Troppo Paradiso

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Milano, 20 settembre 1980, sabato sera

«Appena la bionda finisce di cantare, cinque minuti e vai in scena.»

Antonio Vaccaro, in arte Tony, aspirò a fondo l’ultimo tiro della sua sigaretta ed espulse dalle narici due sottili lingue di fumo, come a voler allontanare la tensione che immancabilmente veniva a fargli visita prima di ogni esibizione. Difficile abituarsi, ma meglio così, perché in fondo gli era utile per restare concentrato. In sottofondo ascoltava la musica provenire dal palco, “too much heaven” dei Bee Gees, interpretata da una giovane cantante con aspirazioni sanremesi, dalla chioma vaporosa e dal lungo vestito ricoperto di paillettes, accompagnata al piano da un tizio allampanato che dimostrava più anni di quelli che aveva veramente. Li aveva incrociati prima di rinchiudersi in camerino; una bella mano lui, nulla da eccepire, una bella voce lei, peccato per l’inglese, ma meno male che a Sanremo si cantava in italiano.

 

Tony Vaccaro sapeva che si stava giocando una bella fetta del proprio avvenire. Milano era affollata di comici come lui, cabarettisti, imitatori, battutisti. Era un periodo in cui la gente aveva voglia di risate e il palcoscenico stava mutando forma come un adolescente alle scuole medie: dai locali notturni alle nascenti televisioni locali, che ultimamente erano a caccia di nuovi talenti da offrire al pubblico nel rassicurante spazio delle quattro mura domestiche. Sperava, e in fondo ci credeva, che in sala ci fosse uno di quei tizi della tivù che si era mischiato alla clientela del “Gilda” per assistere al suo spettacolo e valutarne il potenziale. Chissà, se tutto fosse filato per il verso giusto, gli avrebbero offerto un contratto televisivo, e con esso l’opportunità di cambiare vita.

 

Dai Tony, stasera li stendi tutti.

Se lo ripeteva in continuazione, ma più che affidarsi alla carica motivazionale, sapeva che il successo stava nel riuscire ad essere sé stesso, il Tony di sempre, quello dalla risata contagiosa. Era partito cinque anni prima dalla Puglia dopo aver terminato l’Istituto Tecnico con due anni di ritardo. Suo padre voleva che lavorasse in officina con lui, ma Tony non ci sentiva da quell’orecchio, smaniava di trasferirsi, andare al Nord, Milano, la vita notturna, le belle signore, gli spettacoli di cabaret. Bastava che il pensiero tornasse indietro agli anni delle superiori, quando i suoi compagni lo imploravano di fare l’imitazione dei professori, per stampargli sulle labbra un sorrisetto trasognato. Si era reso conto di quanto fosse bravo quando persino gli insegnanti lo prendevano in disparte – «Vaccaro, mi hanno detto che sei bravo a fare l’imitazione del prof. di matematica, me la fai sentire?» – salvo poi fargliela pagare una volta scoperto di essere loro stessi oggetto delle sue prese in giro.

 

Dammi un paio d’anni papà, il tempo di entrare nel giro, di farmi conoscere. Se va male torno giù a lavorare con te.” Due anni erano già passati, da un bel po’ oramai, ma anche ripensando agli occhi rassegnati di suo padre, Tony non ne voleva sapere di tornare a casa. I primi tempi a Milano era stato assunto in un teatrino del centro come tecnico delle luci, almeno il diploma era servito a qualcosa, tanto però era bastato per inserirsi nell’ambiente e proporsi come cabarettista. Non aveva studiato recitazione ma ci sapeva fare, e come se era bravo. Tony aveva il dono di far ridere la gente, un talento naturale, la capacità di trovare il lato comico in ogni situazione. Quando salì su un palco per la prima volta, il titolare del locale gli disse che avrebbe fatto ridere la gente anche soltanto leggendo l’elenco del telefono, perché gli bastava accompagnare ogni battuta ad una risata, e il più delle volte la gente rideva per contagio. Era davvero uno spasso poi con quelle espressioni in dialetto milanese scandite con l’accento pugliese.

