ed ecco che all’angolo, tra un locale di ramen e un karaoke, ne spuntava uno. Frugandosi in tasca aveva ovviamente trovato una moneta da cento yen pronta per essere spesa secondo i suoi desideri. L’aveva inserita nella apposita fessura e, ruotata la manopola, aveva atteso trepidante la pallina di plastica contenente la sorpresa. Si era chinato per raccogliere l’involucro, lo aveva svitato in un lampo scoprendo di aver vinto un fantastico draghetto portachiavi. Mentre rigirava ammirato la piccola miniatura ne osservava i grandi occhi smeraldo e le squame viola cangiante: come sarebbe stato bello se fosse stato il suo animaletto da compagnia, il suo famiglio. Perché no? Infondo il sogno era a sua completa disposizione. Un piccolo sforzo di creatività e il portachiavi si era trasformato in un’enorme e maestosa creatura mitologica che si stagliava sulla strada dispiegando le ali sopra i tetti tegolati dei negozi. Chiaramente tutto si era svolto con fluidità, zero distruzioni e allarmismo: la viuzza si era allargata spontaneamente per ospitare il drago e dei passanti non c’era neanche più l’ombra. Vittorio si era trovato istantaneamente a sorvolare la città, fendendo il cielo serale a cavallo del bestione. Poi, d’un tratto, erano approdati nella spiaggia riminese dove villeggiava da bambino con la famiglia. Lo stabilimento era deserto e per quanto Vittorio cercasse di evocare i suoi amici di infanzia nessuno appariva all’orizzonte. Strano. Si era svegliato. Ormai il sole era tramontato, il pomeriggio era tardo e una leggera brezza, simile a quella che aveva percepito in sogno, mentre aspettava invano con i piedi affondati nella sabbia gelida, gli raffreddava le membra.
Quella sera avrebbe raccontato a un suo collega del sogno ad ambientazione giapponese, fermandosi però al momento del paesaggio marittimo. Quella parte lo lasciava perplesso, non era riuscito a manipolare il sogno, si era rotta quella consuetudine di onnipotenza onirica che tanto gli piaceva. Durante il turno provava a non entrare in contatto con la malinconia che ogni volta lo riportava agli amici che aveva perso da anni. Staccando la notte si era fiondato a casa ed era collassato sul divano senza neanche togliersi il giubbotto. La stanchezza emotiva lo aveva messo k.o. ma aveva fiducia nella dormita che gli si prospettava davanti. Un rifugio che dava accesso ad un altro tipo di vita concedendo tutto alla sua volontà, la stessa che durante la veglia veniva continuamente frustrata dagli avvenimenti o anche solo da quella che Vittorio additava come pigrizia, ma che forse celava qualcosa di più profondo: l’incapacità di barcamenarsi fra i miliardi di riflessioni che gli rimbombavano dentro rendendolo inabile ad agire concretamente.
La depressione è subdola, si sa. Nel nostro caso si era attivata su un doppio binario: prima trascinando Vittorio in una spirale accidiosa di nullafacenza, portandolo a dormire per mettere a tacere le brutte sensazioni che gli formicolavano in corpo da sveglio, poi intrufolandosi a tradimento anche in quel mondo subcoscienziale, andando a minare il suo porto sicuro. Era successo gradualmente, insignificanti interruzioni al flusso del sogno che lo portavano ad aprire gli occhi per il fastidio di non poter modificare lo scenario. Inizialmente non ci dava troppo peso, si rigirava nel letto rannicchiandosi per mantenere il tepore e si riaddormentava tornando capace di sognare lucidamente. Solo che l’esperienza si era ormai sporcata, strascichi di brutte sensazioni si ripresentavano al risveglio come residui depositati sul fondo dello stomaco.
Con il passare del tempo una rocambolesca avventura tra le corsie del supermercato diventava una corsa contro un tempo scandito da un gigantesco orologio dai rintocchi frenetici; il salotto in cui conversava amabilmente con i genitori iniziava a stringersi fino ad ingabbiarlo; i vestiti che sfoggiava fiero in un festival sulle nuvole cominciavano a strapparsi irrimediabilmente costringendolo a fuggire dal divertimento. Erano tutti specchi del suo malessere, più provava a distruggerli e più le schegge si conficcavano nella carne viva dei suoi sogni. Stava perdendo il controllo. Anche qui. Da sveglio era nervoso, nel sonno impotente.
