A occhi chiusi

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Aveva da poco compiuto sette anni ma già sapeva che la felicità è una piccola cosa, nascosta nella vita di ogni giorno.

Rashid viveva ad Aleppo con sua madre e sua sorella Amal, più grande di due anni e, prima che la scuola da lui frequentata fosse distrutta dai bombardamenti, amava studiare matematica e disegnare con le matite colorate.

La casa, situata non lontano dal centro nei pressi di un grande giardino, era modesta ma ben strutturata. Suo padre aveva aiutato il nonno a costruirla usando le tecniche di muratura apprese nei tre anni di lavoro in Italia.

E quando il denaro guadagnato era finito, non riuscendo a trovare un lavoro abbastanza redditizio per mantenere la numerosa famiglia, era ripartito lasciando contro voglia ma coraggiosamente i suoi cari nella città siriana.

Rashid aveva anche due fratelli di 15 e 17 anni che vivevano con i nonni materni in un piccolo villaggio poco distante da Aleppo, ma le difficoltà e la pericolosità delle strade li teneva lontani ormai da diversi mesi.

Lui, la mamma e la sorella si arrangiavano come potevano, facendo piccoli lavoretti di falegnameria o di sartoria e cercavano di risparmiare il più possibile per poter raggiungere il padre in Italia.

Era il loro sogno, quello che li faceva addormentare fiduciosi anche se di notte incombeva il suono della sirena. Era il sogno che sembrava pian pianino materializzarsi ogni qualvolta si aggiungeva nel vaso di terracotta adibito a salvadanaio una moneta guadagnata con fatica.

Era il loro desiderio intenso di vedere la pace, di un cielo senza aerei pronti a sganciare bombe, di un giardino senza rottami e di strade senza segni di distruzione.

In quella casa non era vietato immaginare e sognare tutto ciò anche perché le poche telefonate del padre riuscivano a rendere vivida la speranza e forte la voglia di lottare ancora per la sopravvivenza.

La mamma, per proteggere i figli, usciva da sola all’imbrunire e frugando tra le macerie sparse ovunque, raccoglieva in un sacco pezzi di legno per accendere il fuoco.

Intanto Amal preparava la cena che tutti condividevano in un’unica grande ciotola di legno e rassicurava Rashid dicendo: “Quando andremo in Italia potremo finalmente vedere il mare e avere un piatto di cibo ognuno per sé, come ci racconta papà, ma fino ad allora dobbiamo accontentarci di poco e sperare che le bombe cadano sempre lontano dalla nostra casa”.

Ogni domenica sera, la mamma svuotava il vaso di terracotta e contava le monete accumulate sotto lo sguardo incuriosito e speranzoso dei figli. Rashid, che già capiva il valore dei soldi, sgranava gli occhi e cominciava ad immaginare di poter intraprendere il viaggio.

Era da poco finito l’inverno e il papà avrebbe presto inviato il denaro mancante per poter fuggire dalla Siria e andare in Europa, perciò in casa erano tutti in fibrillazione pensando ai giorni futuri.

Quella sera però la mamma, con aria seria e voce calma, parlò a Rashid e Amal dicendo: “Figli miei adorati, non sappiamo bene cosa ci riserva il destino. Noi cercheremo di restare sempre uniti ma, se qualcosa dovesse separarci, nascondete il denaro in un posto sicuro e usatelo per riunirvi a vostro padre o ai vostri fratelli” e diede ad entrambi un pezzo di stoffa bianca su cui erano scritti gli indirizzi del marito e dei figli maggiori.

La notte Rashid dormì abbracciato a sua madre e cercò di non pensare a quelle parole che lo avevano rattristato perché fino ad allora non aveva mai pensato di potersi separare da lei.

Il mattino seguente splendeva il sole, la primavera era nell’aria e il ragazzo dopo aver fatto colazione uscì in giardino inseguendo sua sorella che stendeva i panni appena lavati.

A pochi passi da loro altri bambini giocavano rincorrendosi scherzosamente o tirando calci ad un pallone sgonfio.

Nell’aria si respirava l’odore acre della guerra. E nel cielo, oltre le nuvole, passavano gli aerei.

Era tutto normale per chi come loro era cresciuto tra le vie di Aleppo, e respirava ogni giorno la guerra civile nella Siria assediata dall’ISIS.

Nessuno fece caso al rumore dei jet che faceva tremare l’aria, anche perché la sirena che sempre annunciava i bombardamenti, non suonava.

Fu un sibilo a congelare ogni movimento, a spingere i bambini a guardare in alto.

Poi un forte boato e il cielo si riempì di scintille.

In un baleno i loro gesti si trasformarono in fuga, sotto una pioggia di bombe. Le case crollavano, la terra tremava e Rashid iniziò a scappare. Non sapeva dove andare. Veniva giù tutto. Non c’era tempo neppure per piangere. Chiamava Amal e la mamma e correva, girandosi appena per assicurarsi che fossero dietro di lui.

Da quella baraonda di fuoco e schegge che volavano ovunque era impossibile uscire indenni.

Rashid, esile e svelto, si infilò in un cunicolo di pietra al bordo della strada e chiamò a gran voce sua sorella che lo raggiunse tenendosi il braccio destro sanguinante per una scheggia di metallo che le si era conficcata.

La mamma non si vedeva e Rashid non sapeva se uscire a cercarla o restare con Amal per soccorrerla come meglio poteva.

Quell’inferno sembrò durare un’eternità eppure trascorsero solo pochi minuti.

Quando finalmente il rombo degli aerei scomparve i due fratelli uscirono dal cunicolo impolverati e sconvolti, con il viso sporco di sangue e gli occhi colmi di terrore.

