Le ali della farfalla

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7 luglio 2008

È il mio primo giorno, qui. Le stanze odorano di cibo e igienizzanti, le corsie si somigliano. Le percorro quasi non fossi io, nel mio corpo, quasi guardassi oltre il vetro di uno schermo. Qualcuno mi sorride, mentre gli passo accanto, altri distolgono lo sguardo. Un po’ li capisco.

D’un tratto scorgo la mia immagine riflessa, non mi riconosco. Mamma non mi ci vede, in queste vesti, io neppure. Troppo ampie, vivaci, mi ci nascondo dentro. Le ho scelte per questo, per essere altro, altrove. Voglio sparire per qualche tempo, mancare all’appello. Sono una farfalla, queste le mie ali. È dura, là fuori, e mi proteggo col colore.

Terzo piano, seconda porta sulla destra, l’ascensore è occupato, prendo le scale, respiro. Ecco l’ultimo gradino, spalle alte, viso fiero. Entro Clown, da oggi, e lascio fuori Lisa.

 

10 luglio 2008

Stanza numero sei, Gloria, Carla e Diana. È il nostro primo incontro, il primo di tanti. Faccio finta di inciampare, sulla soglia, due di loro ridono. Bevono tè per colazione, sembra acqua sporca. Offro loro qualche caramella, ora non possono, le mangeranno fuori. Chiedo se posso restare, Carla annuisce, prendo posto su una sedia vuota.

Diana era una ballerina, glielo leggo nel corpo. Il busto esile, aggraziato, le braccia composte, i piedi distesi. Parla dei palchi che ha visto, dei viaggi oltremare, si commuove. Carla è una sarta, invece, lavorava per le grandi firme, ora cuce su richiesta. Mi consiglia di accorciare le bretelle, segnare il punto vita con una cintura. L’orlo ai pantaloni, poi… il trucco, più leggero. Dimentica la mia missione, non devo essere bella. Dice che lo sono, invece, e solo che non me ne accorgo. Il verde mi dona, mi illumina il viso. La ringrazio.

Gloria ha gli occhi chiari e la fronte aggrottata, un caschetto bianco le sfiora le spalle. Il suo bicchiere giace sul comò ancora pieno, la busta dei biscotti è intatta. Le tremano le mani, sotto le lenzuola, è quanto so di lei, nient’altro. Le altre parlano, lei tace, il suo silenzio è logorante. Ho imparato che il dolore non sempre fa rumore, bisogna tendere l’orecchio e il cuore.

Vado via sconfitta, in parte, con la sensazione di avere fallito. Serve un’altra chiave, mi dico, questa non apre.

 

18 luglio 2008

Stanza numero undici. Fabio è un ragazzo di settant’anni, li nasconde sotto la barba folta, ha un viso sveglio. Gli mostro un gioco con le carte, per iniziare, lui mi osserva attento, pesca dal mazzo. Asso di fiori, ho indovinato, ho la stessa carta nella tasca destra. Mi chiede come ho fatto, qual è il trucco, se lo svelo resterà tra noi. Rifletto appena. Se lo facessi spegnerei la luce nei suoi occhi, è pura e fragile, come quella di un bambino. È magia, affermo infine. Lui sceglie di credermi, e sorride.

C’è una donna, con noi, si chiama Sara. Siede composta, in disparte, non interviene mai. Osserva Fabio con una tenerezza che non ho mai visto, lo tiene stretto con lo sguardo, non lo abbandona. Chiedo loro se sono sposati, lei lascia sia lui a rispondere. Fabio dice che l’ha conosciuta qui, in ospedale, lei lo aiuta con il pranzo, gli fa compagnia. Sua moglie lo aspetta a casa, invece, una volta guarito, non vede l’ora. Cerco gli occhi di Sara, sfuggenti, vi leggo dentro una storia diversa.

 

25 luglio 2008

Entro a casa, sono sola. Abito in un monolocale dalle pareti bianche, con pochi oggetti, l’essenziale. Somiglia a quella che ero, quando il vuoto era un amico, mentre adesso fa paura. Lo riempio di musica, note stonate, che annullano lo spazio, il tempo. Stempero i pensieri, li respingo fino a che mi stanco. Poi tornano da me, ancor più forti.