Sognava male e dunque viveva male. Questa era l’equazione a cui era giunto quando aveva iniziato a farsi beveroni infiniti di caffè iper-zuccherato. Una soluzione semplice: ridurre al minimo le ore di sonno per non rovinarsi la giornata. Questa completa inversione di tendenza però lo aveva lasciato in balia della vita pratica, dove, come sappiamo, non dava il meglio di sé. Per di più l’ansia che lo attanagliava gli provocava una tachicardia che di certo la caffeina non aiutava. La verità era che viveva male e, per questo, sognava male.
Insonne, frenetico e insoddisfatto si aggirava senza scopo né meta tra le stanze del suo bilocale creando un solco che dalla cucina andava al bagno, dal bagno alla camera da letto, dalla camera di nuovo alla cucina e così via. Non aveva i nervi neanche per rilassarsi con un po’ di musica o qualche serie demenziale, scrollava il telefono senza leggere le parole sullo schermo, procedeva per inerzia.
Poi uscì. In una notte novembrina pungente di freddo Vittorio aveva agguantato le chiavi e si era sbattuto la porta blindata alle spalle. L’aria gli penetrava nelle ossa e sentiva le occhiaie pulsare al contatto con la frescura, intanto respirava a pieni polmoni. Non aveva girato a lungo, ma al rientro, con sua grande sorpresa, si era diretto senza esitazioni al lavabo in una sorta di automatismo ed aveva lavato i piatti di una settimana senza sbuffare. Quindi aveva caricato la lavatrice e tirato fuori un pigiama pulito. Steso sul letto rifatto, con i capelli ancora gocciolanti dalla doccia che emanavano profumo di albicocca, aveva risposto a qualche mail, fissato un paio di colloqui e augurato ai suoi genitori la buonanotte con una vecchia foto ritrovata nell’archivio del computer: lui da bambino sdraiato sul lettino arancione del Bagno Elia, premurosamente coperto dall’asciugamano dei Pokémon di cui tanto andava fiero, completamente assorto in un sogno che gli aveva socchiuso le labbra incastonate nelle guance paffute. Che pace risvegliarsi nel sole di Rimini, stropicciarsi gli occhi mentre la mamma tira fuori dal borsellino gli spiccioli per il gelato alla panna!
Non se ne era reso conto ma aveva effettivamente combinato qualcosa. Quei piccoli movimenti gli avevano dato una strana calma, quando non molto tempo prima il solo pensiero lo avrebbe atterrito. Non che fosse guarito dalla depressione, per quella ci sarebbero voluti anni e terapia, tuttavia il fatto che quella stessa notte si fosse addormentato sfinito- ma soddisfatto- sognando nel pieno delle sue potenzialità un branco di volpi che scorrazzavano nella neve, tramutandosi a sua volta in una di loro nello slancio preso per raggiungerle, gli aveva fatto capire che qualcosa era scattato. Si era azionato un meccanismo da tempo assopito: prendersi cura di sé, alla fine ne valeva la pena.
Non è vero che il sonno è un’anticamera della morte. Vittorio vi aveva trovato dapprima un compagno fedele, un rifugio, poi un ambiente ostile, un nemico, che però lo aveva spinto a riacquistare vitalità. Il sogno non è dunque un elemento estraneo da rigettare o bollare come perdita di tempo, e non è neanche la soluzione a tutti i problemi o una pausa dalla realtà. Dormire è un lungo dialogo con sé stessi in cui vengono messe in gioco tutte le impressioni ricevute durante la veglia, anche e soprattutto quelle che si vogliono ignorare.
Per quanto riguarda Vittorio: a lui sarebbero toccate altre lotte nella vita e sfide nel sonno. Ma quella notte si era addormentato al dolce ritmo delle gocce che colavano da piatti finalmente puliti e tanto bastava.
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