Pia ride alla pioggia

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Guido era un grappolo d’uva nel volto, livido di vene sottili, violaceo, lucido d’ascessi, e il corpo era un grosso sacco riempito della terra che da giovane aveva coltivato, mescolata al sangue e al fiele negli scoppi di rabbia, quelli in cui nulla rimaneva com’era: né gli oggetti, rotti a bastonate, né le bestie – squartati i maiali anzitempo, torto il collo a troppe oche – e infine, ultimi nel suo mondo, neppure la moglie e i figli sopravvivevano, ciascuno ridotto a frantume.

Prendeva Cornelia nella stalla, al bisogno. La metteva con la faccia nella paglia, lei stringeva gli occhi e per le rughe sembrava una vecchia. E vecchia forse lo era, scura di pelle, nera di vestiti e sempre gravida come la cagna; e il largo bacino, con cui all’occorrenza partoriva accucciata e in un istante. I due figli maggiori erano venuti al mondo così, entrambi nel mais. Primo e Secondo, senza tante storie; usciti al sole con due spinte, raccolti e annusati, sarebbero cresciuti grossi e tozzi come il padre, gonfio il ventre di furore e bestemmie: muti sotto i colpi della cinghia di lui e sempre a strisce sulla pelle, e ad ogni colpo le scintille dell’odio da una parte e dall’altra – chi dava e chi riceveva – erano le stesse.

Guido era il padrone e spargeva grida e spintoni, poi terrore nella notte quando si alzava come un colosso ubriaco e scuoteva la casa. Dentro di sé, della sua vita, non aveva veri ricordi ma tracce perse nel vino, vuote scene davanti agli occhi, e lui ad afferrarle mulinava le braccia e le mani agguantavano. A volte aveva urla gorgoglianti e come sotto sforzo, il respiro pesante anche stando seduto, un sudore continuo di ogni stagione, serrava i pugni e vaneggiava vicende smozzicate, strizzava gli occhi umidi e un rossore cupo gli colava lungo il collo. E quando avvampava, bruciando in un inferno soltanto suo, non aveva parole ma gesti. Strappava l’erba, raspava con le dita la terra, stringeva la stoffa del camicione a pugno chiuso imprecando contro tutti gli dei a lui ignoti.

Cornelia aveva il suo odore addosso, da sempre. Lui lo spargeva attorno come mosto fermentato, aglio e feci di gatto, e la notte era più forte perché nel sonno svaporavano i ristagni del vino. La donna lo sentiva rotolare dal letto al pavimento, dove rimaneva scalciando a scoppi improvvisi. Anni prima gli era andata vicino per rimetterlo su: ma lui, aggredito negli incubi, l’aveva scossa come un lenzuolo, sbriciolata la mandibola che le era poi rimasta sghemba: sembrava ridesse di uno strano ghigno, ma era solo una stortura. Guido aveva le mani grosse, le calavano sulla testa con più forza quando lei, rannicchiandosi, era un grumo di ossa e vestiti. Se l’uomo non trovava l’impatto, quello netto, che si riverberava nel suo stesso braccio, veniva preso da un’ansia smodata. E allora tirava colpi di temporale, a cozzi convulsi e imprecisi, di sbieco, nel vuoto, sul mobile dietro a cui Cornelia si accucciava. Lui ansimava per lo sforzo, lei gemeva prima e dopo ogni colpo, curva come il dorso di un cinghiale, e i rimbombi erano secchi come le ossa.

Cornelia aveva due mammelle svuotate, di vecchia gatta per troppe bocche, e con queste badava ai figli. Ne erano usciti altri due, ancora un maschio e una bambina, la piccola Pia. Alla sua nascita, la madre rimase attonita appena le dissero che era una femmina, e non la toccò. La immaginava adulta, una donna, e non vedeva speranza. Prese a nutrirla con un’aridità da carestia anche quando i campi riempivano la dispensa, e una strana astinenza cadde sul loro rapporto: Cornelia non accorreva al pianto, non le parlava. Neppure, crescendo, le aveva insegnato a camminare tenendola per mano, né a ridere dei giochi, e infine smise di guardarla. La piccola sbatteva ovunque, piena di ferite. Cadde nel pozzo e nel focolare, ma non morì, come morivano invece i gattini uccisi dalle loro madri quando era tempo di accoppiarsi ancora e i cuccioli della cagna buttati nel lago in un sacco. Morivano i conigli quando Guido scendeva alle gabbie col fuoco nei polmoni, troppi per essere mangiati, e i polli stretti tra i pugni. La vita, in quella casa, era fortuita.

