Kintsugi

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Una risata.

Tanto è bastato per distruggermi, per distruggere la corazza di sicurezza che mi ero faticosamente costruito attorno. È bastato un ditino puntato e quella risata gorgogliante per farmi sentire come l’imperatore, della fiaba per bambini, nei suoi vestiti nuovi – un mostro, uno scherzo della natura. E lo strattone della madre imbarazzatissima, che redarguisce severamente il pargolo e mi lancia un’occhiata sfuggente, a disagio, non può certo ricomporre i cocci in cui mi sono infranto. Altro che kintsugi, quello che io vorrei è scomparire e non riapparire più.

Oh, non fraintendetemi, non biasimo quella madre né tanto meno il figlioletto, ma me stesso, per essermi illuso nei lunghi mesi passati in ospedale di essere non solo immune alla reazione del mondo, ma di essere pronto ad affrontarla. Probabilmente aver visto sempre le stesse facce così a lungo ha anestetizzato il loro naturale sentire e non ha permesso a me di ricordare quello che gli altri vedono, perché io stesso ho scelto di non vedermi.

 

Ma facciamo un passo indietro.

 

Lasciate che mi presenti: mi chiamo Aldo Costetti, ho quarantasei anni, ma la stanchezza di un centenario. Non ho un lavoro, percepisco una pensione di invalidità, il mio avvocato sostiene che presto vinceremo la causa e otterremo un risarcimento da parte del mio ex datore di lavoro, una somma consistente dice, come se la prospettiva di un più cospicuo conto in banca potesse restituirmi ciò che ho perso. Non sono ricco, ma ho iniziato a lavorare presto, senza indulgere in piaceri costosi, quindi ho una discreta sommetta da parte, ulteriore motivo per cui non vedo come ulteriori soldi possano fare la differenza. A dire il vero, non sono nemmeno sicuro di avere diritto a quei soldi, non fosse altro perché quel giorno non avrei dovuto trovarmi lì, avrei dovuto essere al mio banchettino a tirare righe e fare calcoli, ben lontano da dove è avvenuto l’incidente. L’ho ripetuto allo sfinimento quando ho ritrovato la voce: mi trovavo lì per caso, stavo tornando in ufficio dopo essere stato in officina a controllare che il pezzo, da me progettato, si montasse correttamente.

Oh, le norme di sicurezza, le conosco eccome, non sono uno sprovveduto sapete, però ora ditemi come un paio di scarpe antinfortunistiche avrebbero potuto proteggermi il viso. No, non c’erano altri segnali o avvisi, forse un passaparola tra gli operai, ma di cui io non potevo essere a conoscenza. D’altronde gli incidenti capitano così di solito, un’azione abitudinaria che un giorno si trasforma nella cosa più sbagliata da fare. Potrei fare mille esempi del genere, ma sono certo che li potreste fare anche voi: quante volte, nelle vostre case, fate cose che, se ci pensaste un attimo, non dovreste fare? Parlo della vita di tutti i giorni, magari aiutare vostra madre a staccare le tende dalla finestra, cosa volete che sia salire su una scala? Ma quanti di voi stanno a togliere le pantofole per farlo? Suvvia, non fate quel sorriso furbetto, l’abbiamo fatto tutti, ma pensate a quanto poco ci vuole perché vi scivoli il piede dalla pantofola, magari vi è anche successo, e per non perdere l’equilibrio mettete male il piede o urtate la spalla sull’intelaiatura della scala. Una sciocchezzuola così, niente di grave. Ma magari tenevate già in mano le tende e cercavate di scendere senza calpestarle e senza farle toccare a terra per non rovinarle e, quella stessa scivolata, poteva risultare in una caviglia slogata o in un piede rotto. Per non parlare di abitudini dagli esiti ben più gravi come sporgersi dalla finestra per pulire un vetro, sistemare l’antenna tv che dopo il temporale ha smesso di funzionare, salendo sul tetto dal lucernario senza assicurarsi in alcun modo, perché tanto è qui vicino e gli esempi potrebbero essere ancora migliaia.

Poi c’è tutto il mondo degli incidenti sul lavoro di cui sono diventato, mio malgrado, testimonial. Ci sono quegli incidenti che, come a casa, accadono per leggerezza, quelli invece che si sarebbero potuti evitare se i famosi dispositivi di protezione individuale fossero stati indossati correttamente o se, per non risparmiare tre maledetti secondi, delle protezioni non fossero state rimosse dal macchinario. E poi c’è la categoria degli sfortunati in cui rientro io, perché anche se l’avvocato della difesa dell’azienda vuole convincermi del contrario, nessuna attenzione in più nel mio comportamento avrebbe potuto salvaguardarmi, non ho svolto compiti con leggerezza. La mia presenza lì era richiesta come corollario delle mie mansioni, non sono io ad aver sbagliato, era quel boiler che non avrebbe dovuto cedere riversando fuori una nuvola di vapore, in quantità sufficiente a cuocermi, a trasformare il mio viso, non bello ma piacevole, in una maschera molliccia di gomma.

 

Non ricordo, o non voglio ricordare, quello che ne è seguito: i lunghi mesi in ospedale, il dolore costante, le operazioni continue, il sostegno dello psicoterapeuta che ho sempre rifiutato e, da quando ho lasciato l’ospedale, l’attento evitare di ogni superficie riflettente.