 

Milano (che scoperta era stata Milano!) era diventata il teatro dei suoi sogni, e che si fottessero quei suoi compaesani che rimpiangevano il sole e il mare, che si lamentavano dello smog e si intristivano nelle giornate di nebbia e cielo bianco. Milano era il centro del mondo, altroché, anche d’inverno nel freddo tagliente del suo monolocale in via D’Alviano affittato a centoventimila Lire al mese, spese condominiali incluse. E quante donne aveva conosciuto, roba da perdere il conto. Con il suo mestiere non dava l’aria di essere una persona sentimentalmente ed economicamente affidabile, ma il regalo di una serata condita da quattro risate senza pensieri era più che sufficiente per indurre quelle signorine a offrirgli degli sprazzi di fugace piacere fisico da far scivolare nei ricordi il mattino successivo.

 

Solo una di queste donne gli era rimasta incollata ai pensieri. Il loro primo e unico incontro risaliva a due settimane prima, e il tutto era avvenuto sul divanetto su cui Tony era sdraiato in quel momento. Capelli castani a coprire il collo, occhi verdi e una perfezione nei lineamenti del viso che rasentava gli effetti speciali del cinema; alla fine del suo spettacolo era entrata nel camerino dopo aver bussato con discrezione “sei bravissimo, davvero, mi hai fatto ridere come non mai, volevo farti i miei complimenti.” Alla faccia dei complimenti, dopo aver chiuso la porta a chiave, si era avvicinata a Tony e senza dire niente gli aveva sfilato i pantaloni, liberandosi poi del proprio inutile vestito, e come una amazzone si era messa a cavalcioni su di lui dominandolo, ma con ritmo e leggerezza, fino a che Tony non era venuto mentre le leccava famelico i capezzoli turgidi. Ecco cos’era il paradiso – too much heaven – un luogo dove ridere e fare l’amore con un essere meraviglioso come lei. Non l’aveva più rivista però, e il fatto che gli avessero riferito che fosse la donna di un latitante malavitoso non lo lasciava del tutto tranquillo. Chissà se stasera l’avrebbe rivista di nuovo lì, seduta tra il pubblico. Il solo pensiero lo elettrizzava.

 

Ma adesso la bionda sul palco aveva terminato la sua esibizione e gli applausi stavano scemando. Era giunto il suo turno. “Dai Tony, ti aspettano.

 

 

Cinisello Balsamo, 16 settembre 1980, martedì pomeriggio

L’uomo se ne stava con la schiena adagiata sull’amata poltrona di pelle capitonné avvolto dal fumo denso del suo sigaro. Davanti a lui, dritto come ogni soldato deferente che si rispetti, lo osservava il Muto. Lo chiamavano così, non perché fosse sprovvisto del dono della parola, semplicemente non gli piaceva sprecare il fiato se non strettamente necessario. L’uomo riordinò le idee nella testa e decise di mettere fine al silenzio scenografico che aveva impregnato la stanza.

«Grazie Muto, adoro le persone puntuali. C’è bisogno della tua mano, mi hanno chiesto espressamente di te. Guarda questa.» L’uomo gli allungò una Polaroid mentre era distratto a spegnere il sigaro. «Ti devi occupare di lui, si chiama Tony Vaccaro, è un comico, si esibisce in diversi locali a Milano, anche in quelli di nostra competenza. Vanno forte questi comici, sai? Pare che la gente si sia rotta le palle della politica, delle bombe, delle manifestazioni, vuole ridere, non vuole più pensare alle cose serie. Non sai che schifo che mi fanno tutti. Sai cosa dicevano i latini?»

Domanda retorica, il Muto rimase impassibile.

«”Risus abundat in ore stultorum”, il riso abbonda sulla bocca degli stolti, e sai cosa ha combinato questo pezzo di stolto?» Il suo uditore era un vero maestro nel comprendere la natura retorica di certe domande. «Si è scopato la donna di Franchino.»