Pia venne su senza capire molto, lenta nei gesti e fiacca nel volto, usata dai fratelli per scaricare i calci ricevuti dal padre, in uno scambio. I tre maschi avevano le stesse voci afone, come a scacciare le bestie, e un raschio di ruggine e catarro già da bambini. Anche le due femmine si assomigliavano: sempre lungo le pareti e zitte, scarne, affamate non sapendo di cosa, la figlia scalza d’inverno, la madre come nuda da sempre, avevano gli occhi di chi scappa anche quand’erano immobili. Guido usava il bastone, e quando in loro vedeva paura gli veniva la furia. Gli si abbuiava la vista e solo per questo qualcosa scampava alla distruzione. Era il motivo per cui i figli avevano imparato in fretta a non piangere più mentre la piccola, che non aveva mai iniziato a farlo, era protetta dalla sua stessa natura. Lei scivolava tra le macerie con la sua presenza ridotta, sempre persa anche quand’era in casa: guardava fissi gli oggetti nella speranza di riconoscerli, ma le apparivano oscuri. E se non piangevano, neppure ridevano, ché il loro istinto ammutiva ogni sentire.

Guido aveva cicatrici ovunque. Da giovane aveva lavorato come un gigante accecato dalla fretta, il corpo intero come un attrezzo ingovernabile. Aveva usato sulle cose una violenza che lo investiva come un’onda di ritorno, e ubriaco aveva lottato con il ciliegio, preso a testate furiose e morsi i rami fino a spezzarsi i denti. Un giorno sminuzzava la legna sul ceppo, con la roncola, e quando schizzarono via tre dita lui non se ne accorse e proseguì con rabbia montante perché la legna gli cadeva a terra. Ansimava, mentre credeva di impugnare le fascine con il gesto di sempre. Ma non poteva più, e dopo infiniti colpi a vuoto gettò la roncola alle vigne e tornò in casa imprecando. La sua mano, con solo pollice e mignolo, sembrava un ferro di cavallo. I figli più grandi lo videro subito, stavano buttando una ad una delle grasse larve sulla piastra arroventata della stufa, in un odore dolciastro. Il padre era emerso da una fucina d’inferno, scarlatto e rovente, bruciato, bagnato di sangue e sudore, e neri zampilli dai moncherini. Anche Pia era lì, torpida e vuota.

Un’altra volta i maiali lo presero ad una gamba, lasciandogli per sempre il passo di chi cammina sulla sabbia. Una cicatrice ancora l’aveva in fronte, largo sfacelo rattoppato da un gibbo d’ossa e pelle. Non avrebbe saputo dire dove se la fosse procurata, non c’era un motivo nelle sue ferite e nessuno avrebbe risolto il mistero della sua continua sopravvivenza. Un’altra volta ancora cadde dal melo, e un’assurda paralisi lo bloccò lì sotto per la notte. Cornelia, avvezza al suo peregrinare notturno, ebbro e mannaro, lo cercò solo al mattino, seguendone il rantolo. Sanguigno negli occhi, ruvido e irsuto, la brina lo rivestiva e lo inselvatichiva. Lei cercò di tirarlo per i piedi, ma le fu impossibile per il suo enorme peso e dovette cercare aiuto per portarlo in casa irrigidito fino a quando la sua linfa cominciò a scorrere. Quando riprese a muoversi non ebbe subito l’equilibrio per stare sulle gambe. Doveva spostarsi carponi, il naso all’alito della cagna che a sbuffi gli cercava il muso. A quattro zampe la schiena si gonfiava come un formicaio di montagna, e il collo, che esisteva solo in larghezza anche quando stava in piedi, era quello di un sauro estinto.

