Oggi è venuto a farmi visita un vecchio collega dell’università. Si è avvicinato al letto, prestando attenzione ad ogni singolo gesto per non fare troppo rumore.
– Ma io non sono ancora morto! – Gli ho riso in faccia, distogliendolo dalla precisione ossessiva dei suoi movimenti. Si è avvicinato e mi ha stretto la mano. Forse cercava semplicemente di comunicare empaticamente, facendomi capire quanto fosse in sintonia con la mia risata sdrammatizzante. Io, d’altra parte, ho pensato a quanto sia arrogante, talvolta, lo spacciarsi per “vivi” dinanzi al letto di un moribondo. Molti arrivano al mio capezzale con la superiorità dell’esser sani, mostrando però, paradossalmente, la velleità di poter capire come ci si senta ad essere quasi morti. – La mia risata, Frank, è la mia risata! Lei è ancora viva, santo dio! – La presunzione di Frank è ben manifesta in ogni singolo gesto performante: nella meticolosità con cui sposta la sedia, attento a non urtare gli spigoli del letto e nel silenzio con cui accoglie la mia ironia, ciò che di vivo ancora mi rimane negli occhi e nel linguaggio. Quanto sei spudorato Frank nel crederti più vivo di me e, soprattutto, nel supporti contemporaneamente capace di entrare nel vuoto di questa stanza e di capirne il silenzio, accompagnandolo con la tua assenza di linguaggio. Sei taciturno Frank. Credi di poterti accordare con la frequenza di questo spazio e di questo tempo anticipatorio della mia morte. Te ne stai zitto, intrappolando la mia mano nella tua, guidato, erroneamente, dalla percezione della freddezza della mia pelle verso la conclusione narcisista che io possa trarre beneficio dal calore che circola nelle tue vene. Sei venuto a farmi visita Frank perché io potessi suggerirti qualcosa dallo stato di pienezza in cui mi ritrovo ad essere, tra la vita e la morte. Sei venuto da me ma in realtà sono io che ti faccio visita, come un ospite inatteso che irrompe nella quiete del tuo appartamento e ti investe di pensieri nuovi che tu, dalla sicurezza del tuo crederti vivo, non puoi conoscere. L’unica verità che posso regalarti è quella che ho esperito nell’attimo esatto in cui sei entrato in questa stanza. Ho guardato quell’espressione che hai sul viso, quel tuo crederti intelligente Frank e mi sono sentito così vuoto. Neanche le pareti bianche di questa stanza d’ospedale mi avevano condotto in questo baratro, lì dove mi hai condotto tu. Mi sono visto in te Frank. Ho riletto sul tuo volto tutte le espressioni che ho indossato in questi anni, ogni volta in cui ho creduto di essere “intelligente”, e mi sono sentito così banale. Come sono stato superficiale nel pensare che l’intelligenza potesse servire a qualcosa, che qualcuno potesse essere più intelligente di qualcun altro, che l’intelletto potesse essere una proprietà dell’esser vivi. Come sono stato banale Frank in tutti questi anni. Amaramente te lo dico e con un senso di scoramento profondo. Vedi, Frank, io sono oltre la speranza ormai e non mi occorre più l’intelletto perché la vita ha smesso di essere un’esercitazione da problem solving. Non è più uno strumento l’intelligenza, perché non mi è dato più di legare un principio con una fine, un oggetto con un significato, un percorso con una destinazione. Non devo più essere traghettato nel territorio delle conoscenze o delle rivelazioni.
Frank mi parla ora. Ricapitolazione del passato. Ricordi di ricordi di eventi che forse non abbiamo mai vissuto. Di quella giornata trascorsa in biblioteca io ricordo vagamente il titolo di qualche libro sul tavolo, uno zaino lasciato cadere frettolosamente sulla sedia e, forse, uno stato interiore. Un moto di gioia, un entusiasmo che, onestamente, non posso più capire e ricostruire neppure io che, pure, l’ho vissuto. Tu stai rimescolando le carte per regalarmi l’illusione di aver vissuto una vita così degna da giustificare questa morte. La tua è solo una ricostruzione fittizia Frank. Come un hacker, stai forzando la mia password interiore, azzardando un accesso al mio archivio di memorie passate e, con parole, non tue, mascherandoti da un “quasi me”, ti appresti a divenire il ventriloquo del mio essere mutilato.