Quello che è successo al mio viso l’ho intuito dalla forma irregolare percepita sotto i polpastrelli delle dita, ma anche soprattutto dagli occhi della gente.

L’orrore, la pietà, il disagio e l’imbarazzo sono emozioni che ho imparato a riconoscere al volo in ogni sfumatura, per averle incontrate troppo spesso. A volte, morbosamente, fisso quel volto insistentemente, ma non per cattiveria, quanto per curiosità e forse anche per rabbia, sì anche per quello.

Poi ci sono le risate.

Oh, non potete nemmeno immaginare – perché non lo credevo nemmeno io – che esistessero tali e tante sfumature di risate: c’è quella gorgogliante del bimbo piccolo che crede stia indossando una maschera, e quella dubbiosa del più grandicello che comincia a scontrarsi con le regole del buon costume. Quella sguaiata dei branchi di adolescenti e quella imbarazzata del genitore che, seguendo il ditino puntato del figlio, arriva a vedermi.

Poi c’è quella silenziosa, di chi intuisce la tragedia dietro la maschera, ma non sa come affrontarla e quella – che giudico oscena – di quelli che hanno vissuto un incubo simile al mio e pensano che fare pessime battute sia un modo per affrontare la cosa.

Il sorriso che la accompagna naturalmente e che per me è sempre stata sinonimo di felicità, ora deturpa in modo permanente il mio viso, tirando l’angolo sinistro della bocca in un ghigno innaturale. In uno dei miei momenti di follia ho anche pensato di sfruttare questa mia deformità per farne una professione, ma per fortuna non mi sono mai spinto oltre al semplice delirio.

Dalle mie nozioni di psicologia spiccia so che la risata potrebbe essere una buona strada per uscire da questo tunnel, ma l’autoironia non è alla portata di tutti e un’ironia amara fa forse più male del silenzio. Ho letto un libro, un libro per ragazzi, in cui la protagonista era totalmente deforme a seguito di un incendio e ho riso piangendo leggendo gli epiteti che la ragazza si affibbiava, perché sono simili a quelli che ho pensato io per definirmi. Ma lei era una ragazzina cazzo, non un uomo di oltre quarant’anni! Cosa si presuppone che faccia io, ora? Rida? E per cosa?

 

Ho smesso di uscire di casa e vivo nella continua penombra. Ci sono delle persone, fidate, che mi aiutano e provvedono a quelle commissioni che vanno per forza svolte all’esterno. Per il resto, per fortuna, esiste internet e devo dire che la pandemia mi ha dato una mano in questo senso, perché cose che prima era impensabile svolgere online ora vengono gestite tranquillamente da remoto, con buona pace del mio terapeuta che insiste perché riprenda una vita normale.

Ho la finestra aperta. Fuori, sulla strada qui sotto, si sentono voci, forse parlano del mostro che abita in questo palazzo, potrei affacciarmi e cogliere il loro imbarazzo – sì, credo potrei farlo, mi da un piacere perverso coglierli in fallo, avere la conferma che ciò che pensavo era giusto. Mi avvicino alla finestra e guardo: due donne chiacchierano tra loro e una bambina di poco più di un anno è appesa all’angolo della maglia della madre. Sto per ritirarmi – in fondo non stanno parlando di me – quando la bambina alza la testa e il suo sguardo limpido incontra il mio. Nessuna reazione, il suo sguardo mi scivola addosso come su una parete o un qualsiasi altro elemento architettonico, privo di interesse. Ne sono infastidito, risentito quasi, per questa mancanza di reazione, che mi confermi quello che so di me. Decido quindi di attirare nuovamente la sua attenzione, voglio che mi veda: mi guardo in giro freneticamente, non ho molto tempo prima che se ne vadano e io perda la mia possibilità di rivincita su quella bambina. Cosa, cosa – ah ecco, una molletta, rimasta appesa ai panni che la donna che mi aiuta nelle faccende domestiche ha ritirato un’ora fa. Torno alla finestra col mio tesoro stretto nel pugno, il terzetto è ancora lì. Muovo uno degli scuri che so cigolerà in maniera discreta, il rumore sufficiente per far rialzare la testa ad una bambina, non certo ad un adulto impegnato in una conversazione. E lo sguardo chiaro torna a percorrermi, ma questa volta si fissa, attento, su un particolare, la molletta arancione che tengo tra le dita. La appoggio lentamente sul davanzale, poi schiaccio col pollice il lato della molla e rilascio. La molletta salta.

Una risata gorgogliante, di pancia, riempie il vuoto tra lei e me, spiazzandomi. Il suono vibra attraverso le crepe della mia corazza con una sonorità nuova. Perplesso riprendo la molletta e la faccio saltare di nuovo e ancora la risata risuona là sotto. Le due donne smettono di parlare e guardano la bimba interrogativamente; seguono il suo sguardo e mi vedono. Lo shock ne congela momentaneamente i tratti, ma io sono come ipnotizzato e lo noto appena. Seguono la mia lenta sequenza di azioni e, alla nuova risata della bimba, sorridono. Ancora e poi ancora, lascio che la risata coli come oro tra i frammenti distrutti della mia anima, smussandone gli spigoli vivi e donandole la promessa di una nuova forma e bellezza. Anche questo è kintsugi, penso con un sorriso.