Tutto intorno a loro appariva completamente diverso come se una mano scesa dal cielo avesse stritolato e fatto a brandelli ciò che aveva incontrato sul cammino, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e macerie avvolta da una pesante nube di polvere.

Rashid aveva una gamba dolorante e un taglio sulla testa, ma non si curò affatto del dolore che sentiva e andò verso casa per cercare la mamma. Amal, dietro di lui, lo seguiva piangendo e trascinandosi lentamente.

Qualcosa era rimasto dell’ abitazione: un angolo tramezzato della cucina dove la mamma teneva nascosto il salvadanaio e, pochi metri accanto, una camera con letto e armadio squarciati da una trave di cemento. Il ragazzo chiamava la mamma cercando ovunque mentre infilava nel suo zaino quei pochi oggetti che si erano salvati dall’esplosione e che potevano essere loro utili.

Passò quasi mezzora prima che Amal, avendo sentito un flebile lamento, indicò a suo fratello dove potesse essere la mamma e Rashid con tutte le sue forze cercò di sollevare un grande pannello di cartongesso ricoperto di pesanti mattoni sotto cui si trovava la donna gravemente ferita.

 

“Ti insegno un segreto” – gli aveva detto sottovoce il padre una sera prima di andare via – “se desideri davvero una cosa vedrai che si avvererà. Devi solo immaginarla. Disegnarla nella tua mente, con tutti i colori che ti piacciono e poi mandarla nello spazio tenendo gli occhi chiusi. Quando il Signore la riceverà come un messaggio dalla terra, lui la farà avverare”.

Dal momento in cui erano arrivati i soccorsi e due soldati alti e robusti lo avevano preso in braccio e accolto, insieme a madre e sorella, in un convoglio umanitario diretto in Turchia, Rashid non aveva mai smesso di ricordare quel prezioso segreto che il padre gli aveva svelato e che fino ad allora aveva tenuto serrato dentro di sè come in uno scrigno.

Mentre giaceva avvolto in una soffice coperta nel posto letto a lui assegnato, poco distante dall’ospedale da campo in cui si trovavano la mamma e Amal, si chiedeva quanto ci avrebbe messo il suo messaggio per arrivare a destinazione e pregava il Signore di non dover essere costretto ad utilizzare quel pezzetto di stoffa con gli indirizzi e il denaro del salvadanaio nascosto nello zaino.

Il disegno fatto nella sua mente e inviato ogni giorno a occhi chiusi ripetutamente, sempre più colorato e sempre con maggiore intensità era soltanto uno: la salvezza dei suoi cari che ora lottavano per sopravvivere.

Lui era stato più fortunato, era uscito illeso dal bombardamento e sapeva anche perché.

Era stato predestinato a mandare il messaggio al Signore: per questo motivo il padre gli aveva svelato il segreto, per assegnargli il compito di pregare per la salute della mamma e di Amal.

Da quando era giunto al campo profughi non aveva parlato con nessuno.

Era rimasto per molte ore sotto choc e aveva mangiato il cibo necessario a raccogliere energie.

Poi aveva capito di non dover abbandonare la speranza e si era comportato diligentemente cercando di aiutare in qualche modo i soldati e il personale sanitario per quelle che potevano essere le capacità di un bambino della sua età.

Nell’ospedale da campo molti feriti stavano migliorando e già davano evidenti segni di ripresa.

Sua madre e Amal purtroppo ancora no.

Il medico diceva che le condizioni erano critiche perché le due pazienti avevano perso molto sangue, ma con qualche trasfusione potevano riprendersi.

Rashid, con espressione triste e preoccupata, aveva chiesto cosa fosse una trasfusione.

Allora il medico gli aveva sorriso e, asciugando le timide lacrime che erano spuntate sul volto del bambino, con voce premurosa e paterna, lo aveva rassicurato spiegandogli in modo semplice le cure mediche prestate ai suoi cari.

Di sera, ancora una volta il piccolo ragazzo di Aleppo era uscito fuori con la coperta indosso e alzando gli occhi al cielo punteggiato di stelle, aveva cercato un segno del suo messaggio nello spazio, pregando che il Signore lo avesse ricevuto.

Quella notte Rashid sognò di rivedere suo padre che lo accompagnava a far visita a tutta la famiglia, ma la mamma e Amal non erano in casa e i fratelli che vivevano con i nonni avevano preso il loro posto.

Si svegliò in preda al panico, come se quel sogno fosse stato un presagio di morte, e corse piangendo verso l’ospedale.

Appena raggiunta la zona “rossa” dove erano sistemati i pazienti più gravi, vide alcune persone affaccendate nei pressi dei due letti. Allora, nonostante un brivido gelido assalì il suo cuore, si intrufolò con destrezza tra il personale sanitario e le sue lacrime di paura si trasformarono in un attimo in lacrime di gioia perché la mamma e Amal si erano svegliate.

 

Da quel giorno Rashid, giunto pochi mesi dopo in Italia con la sua famiglia, non ha più smesso di guardare incantato il cielo stellato.

Ogni volta che alza gli occhi gli sembra di scorgere nell’azzurro oscuro del cielo una stella brillare più delle altre, come un segno del Signore che risponde ai suoi messaggi.

Ogni volta, con sguardo trasognato pensa alla sua terra lontana così bisognosa di pace, e accoglie dentro il suo cuore il mistero della vita che soltanto la bellezza dell’universo può dare.

Ogni volta che guarderà il cielo Rashid saprà sempre a chi rivolgersi per non sentirsi solo e saprà che le stelle sono gli occhi di chi ci protegge.

 

 

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