Quando il terzo figlio si ammalò, e sembrava fosse alla fine, Guido sentiva l’odore della febbre da lontano. Al bambino stridevano i denti, e Cornelia per giorni gli cambiò gli impacchi di acqua e aceto. Guido no, lui stava distante, e come un bisonte uscito a metà dai cespugli fissava uno sguardo impietrito con occhi minuscoli e gialli. Poi il bambino guarì, fu un miracolo, e la madre guardò in alto, a pregare il cielo oltre la finestra. Guido era in cantina, riverso a terra e scosso dal vomito del suo ventre poroso e stremato dal vino. Al piccolo rimasero i segni di quella febbre: più lento nel muoversi, la sua esistenza svigorita legata a perenni forze opposte, a pesi invisibili, e un riso stolto sul viso.

Le speranze, Cornelia non sapeva più cosa fossero. Le si erano accartocciate dentro, solcate dalle rughe, dai lividi e dalle lacrime di ogni giorno che non spargeva più come quando era giovane, ma che riversava in una smisurata sacca interna. Lavorava in campagna con la forza che le veniva dal suo scheletro da uomo. Portava i pali dei vigneti a coppie, scalando la pendenza del campo e lasciandoli ogni volta un po’ più su, nei punti dove andavano piantati. Il petto le si allargava per lo sforzo e la gonna spazzolava la terra, così che d’estate, con l’arsura, il bordo sbiancava di polvere e una lieve nube radente il suolo le accompagnava i passi.

Da ragazza si era immaginata qualcosa sul matrimonio, ma quel tempo era lontano e non sapeva più cosa. Conosceva gli scoppi di rabbia di Guido, l’avevano messa sull’avviso. E il fratello di lei, una volta, si era rotolato per ore con lui nel pantano ognuno cercando di affogare l’altro. Con il peso del corpo, sfiniti, si schiacciavano a turno la bocca nella melma come leoni marini.

Arrivò il giorno delle nozze, quando lei rideva ancora nei suoi quindici anni, e la notte successiva, quando ciò che Cornelia aveva appreso dalle parole della madre – i pronubi insetti – si dileguò in un attimo, e l’alba accolse il suo sguardo allucinato. La ragazzina camminava con dolore, pallida, appoggiandosi ai muri storti della nuova casa. Dopo anni, il sorriso era sparito cancellando lo stampo in cui andare a collocarsi, mentre le fitte, invece, rimasero le stesse ogni volta che Guido le badava. All’inizio se ne vergognava, dissimulandole, poi diventarono parte di lei; lei che non fingeva al vivere.

Solo una volta cercò di cambiare le cose. Fu quando il figlio maggiore rimase a terra tramortito e lei, col naso gocciolante per le manate prese dal marito, non lo poteva spostare perché Primo già superava il quintale. Gli uomini, in quella casa, avevano le misure dei buoi. Per un mese intero riempì la minestra di Guido col bromuro, ed era piena di incertezze, quasi violasse una regola eterna, quando metteva il piatto in tavola. L’uomo fece alcuni giorni come assopito. E poi, non appena iniziò a sentire un annebbiamento che non era lo stesso del vino, cominciò a gridare come Polifemo accecato. Continuò per giorni, sempre più rauco, mentre Cornelia mischiava bromuro e spezie, finché terminò la scorta. Il fratello di lei, che aveva con Guido un conto in sospeso, le mise in mano dei cocci di vetro, indicando la pignatta col brodo di verdure. Ma lei non ci pensò neppure, perché tra le speranze smarrite c’era anche quella di una vita diversa e, in fondo, non voleva male a quell’uomo.

Negli anni, il suo aspetto cambiò di molto, affilando il viso storto e infossandole gli occhi, e non rimase più nulla di quello che era stata da giovane. Ma più di tutto rimpicciolì, e diventò gracile e sottile. La sua gonna nera non spazzolava più la terra ma la arava facendola incespicare, mentre i figli la superarono in altezza in poco tempo: loro crescevano, ma lei si dimezzò nel giro di qualche stagione, scendendo verso la statura di Pia. Quando le loro traiettorie inverse si incrociarono, fermandole per un momento sulle stesse dimensioni, la somiglianza fu sorprendente. Stavano entrambe radenti ai muri, sconfitte e percosse in ogni attimo della loro esistenza.