– Il professore di filosofia ti amava Denny, rimase estasiato dalla tua tesi di dottorato, ti ricordi? – Frank non era presente il giorno in cui consegnai la tesi di dottorato né il giorno in cui la discussi. Ha inventato dei falsi ricordi per creare un sodalizio spirituale o semplicemente emozionale con me, ora che sono prossimo alla dipartita. Come se valesse a qualcosa, perfezionare i ricordi di chi si è stati, aggiornando tutti i dati contenuti in archivio e imbellendoli con particolari con cui esser grati della vita o alla vita. Strana la psicopatologia di parenti e amici di un paziente terminale. Imbroglioni! Come se la mia lucidità mentale fosse andata completamente persa, come se sotto le palpebre abbassate, gli occhi fossero diventati ciechi, incapaci di discernere il vero dal falso. Come se avessi bisogno dell’aiuto delle loro chiacchiere per ricostruire il mio io, obnubilato dal torpore di questo stato di premorte! Altri credono che la mia anima si stia già allontanando dal corpo, ricongiungendosi con l’Atman, l’anima del mondo. No, signori, non sono assurto al regno dei santi! Sento ancora la puzza rancida delle vostre ascelle, voi che credete di poterla nascondere ad un quasi morto sotto le camicie “del giorno prima”. C’è poi chi dice – era un brav’uomo – , benché non lo fossi affatto. Ciò che odio della morte non è già il finire, come uomo, come presenza storica su questa terra, quanto l’essere cancellati nei propri tratti essenziali. Il livellamento della morte nel renderci non già uguali dinanzi ad un possibile dio, quanto stereotipi all’interno della categoria dei cadaveri.
Frank mi sussurra – Non meritavi tutto questo dolore. – E se invece lo meritassi Frank? Non piangere, per favore, dinanzi ad uno “stereotipo” Frank! Meritavo tutto il dolore che ho vissuto perché sono esistito santo dio. Non ero un brav’uomo. Ho esercitato il libero arbitrio, ho compiuto delle scelte sbagliate, mi sono ubriacato, ho picchiato dei miei simili, non sono stato un bravo marito. Cavolo, Frank, non darmi anche tu del santo prima che sia morto definitivamente e, per favore, evita di farlo anche dopo! Che non è “prematura” questa benedetta morte! Grido dentro di me convulsamente anche se fuori poco o nulla traspare.
Nella psicopatologia dei pazienti del quasi deceduto rientra anche quella che definisco “la maschera anti-age post mortem”. Qualcuno inizia a fotografarmi. L’altro ieri, mia nipote si è stesa sul letto accanto a me e si è “sparata un selfie”, come si dice in gergo. Ha applicato un filtro con cui restituire la mia immagine post mortem ai posteri.
– Ha la pelle così distesa, non sembra morto. – La psiche dei parenti del quasi defunto funziona per bias cognitivi. Ti spaccia per morto quando non lo sei ancora e ti ritiene simile ad un vivo quando sei morto. In ogni caso, vi è una fuga dalla realtà.
– Sono brutto Giulia. – rivendico la mia personalissima bruttezza. Ho le labbra piatte dalle quali non è mai trapelata alcuna emozione. I miei occhi protrusi verso l’esterno fecero rabbrividire anche mia madre quando mi partorì. Qualcuno ha persino affermato che le dimensioni oculari rispecchiassero la profondità di visione propria del filosofo. La maschera anti-age consiste in una rivisitazione dei tratti in chiave simbolica. Quando non completamente cancellati dall’estetica post mortem, i tratti vengono ricodificati alla luce di una qualche potente interpretazione filosofica. La bruttezza del soggetto viene processata, attraversando quattro fasi.
Fase 1: codifica della bruttezza; (quali sono i punti critici, il naso, le labbra, etc.)
Fase 2: maschera esfoliante (si rimuovono le criticità più evidenti, si smussano gli angoli, si leviga la superficie, si restringono i pori, e così via).
Fase 3: applicazione del siero anti-age (si modificano i tratti armonizzandoli e oscurando le imperfezioni con un tocco di light cream).
Fase 4: reindirizzamento (si attribuiscono significati profondi ai tratti che non possono essere modificati, cancellandoli, di fatto, sotto la maschera interpretativa).
Ecco fatto. Stereotipo terminato. Ne consegue che secondo Frank i miei occhi fuori dalle orbite siano rappresentativi di grande capacità di visione che ora, in punto di morte, si va acuendo sempre più. Alla progressiva perdita della vista corrisponderebbe una intensificazione della visione spirituale di cui questi occhi “delocalizzati” non sono che un simbolo manifesto.
Bene, Frank, mi fa ridere la riscrittura della mia bruttezza in chiave visionaria. Tutto sommato, mi concedo l’ilarità dell’ultima ora, sdraiato in “poltrona” a guardare lo spettacolo che sono diventato.