Il Muto si limitò a scuotere impercettibilmente la testa in segno di massima disapprovazione. «Il problema è che qualcuno li ha visti e glielo ha riferito. Franchino si è fatto abbindolare e ha creduto alla sua donna che gli ha giurato che è stato questo Vaccaro ad approfittare di lei. Un bicchiere di troppo, una striscia di roba buona, quattro risate e le cose finiscono così. E adesso Franchino nostro si vuole vendicare del comico. Io gli ho detto di non fare cazzate, di starsene nel suo buco ancora per un po’, e allora mi ha garantito che sta buono solo se te ne occupi tu stesso di persona. Io non sono d’accordo, ma preferisco non farlo innervosire.»

L’uomo non aveva mai fatto uccidere nessuno per motivi passionali, lo aveva imposto per un debito di gioco, per una partita di coca sottratta, per una quota di refurtiva che mancava, ma per una storia di corna proprio no.

«Sabato sera Vaccaro è al “Gilda” di via Larga, proprio dove la settimana scorsa si è scopato la donna di Franchino. Tu vai lì, ti siedi ad un tavolo, ti bevi un gin fizz anche se sei in servizio, magari ti fai due risate, così poi mi saprai dire se questo tizio è così bravo a far ridere la gente che le donne cadono tutte ai suoi piedi, e poco prima che finisca l’esibizione ti fai trovare nel suo camerino con il ferro silenziato e quando rientra gli fai la festa. Franchino vuole che tutto avvenga esattamente lì dove lo hanno reso cornuto.»

«Sarà fatto.» Il contributo alla conversazione del Muto si era risolto in due parole, sarà e fatto.

«Mi piaci perché sei essenziale caro Muto, ti aspetto qui domenica mattina.»

Il Muto annuì una sola volta, si girò senza fare rumore e uscì dalla stanza a testa bassa.

 

 

Milano, 20 settembre 1980, sabato sera

Il tecnico delle luci, nonché tecnico audio, direttore di scena, presentatore e addetto alle pulizie, avvicinò la bocca al microfono per annunciare l’ultimo artista della serata.

«A grande richiesta, è tornato qui per voi al “Gilda” il grande Tony Vaaaccaaaro.»

Applausi. Tony accennò una corsetta e una volta giunto al centro del palco fece un saltello, chiuse gli occhi e atterrò aprendo le braccia, come a voler assorbire il più possibile l’energia positiva di quegli applausi.

 

Le luci puntavano dritto su di lui, tanto che faceva fatica a delineare i contorni del pubblico rimasto nella penombra, però ne sentiva il calore, l’aspettativa, la gioia di vivere.

Il Muto lo osservava con curiosità seduto davanti ad un tavolino posto in fondo al locale. Una gamba, accavallata all’altra, ciondolava a ritmo regolare, mentre con la mano sinistra si accarezzava la folta basetta posta sul lato destro del viso. Erano gesti studiati, un rituale utile a focalizzarsi sull’obiettivo e a immaginare le mosse successive.

 

Tony Vaccaro iniziò a recitare un monologo che si era preparato in settimana sulle difficoltà degli immigrati meridionali ad ambientarsi a Milano. Al pubblico bastò un istante per farsi prendere dalle risate. Quando raccontò di quanto fosse complicato guidare in tangenziale “dove le auto ti passano a destra e sinistra che neanche a Long Beach” per lui che era abituato alle strade provinciali delle sue zone con i buchi nell’asfalto, o reperire la vera burrata pugliese “che pure se è fatta in Puglia, ma quando arriva a Milano cambia sapore”, anche il Muto non riuscì a frenare un sorrisino. Non riusciva a trattenere l’impulso di sollevare gli angoli della bocca, era una cosa più forte di lui. Ci sapeva fare quel maledetto, sembrava quasi che stesse godendo a prendere in giro la sua gente.