Cornelia non aveva più concesso attenzione alla figlia, e la bambina per questo sembrava sempre persa anche quando stava in casa. Si metteva talvolta nella scia della madre, seguendola a distanza. La donna strisciava sulla parete, girava l’angolo e saliva a piccoli passi i gradini dell’altana, scomparendo. Se non era magia, allora Pia seguiva il suo odore dato che in quel vagare disorientato pur sempre sapeva come arrivarle dappresso. Cornelia aveva perso ancora statura e spessore, sembrando una bimba e rendendo così inverosimile e goffa quella presenza dietro a lei, una figlia già grande e insufficiente a se stessa.

In quella casa gli urti, i tonfi e le grida avevano l’intensità breve del cozzo tra montoni, teste e corna fracassate. Zuffe confuse si accendevano in uno scoppio e bruciavano con lo stesso clamore del fienile, anni prima: la casa era un recinto e mancava l’aria quando venivano l’uno agli altri vicini, ora che i figli avevano la stazza del padre. Lui li scacciava mulinando il bastone, portandoli a vivere negli angoli, ma loro si facevano largo a spintoni. Nessuno lasciò quel verminaio, anche quando i più grandi ebbero oltre vent’anni, e rimasero stretti in un intrico di rabbia e minacce. Solo il terzo figlio, con le antiche tracce della febbre addosso, stava in disparte. Ma non poteva insegnare nulla: la sua lentezza era solo un ritardo e la sua meraviglia, quando non capiva, non portava incanto ma tenebre, e un sorriso fisso e vuoto.

La spiga di rovina e la gran messe eterna di pianto dovevano pur cessare, infine, poiché il male era troppo. Quando Guido morì, calando del tutto in quel buio, fu una cosa semplice. Aveva bevuto molto e quella sera Primo e Secondo imprecarono contro il suo peso da porco, gettandolo in cortile tra risate sguaiate, mentre l’altro fratello rimase attonito a guardare la sedia vuota del padre. Pia, seme dormiente, serrò gli occhi in affanno.

Non furono le percosse ad ucciderlo. Era gonfio come un annegato e rimase a terra, le stelle tremule e fredde: quelle luci affiochirono in fretta, indicando con certezza che il sole non l’avrebbe più visto. Morì perché Cornelia, minuscola ormai, aveva occhi e orecchie troppo piccoli per accorgersi di dove fosse, sicché caricò la stufa e andò a dormire impaurita, stretta su un fianco. Morì perché le sue mille ferite erano infette da sempre, e le dita mozzate non avevano mai smesso di dissanguarlo. Morì perché i figli l’avevano superato nella stazza e lo spazio non bastava per tutti, anche se Pia era solo un’ombra lunare e nella notte rassembrava gli spiriti.

L’anno seguente spuntò il sole, come sempre. I topi fiutavano l’alba, i polli razzolavano. Cornelia ripulì l’uscio di casa con la scopa di sorgo e badò alle verdure per la minestra di quel giorno. Era primavera, e l’orto mostrava un rigoglio di altri tempi, un’abbondanza con cui lei riempì i piatti del pranzo per tutti, a mestoli ricolmi. Quel giorno dissodò un altro campo e seminò a spaglio, lo sguardo al cielo abbagliante. Giungeva una nube gonfia, una pioggia propizia avrebbe svegliato le sementi per la nuova germinazione. Le prime gocce tiepide caddero sul viso di Pia – rise festosa, e così annunciava l’estate: quel riso era l’urgenza del vivere. Il suono che usciva dalla sua bocca la strabiliava, l’avvolgeva e le vibrava di fremiti in gola, e sembrava una rondine in volo, in corsa a cerchi sul campo. Rideva e rideva ancora. E polle di vita sparse, le orme colme d’acqua nella soffice terra.