– Cappuccetto Rosso, devi credere in me, voglio cambiare! – Il lupo a Cappuccetto Rosso in un momento di elevazione spirituale.
Lo stato di quasi morte non mi ha reso un illuminato. Non sono diventato più “buono”, più “altruista”, più “vicino al dolore del mondo”. Sono rimasto fedele al mio egoismo, alla mia tirchieria.
– Era un giusto. – ho sentito l’altro giorno questa frase, pronunciata da “uno spettatore”. Mi inquieta la trasformazione della mia personalità, la purificazione cui è sottoposto ogni aspetto del mio carattere. Non sono stato un “giusto”, ho semplicemente accumulato passioni, amori, cose, desideri per me stesso. La gente ha paura che li si tratti male in punto di morte. L’arte dello stereotipo consiste in realtà in una sorta di rito collettivo per cui non si fa al cadavere ciò che non si vuole venga fatto a se stessi. Come se potesse ancora importarmi il giudizio morale della gente.
– Tirchio! – Avrei voluto che qualcuno mi dicesse. E invece “giusto”. Distorsione del linguaggio.
Frank non è mai stato così generoso nella vita precedente, in cui eravamo “ugualmente vivi”. Poco incline al riconoscimento dei meriti altrui, anche con me, benché amici da molti anni, non si è mai aperto a encomi né pubblici né privati. Ora mi riconosce filosofo d’avanguardia, perché è facile mostrarsi generosi verso chi non sopravvivrà di molto al complimento.
Ti senti inattaccabile Frank. L’ho capito subito quando ti ho visto entrare nel tuo abito scuro. Mostri un segno di lutto per un uomo che non è ancora morto. Ancora una volta accetti e usi, con sfrontataggine amico mio, uno stereotipo cromatico. Il nero dei tuoi vestiti schierato contro il candore delle mie lenzuola che puzzano di morte. La partita di scacchi è iniziata e tu lasci che sia io a muovere la prima pedina.
– Il malato first! – Non accetto di essere il primo a muovere. Rivendico la perdita di tutti i diritti concessi ai malati terminali. L’ascensore esclusivo, la quiete della stanza, il pasto preferito, l’ultimo wish! Più vicino ad un detenuto, prossimo alla pena capitale, che ad un uomo morente che non ha più nemmeno la forza di godere di questo piatto di lasagne con sugo alla bolognese.
L’infermiera non mi guarda neppure più in viso quando mi aggancia alla flebo. Per lei non sono assurto al rango di santo; sono stato declassato dall’essere un corpo intero ad una sineddoche: il braccio per il tutto o, meglio, la vena per il tutto. Non sono altro che una vena in cui profondere l’ultima illusione di vita. Cibo essenziale per il nutrimento di un corpo in putrefazione. Anche lei, a modo suo, ha cancellato i miei tratti essenziali. Ho smesso di essere un volto. Non più vivo, non ancora morto, non santo, neppure brutto. Assente, non pervenuto.
L’altro giorno è arrivata mia moglie. Le mogli sono le uniche persone che riescono a non vedere la santità del proprio marito neppure se questi è la reincarnazione di Padre Pio. Il suo amore è indiscutibile per quanto mi tratti come un capo di bucato da infilare in lavatrice. Bucato misto, non separato. Non mi usa cortesia alcuna; mi si avvicina con un passo da valchiria; ricaccia le pantofole sotto al letto, gira la manovella posta ai piedi del letto e mi tira su. Per lei sono un qualcosa che giace sul letto. Sono vivo tanto quanto può esserlo l’acciaio di questo letto o lo schienale contro cui poggia il cuscino. Dal regno dell’organico sono approdato a quello dell’inorganico. Tra un santo e un oggetto inanimato non corre molta differenza. Sfugge il fatto che sono vivo, non so in quale parte del corpo o della mente. Ancora un po’ vivo. Per un attimo credo di essere stato preso in braccio e sbattuto come le coperte per rimuovere la polvere. Non ho più aspettative Carole. Non preoccuparti. Non mi aspetto cure da te. Mi basta, per il momento, rientrare nella lista delle cose da fare, appesa sulla porta del frigorifero. Io, la lista della spesa e la porta del frigorifero siamo quasi la stessa cosa. Eppure, ciò che mi disturba è che il mio essere inorganico valga e serva molto meno. Il frigorifero, tenuto in vita da una presa di corrente, continuerà a funzionare. Però, vedi Frank io, a differenza del frigorifero, ho scelto di staccare la spina.
Non sono ancora morto Frank e quindi, te lo chiedo per favore, lasciami la mano.