Oggi, però, non ne ho bisogno. Ho il volume alto, dentro, fuori controllo. Il silenzio si popola di voci, quelle che ho udito nella notte, che ho assorbito, compreso. Abbiamo cantato insieme, io e Flavia, così forte da animare la sala, tenerla sveglia fino alle prime luci. Si è creato un coro quasi fosse domenica tra i banchi della cattedrale, abbiamo celebrato la vita laddove è più fragile, incerta. Qualcosa c’è balzato fuori, dalle viscere, e lo abbiamo restituito alla terra, cambiato. Per la prima volta, dopo quasi un anno, ho sentito pace, appartenenza. No so come chiamarla, se non famiglia.

 

29 luglio 2008

Stanza numero otto. Clara ha gli occhi grandi, forse troppo. Me li sento addosso mentre gonfio un palloncino, stringo il nodo, lo decoro con i pennarelli. Lei non guarda ciò che faccio, non le interessa. Guarda me, piuttosto, oltre il rossetto e gli occhiali tondi, mi scruta attenta in cerca di qualcosa. Mi passa un dito sulla fronte, senza preavviso, scopre la pelle. Mi sento nuda, senza difese, e non ci sono nasi rossi né maschere che possano coprirmi.

Dovrà fare un piccolo intervento, il mese prossimo, la rassicuro. Il coraggio non è assenza di paura, ma buttarsi nonostante tutto. Così fanno gli eroi, e lei lo è, lo sento. Le prometto che andrà tutto bene. Sua madre è nella stanza, ci dà le spalle, piange.

Estraggo un fiore dal cappello, mostro il sorriso più grande. Clara mi chiede perché sono triste, ai bambini non si può mentire.

 

2 agosto 2008

Gloria rifiuta le cure, ha firmato per le dimissioni. Le ho chiesto di parlare una volta soltanto, che poi non ci vedremo più, e potrà dimenticare. Così si è alzata con la vestaglia addosso, e ha detto di seguirla giù nel parco.

Era un chirurgo, prima di ammalarsi, i pazienti il suo rifugio. Nessuno da incontrare, una volta a casa, nessuno cui votarsi. Passava i suoi giorni in sala operatoria, tra i ferri, e restituiva al mondo persone nuove, rinate. Qualcuno non ce l’ha fatta, aggiunge, ne ricorda ancora il nome.

Questa vita non le appartiene, se non può operare. Tiene le mani in tasca, mentre mi parla, ne prendo una tra le mie, la stringo forte.

 

10 agosto 2008

Stanza numero quattro, Piero è terminale. Si è aggravato ieri, all’improvviso, il vicinato ha chiamato i soccorsi. È ricoverato dalla scorsa notte, respira a fatica. È coperto da tubi, avvolto in fasce, ma non pensa che al suo gatto.

Si chiama Ezio, racconta, è un meticcio. L’ha preso con sé sette anni fa, quando è mancata Anna, sua moglie. Lo ha salvato, mi spiega, gli deve tutto. Sembra stare meglio, mentre parla di lui, guardo lo schermo, i valori sono stabili. Mi indica una busta sul comò, ci frugo dentro, trovo le chiavi del suo appartamento. È a qualche isolato da qui, mi assicura, in pochi minuti ci si arriva a piedi. Mi chiede di andare a trovarlo, Ezio, dargli da mangiare, da bere. L’acqua è sulla mensola, le crocchette nella credenza, è semplice, non posso sbagliare. Forse posso, ribatto, non ho mai avuto un cucciolo di cui occuparmi. Piero scuote la testa, sarà Ezio a prendersi cura di me. Poi mi guarda così a fondo che non ho scelta. Andrò domani stesso, lo prometto.

È trascorsa mezz’ora, dal nostro primo incontro. Gli domando come possa affidare la sua vita a un pagliaccio, abbozza un sorriso tra colpi di tosse. Dice che anch’io, come lui, ho il viso di chi ha perso qualcuno. Non basta un po’ di trucco per nasconderlo.

