Il posto nel mezzo

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Quando ero nella pancia della mamma vedevo tutto quello che succedeva fuori, poi sono nato e ho smesso di vedere. Venendo al mondo mi si era spenta la luce degli occhi ed era rimasta accesa quella della testa.

 

Se la foto di classe della tua quarta elementare si trasforma nell’evento più carico di implicazioni di tutta la tua carriera di studente, sei obbligato a conoscere la legge non scritta della giungla scolastica, con le sue regole su ciò che va detto e ciò che non va detto, ma soprattutto su quello che non va fatto.

Quel sabato mattina di maggio, l’aria era arroventata dalle urla di ragazzini che schizzavano dappertutto nel cortile della scuola e da quelle inascoltate della bidella che pregava nell’intervento di tutto il corpo insegnanti e della dirigente, di cui si attendeva l’imminente arrivo in pompa magna. Mi ero sempre adeguato con rassegnazione a quel genere di eventi inutili ed inevitabili come una pillola amara, ma la foto di classe era per me il boccone più indigesto. Quel sabato mattina non c’era niente che avrei odiato di più, il suggello della peggiore settimana della mia vita.

Il mio era un mondo duale, buio fuori e luci dentro, rumore e silenzio; ma un silenzio colmo, simile ad una scatola piena di rumori trasparenti. Nella camera oscura della mia testa tutto rimbombava e riverberava. Dentro di me gravitava un pianeta indipendente; ne ero il sovrano come lo ero di tutti i miei impulsi. Era un punto di osservazione isolato e sicuro del mondo al di fuori di me. Regnavo su un unico abitante col quale andavo più o meno d’accordo, avevo il potere magico di indovinare i pensieri di chi mi stava intorno prima ancora che affiorassero, sapevo in anticipo se erano buoni o cattivi, come sarebbero usciti e in che forma. Ero padrone dei codici di accesso delle persone, e le persone ignoravano i miei.

 

Quel sabato di maggio ero seduto per terra ai piedi del pino marittimo, il vento muoveva i rami che oscillando facevano andare e venire prima l’ombra poi il sole. Dalle finestre aperte delle aule al primo piano arrivavano le voci dei compagni di quinta. Milioni di metri sopra di noi un jet attraversava il cielo con un ronzio sottile e persistente. Il signor Beppe, il fotografo, armeggiava con l’attrezzatura a suon di bestemmie mormorate a fior di labbra, e quando si tacque all’improvviso capii che era arrivata la dirigente con tutte le maestre. Nel piazzale era calata una quiete surreale, pervasa da un sottobosco di suoni nervosi.

Oltre a me, l’unico altro bambino fermo a poca distanza, era Hakim: sapevo della sua presenza dall’odore di aceto. Per cominciare bisogna che vi parli di lui.

 

Era arrivato in classe soltanto da un paio di mesi, e avevo sentito dire che proveniva da un posto molto caldo e molto sfortunato. Cosa volesse dire posto sfortunato non l’avevo mica capito bene. Quando avevo dei dubbi mi rivolgevo a Davide, il mio fratellastro che aveva vent’anni. Davide mi spiegò che un posto sfortunato “è il posto che attira le catastrofi del tempo. Se un disastro universale deve scegliere dove abbattersi, sceglie sempre il posto dove ci sono i poveri”.

Facendo due più due, ero dunque arrivato alla conclusione che non era il clima che stava cambiando, come si diceva sempre in televisione, ma erano quelli come Hakim che si trascinavano i diluvi universali su e giù per il pianeta, o forse erano i diluvi universali che seguivano dappertutto quelli come Hakim.

Hakim pronunciava più o meno dieci parole in italiano e le usava un po’ a caso mischiandole come il gioco delle tre carte, non mi era chiaro se per confonderci sulla sua reale conoscenza della nostra lingua o solo per far vedere che aveva tanti argomenti di cui parlare. Non mi piaceva il suo modo fin troppo furbo di fare l’ingenuo, specialmente quando se ne usciva con una risata nervosa simile ad un cinghiale che grufola, per camuffare il fatto che non aveva capito un accidente. Era un verso disgustoso, ma non tanto per quel rumore di catarro che saliva su per la gola. Per come la vedevo io, che invece non ridevo mai, si trattava semplicemente di appropriazione indebita di un gesto di felicità.