Bravoooo!” Le battute di Tony si alternavano alle risate del pubblico come se seguissero il ritmo cadenzato di un metronomo. Il Muto si trovò inaspettatamente a suo agio a respirare quell’atmosfera spensierata, il buonumore, la voglia di non pensare più a nulla, e tutto ciò lo incuriosiva, ma allo stesso tempo lo spaventava, come accadeva ogni qual volta si trovasse ad affrontare il fardello della novità. Ma il meglio venne quando Tony si affidò al suo cavallo di battaglia, le imitazioni, e riprodusse in sequenza le voci di personaggi come Enzo Tortora, Mike Bongiorno, Dino Zoff, ma l’apice fu quando estrasse dalla tasca dei jeans una pipa e si mise a scimmiottare Sandro Pertini. Il Muto non riusciva più a contenere le risate, roba da vilipendio al Presidente della Repubblica quello che stava dicendo quel tizio, ma poco importava, non aveva mai assistito dal vivo a nulla di simile.

 

La pancia gli faceva male, sentiva i muscoli addominali contrarsi, al pari di quelli della faccia che gli impedivano persino di tenere gli occhi aperti, che nel frattempo non cessavano di lacrimare. Era un angolo di paradiso scoperchiato, erano le risate di tutta una vita in una volta sola.

L’elegante signora dagli orecchini pendenti, seduta al tavolino a fianco del Muto, fece notare a suo marito quanto fosse spassoso quel signore piegato su sé stesso a ridere, e pensare che fino all’esibizione di Vaccaro non aveva lasciato trasparire alcuna emozione, anzi, non si era neanche mosso dalla sedia, nemmeno aveva sollevato le mani una sola volta per applaudire. «Signore, tutto bene?» Il Muto si alzò di colpo in preda alla tosse che cessò solo nel momento in cui emise un sottile rantolo acuto. Fu allora che perse l’equilibrio, rimbalzò sul tavolino e rovinò malamente a terra privo di sensi. Le grida di spavento della signora a fianco costrinsero Tony Vaccaro a interrompere l’esibizione. Luci accese nel locale, trambusto tra il pubblico, che tutto questo fosse parte dello spettacolo? «Chiamate un medico, presto, quest’uomo sta male!»

 

 

Cinisello Balsamo, 21 settembre 1980, domenica mattina

L’uomo appoggiò la cornetta al ricevitore e iniziò a rimuginare così intensamente che quasi sentiva il rumore dei suoi pensieri. Chi doveva comparire in quel momento davanti a lui non aveva potuto presentarsi. I medici al pronto soccorso avevano parlato di una insufficienza cardiaca da risata, un evento raro, ma comunque possibile, talmente incontrollato da mandarti a puttane il cuore senza rimedio. E inoltre si era messa in mezzo anche la polizia che voleva vederci chiaro su quell’uomo morto al “Gilda” con una pistola nella giacca. Un’altra grana da sistemare.

 

Che delusione il Muto, caduto come il peggiore degli stolti sotto il peso delle cazzate di quel comico. Avrebbe riferito a Franchino che era meglio rassegnarsi e dimenticare i propositi di vendetta passionale che erano costati la vita ad uno dei suoi uomini più in gamba. O almeno così lo riteneva, almeno fino alla fine ingloriosa della sera prima, quella di un uomo che si era abbandonato alla futilità delle cose.

 

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Tratto da Internet:

 

Tony Vaccaro, all’anagrafe Antonio Vaccaro (San Severo, 10 giugno 1954), è un attore comico, cabarettista, imitatore e doppiatore italiano.

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Agli inizi della propria carriera, durante un’esibizione in un locale notturno milanese, alcuni testimoni tra il pubblico hanno affermato che Tony Vaccaro abbia provocato ad uno spettatore un attacco di risa talmente incontrollato da averne causato accidentalmente la morte[senza fonte]. L’artista ha però in più occasioni smentito tale ricostruzione dei fatti, derubricandola al rango di leggenda metropolitana.