 

11 agosto 2008

Incontro Sara lungo il corridoio, torna da casa con il cambio per la notte. Ci scambiamo un saluto, un rapido cenno, lei torna indietro e mi prende la mano. Fabio è suo marito, mi confida, lui l’ha dimenticato. Tutto è iniziato qualche anno fa, con piccoli vuoti, nebbie sottili. Scordava i titoli dei libri, parte della spesa, gli appuntamenti, le ricorrenze. Hanno litigato, una volta, il giorno del suo compleanno, pensava che non gli importasse. Qualcosa si è incrinato, d’un tratto, si è fatto crepa, abisso. Col tempo Fabio ha rimosso il nome dei suoi figli, la loro storia, persino i loro volti. Sua moglie, infine. Un giorno è rientrato a casa, sconvolto, e le ha detto di andare via.

Sara affoga i singhiozzi nel riso, cerca un appiglio, manca la presa. È come vagare tra le rovine dopo un terremoto, con qualche coccio tra le mani e la paura di una nuova scossa. Mi sento piccola e impotente, con questi stracci addosso, che promettono sorrisi e strappano lacrime. La stringo forte al petto e le sporco la maglia di trucco, mi scuso. Dice che non importa, non più. Ha imparato ad apprezzare le cose che lasciano il segno, quelle che restano, nonostante tutto.

Ezio mi attende oltre la porta, mi accoglie coi suoi occhi gialli, la coda alta. Non che aspettasse me, c’è Piero nel suo sguardo. E nei suoi versi, nelle sue fusa. Lo accarezzo come se mi appartenesse, e finalmente crollo.

 

20 agosto 2008

Clara si è svegliata dopo l’intervento, ha chiesto di me. Mi aspettava paziente sul lettino, con gli occhi socchiusi, il capo fasciato. Le ho portato un tocco da indossare, mi chiede cosa sia, glielo spiego. C’è anche il diploma, aggiungo, glielo porgo. Lei lo guarda per un po’, confusa, poi me lo restituisce, ancora non sa leggere. Attestato di coraggio per Clara, leggo per lei. Prendo uno specchio, così che possa vedersi, e una pioggia di coriandoli le cade addosso. La sento ridere per la prima volta, è un suono dolce, sincero. Ammira a lungo il suo riflesso, poi torna seria e scoppia un’altra volta. Le chiedo quale sia il motivo. È ancora estate, dice, ma sembra Carnevale.

Prima che vada spalanca le braccia. Mi faccio avanti, impacciata, e lei mi cinge il collo, abbatte le difese. Sento l’energia che ci attraversa, ci cura l’anima. Clara si ritrae qualche istante dopo, poi torna a guardarmi coi suoi occhi grandi. Dice che ha sognato un uomo, mentre dormiva, che le ha chiesto di abbracciarmi.

 

12 agosto 2009

È trascorso un anno, da quel primo giorno, due dalla morte di mio padre. Ho cambiato casa, da allora, vestiti, amici. Flavia viene a trovarmi, qualche volta, cantiamo insieme fino all’alba. Le preparo un tè caldo nelle notti più fredde, e dei biscotti da inzupparci dentro. Diana è partita con un biglietto solo, vuole aprire una scuola, insegnare danza. Mi scrive ogni mese, tra una pirouette e un arabesque, mi pensa con affetto. Fabio è tornato a casa, Sara è con lui. Non sarà facile per loro, ma hanno trovato un equilibrio. Prima vagavano sperduti, ora danzano sulle macerie. Gloria ha ripreso le cure, Clara è cresciuta, va in prima elementare. Ha riccioli biondi, ora, e occhi così grandi da cascarci dentro. Ho un suo disegno, in camera da letto, lo guardo ogni volta che mi sveglio, sorrido. Siamo io e lei, mano nella mano, con uno spicchio di sole a lato e il mare sullo sfondo. Ho grandi ali da farfalla, stavolta le uso per volare.

Indosso un abito di seta verde, lo ha cucito Carla, per me. Ceno fuori, capelli raccolti, trucco leggero. Chiamo mamma, prima di uscire, Ezio ronfa sul divano, credo di essere felice. Domani sarò Clown, ma stasera sono Lisa.

 

1 settembre 2009

Servono pochi muscoli, per ridere, soltanto dodici. Sembra facile, a volte, altre lo è davvero.