 

Sabato abbiamo la foto di classe, ma ho sentito che Hakim non può farla” avevo detto il lunedì sera a cena. Mamma faceva vento da quanto ballava sulle piastrelle, infilava e sfilava piatti, papà tagliava il pane e stappava la bottiglia di vino parlando del suo lavoro. Nell’orchestra di sportelli aperti-chiusi e nello scivolare dei cassetti nelle guide, mi sentivo abbracciato dalla familiarità dei suoni. Mamma aveva chiesto come mai, ma intanto dava retta a papà “lo dice la sua religione” avevo risposto “i miei compagni come al solito hanno preso in giro Hakim, e lui, come sempre, non ha capito e ha fatto quel verso di cinghiale”. Non lo so perché mi ero messo a raccontare della scuola. “ai miei compagni fa schifo quel verso che sembra che ingoia catarro”.

Che strano meccanismo quello che ti fa tenere il cancello aperto mentre le parole scappano dal recinto, invece di richiamarle dentro. Di colpo il tizio del telegiornale non sembrava più seduto a tavola con noi, la sua voce si era ridotta a un segreto bisbigliato all’orecchio.

Avrei voluto dire a Giulio Scotti che è vero che Hakim non capisce niente, ma non dovrebbe dirglielo in faccia. Però sono contento che sia arrivato Hakim, così lasciano in pace me”. Una dopo l’altra le posate erano cadute sui piatti con un colpo di metallo. “comunque la foto non la faccio neanche io. Che mi serve avere una foto che non vedrò mai?” I pezzi di carne più stopposi erano finiti in gola con un gran deglutire di acqua e saliva. “è stato Giulio Scotti a mettertelo in testa?” a mamma era venuta un’improvvisa raucedine. Dall’altra parte del muro, dalla cucina del vicino, arrivò l’applauso del pubblico di un programma di giochi a premi e in strada due cani si abbaiavano contro.

 

Il fotografo Beppe mi aveva riportato al presente, e dopo aver annunciato che treppiede ombrello e diffusore per la luce erano sistemati ai loro posti, le maestre provarono a radunare il gregge.

 

Non so cosa mi era preso quella sera a cena, non mi spiego perché avevo fatto entrare la scuola e Giulio Scotti nell’intimità della mia cucina e della mia famiglia. Mamma era un generale al comando del suo battaglione che cominciava ogni santo giorno costruendo la strategia giusta prima ancora di conoscere che tipo di battaglia avrebbe dovuto combattere. Ed io non ero che un soldato semplice, uno che aveva sempre aspirato a restare nel posto di mezzo, come il formaggio nel cheeseburger. Il formaggio nel cheeseburger lo scopri quando ce l’hai già in bocca. Ci sta bene perché dà un buon sapore al panino, insieme alle salse e alla carne. Se fosse da solo avrebbe troppa responsabilità di essere buono.

 

Da quel lunedì sera la mia casa era diventata uno strano luogo silenzioso, in cui una sospetta generosità nel lasciar correre su certe regole mi suonava come una nota stonata. Mi scoprii a desiderare un confortante rimprovero per non essermi lavato i denti subito dopo cena e aver dimenticato di preparare lo zaino. Di una cosa ero sicuro: gli adulti hanno bisogno di un tempo di lievitazione, come la pizza. E alla fine della lievitazione, due mattine dopo nell’atrio della scuola, invece di stamparmi un bacio sulla nuca che mi faceva sempre vergognare, mamma si era diretta lungo il corridoio a passo da bersagliera, con me incredulo appeso alla sua mano. Sapevo di essere entrato nell’aula insegnanti perché mi era arrivato addosso l’odore di moka, lo stesso che respiravo in classe tutte le mattine dalla prima elementare, che rimaneva nell’aria almeno fino alla seconda ora.

Era calato il silenzio. Questa forma di accoglienza evidentemente doveva essere un privilegio di famiglia. Se negli anni a venire avessi dovuto descrivere il mio incubo peggiore, avrei ricostruito esattamente quel momento; me novenne accerchiato da tutte le maestre, compresa quella di ginnastica e religione. Dal loro “come possiamo aiutarla” capii che mamma aveva programmato un rapimento a sorpresa di tutto il corpo insegnanti. Ero troppo frastornato per decidere se dar retta al petto che si gonfiava di orgoglio o a quella specie di polpo dai lunghi tentacoli che si era accomodato nella pancia paralizzandomi dal terrore.

Fu al perentorio “dobbiamo parlare” di mia madre che l’aria si era fatta di ghiaccio. Le avevo sentite avvicinarsi, poggiare tazzine e borsette, soffocare la tosse, trascinare le sedie. Mamma aveva un tono che non le avevo mai sentito, capace di incidere quel silenzio liscio e gelido come una pista di pattinaggio. Non riesco a non pensare a me stesso perso in quella terra di mezzo, alla mia silenziosa invocazione ai padri della fisica affinché potessi dissolvermi in qualunque modo mi fosse concesso. Manco mi ero reso conto che mamma aveva smesso di parlare e forse non se ne erano accorte neanche le maestre, delle quali avevo perso la conta dei respiri. La dirigente con voce da eterna raffreddata aveva dato il primo segno di vita, e mentre prendevo atto che eravamo ancora tutti lì, me compreso, era partita la sarabanda. Le maestre si rubavano le parole dalla bocca con gran sfoggio di aggettivi mai sentiti prima, di sostantivi come inclusione ed esclusione, diversi e uguali, e del più alto grado di affabile cortesia mai raggiunto in un’aula insegnanti.

 

Il signor Beppe mi riportò di nuovo al presente. Dava ordini su come avremmo dovuto disporci per creare un insieme simmetrico. Disse proprio simmetrico. Me ne stavo a terra, fermo in mezzo alle corse dei compagni. Non odiavo Giulio Scotti che si era semplicemente comportato da Giulio Scotti, ne’ le maestre che avevano tirato su quel gran polverone con la scusa della foto di classe in cui dovevamo esserci tutti, nessuno escluso, compreso Hakim, che quella storia di non poter partecipare era nata dalla fantasia di qualche sapientone. Non odiavo neanche Hakim, anche se dopo il colloquio di mia madre con le maestre, aveva smesso di dirmi le sue dieci parole all’aceto in ordine sparso. Manteneva una distanza ostile per dimostrare a tutti che io e lui non avevamo niente da spartire, né la malasorte comune, e beninteso nemmeno la gloria postuma dei perseguitati.

C’era un’unica sola persona che da quel momento avevo iniziato a detestare con tutto il cuore. Quello scemo con gli occhi chiusi e la bocca stretta, che a causa di un cortocircuito nel cervello aveva perso i codici per vedere le persone.

 

La maestra mi costrinse ad alzarmi, mi prese per mano e mi fece sedere su una panca di legno sistemata contro il grande albero, di cui avvertivo il profumo pungente. La simmetria del signor Beppe era compiuta, ne ero certo: i bambini bassi, le femmine ed il cieco seduti sulla panca, i bambini alti, medi e grassi in piedi in secondo piano, gli sportivi con la faccia simpatica seduti per terra a gambe incrociate.

Nel mezzo come avevo sempre voluto, dopotutto, ci ero finito. Ero la fetta di formaggio più centrale della storia del cheeseburger, quella che non ti accorgi che c’è fin tanto che non hai consumato tutto quello che sta intorno. Nel posto che le spetta, che per capire gusto e consistenza devi arrivare proprio a metà, ma anche così è difficile da distinguerla perché nel frattempo si è amalgamata con gli altri ingredienti, quelli importanti. Fermo e impettito nel mio posto nel mezzo, tra le femmine e i bassi, alla giusta distanza da tutti, come un gatto su una tavola di legno in balia delle onde.

Lontano dall’odore di aceto di Hakim e dal suo rancore. Sapevamo entrambi di voler soltanto essere lasciati in pace e che l’unico modo di salvarsi era scoprire le carte altrui. Lui che rideva col verso di cinghiale ed io che neanche se un cinghiale vero mi avesse inseguito sarei stato in grado di farlo.

Lo sentivo bene quel buco intorno a me.

 

Poi, nel silenzio in attesa del discorso della dirigente, un silenzio vuoto anche dentro di me, si era fatto sentire un eco lontano.

Sono stata proprio una sciocca mamma cieca.” lei mi aveva sorpreso così, quella stessa mattina in bagno “tutto questo polverone per far sì che tu sembri uguale a loro, se mi passi il termine, è stata proprio una grande stronzata” avevo provato un moto di gratitudine per la prima parolaccia della sua vita “ma tu hai un dono, Gabri” aveva continuato “tu riesci a vedere da un punto di vista privilegiato. E sulla storia di quando eri nella mia pancia, hai sempre avuto ragione tu”. Mamma aveva cominciato a credere al mondo a colori custodito nella mia testa, nel momento in cui non mi ero mai sentito così cieco.

Va tutto bene?” chiese. Ed io sospirai, stanco di fare la guardia alle emozioni nel recinto del mio cervello. “Sarebbe ora che cominciassi a raccontare la persona speciale che sei” aveva aggiunto “tutti dovrebbero imparare a farlo, a sentirsi diversi”.

Sentivo il calore del suo sguardo fin dentro le ossa, e intanto il mio mondo magico era saltato per aria, con milioni di piccoli frammenti di quelle forme e quei colori sparsi dappertutto.

 

E come funziona?

Comincia a fidarti degli altri. E di te” e poi disse più forte “ricordati che non ha paura di piangere solo chi fa molta pratica ridendo”.

Riecheggiava con sempre maggiore chiarezza, non tanto il suono di quelle parole che mamma aveva pronunciato quella mattina, quanto il loro significato. Come se ogni sillaba, pezzetto dopo pezzetto, completasse una forma vivida e colorata, non il frutto del mio pianeta indipendente, ma una vera opera d’arte prodotta sul pianeta Terra.

 

Fermi in posa, bambini, siate naturali, ma sorridete”. Ero tornato al presente su quella panca. Constatai che persino uno stupido come Hakim, o un pallone gonfiato come Giulio Scotti, persino uno scemo come me che non sapeva un tubo del perimetro delle cose, lo capivano che Beppe il fotografo voleva spingerci al reato di appropriazione indebita di un gesto di felicità.

Avvertivo lo scalpiccio di ventotto paia di suole che strisciavano sulla ghiaia, ed il bailamme di sospiri insofferenti, sghignazzi e bisbigli. Poi tutto fu chiaro come in una di quelle giornate limpide che potevo soltanto immaginare.

 

Fermi in posa, bambini, siate naturali e sorridete”. Beppe il fotografo, una volta faceva l’imbianchino, a dirla proprio tutta.

 

Ci costa essere coraggiosi se lo facciamo apposta, ma siamo degli eroi quando non ce ne rendiamo conto. Le maestre non fecero in tempo ad aprire bocca che non so come, una mano, poi l’altra, una gamba, poi l’altra ero in piedi sulla panca, il più alto di tutti, presumo, alla faccia della simmetria di Beppe l’ex imbianchino. Asimmetrici, grufolanti meschini e smarriti, altro che simmetria, bocche aperte chiuse storte, altro che sorrisi. Col tono di voce più bestiale mai usato in tutta la mia carriera scolastica, e probabilmente mai così scomposto e consapevole in tutta la mia vita, mi era uscito un “cheeeeesee” a forma di ruggito che li aveva lasciati senza fiato.