Sono in anticipo. Sorrido soddisfatta per un glorioso istante. Il sorriso, tuttavia, svanisce all’occorrere di un fastidioso pensiero: come trascorrerò la mezz’ora che mi separa dall’inizio del turno, sotto una testarda pioggia che non perdona la dimenticanza di ombrelli e cappucci? Stringo le labbra in una smorfia di irritazione, accresciuta dalla goccia di pioggia che mi scivola sulla fronte sdegnata, simbolo perfetto dell’amaro prezzo della vittoria odierna. Mi lascio andare in una risata solitaria: oggi ho sconfitto l’inquietante ticchettio dell’orologio che scandisce i ritardi della mia vita eppure quell’anticipo che consideravo una grandiosa vittoria si è trasformato in tragedia. L’ironia della sorte o il prezzo della vittoria? Mi guardo intorno: il grande orologio della piazza segna le ventuno e trenta e, a quanto pare, a tenermi compagnia ci saranno solo le luci dei lampioni, la pioggia e un rumoroso vociare che fuoriesce dalle porte spalancate del bar in cui lavoro. Decisamente il prezzo della vittoria.
Intravedo dei gradini a pochi passi da me e osservo come, grazie alla gentile intercessione di un ampio balcone che li sovrasta, rimangano indifferenti all’indomabile pioggia. Trovo in loro il mio riparo e sorrido nuovamente, grata di quella piccola gentilezza offertami dalla città di Milano. Accendo una sigaretta, dovrò pur far qualcosa per ammazzare il tempo. Sorrido al placarsi della tempesta della mia dipendenza, ma l’imbarazzo della tosse che segue la mia silenziosa risata soffoca anche quella briciola di piacere. Dovrò decidermi a smettere, prima o poi. Ma non oggi.
Intravedo due anime attraversare velocemente la piazza al riparo di un prezioso ombrello e non ho bisogno di conferme visive per riconoscerli: sono i signori Bevilacqua. Li osservo affrettarsi a raggiungere l’ingresso del bar in cui lavoro, quasi a ribadire il loro status di clienti fissi. Come tutte le sere lui le tiene galantemente aperta la porta e lei, senza incrociare il suo sguardo, la varca silenziosa e leggera, dirigendosi tristemente verso il proprio destino, il medesimo del giorno prima e di quello prima ancora.
Ricordo vividamente il momento in cui mi sono resa conto del fragile equilibrio di quella famiglia: allo scoppio della risata ebbra di lui, si spegne la risata nervosa di lei. Ricordo alla perfezione anche la sera in cui lei si confidò per la prima ed unica volta con me, dopo innumerevoli drink. Mi confessò di essere uscita di nascosto approfittando dell’assenza del marito finalmente fuori città per lavoro, dopo aver messo a letto i bambini e aver pagato il doppio la tata per assicurarsene il silenzio. Tuttavia, una volta fuori di prigione, si era tristemente resa conto di non sapere dove andare, quindi si era diretta verso la sua seconda casa, il bar. Trascorse la serata al bancone e man mano che l’inibizione l’abbandonava ed un sorriso ebbro e sconsolato si faceva strada sul suo bel viso, accompagnato da una risata disperata, mi raccontò del regno del terrore che vigeva a casa Bevilacqua. Al termine del racconto, posando delicatamente una mano sulla sua, le chiesi quale fosse il frutto preferito del marito. Al fremito che la pervase per l’inaspettato contatto, seguì uno sguardo rassegnato. Cocco, fu la sua risposta. Il volto confuso e in cerca di spiegazioni si illuminò di una fioca luce; non so dire se si trattasse di speranza, emozione così lontana e forse dimenticata, o di terrore, il suo fedele compagno di vita. Le dissi che, per come potevo, l’avrei aiutata: avrei creato un cocktail a base di cocco, minimamente alcolico e – per nutrire il narcisismo di lui – l’avrei presentato come il suo cocktail, il Bevilacqua. Lei scoppiò in una risata isterica e lacrime di gioia e dolore cominciarono a sgorgare dai suoi occhi color nocciola così stanchi e vecchi nonostante la giovane età. Ricordo di aver pensato con tristezza che con tutte quelle lacrime avrebbe potuto riempire interi oceani, ma nonostante tale pensiero le rivolsi un sorriso complice: la signora Bevilacqua non aveva bisogno di pena o di giudizi, ma di un commilitone, qualcuno che combattesse silenziosamente al suo fianco, battendo astutamente il marito al suo stesso gioco. Chi meglio di una barlady addetta alla creazione e preparazione dei cocktails avrebbe potuto assolvere tale compito?
Impiegai un’intera notte a creare il Bevilacqua: doveva essere un perfetto analcolico mascherato da superalcolico, talmente inoppugnabile che nessuno avrebbe potuto o dovuto accorgersi del contrario. Non potei esimermi, mio malgrado, dall’utilizzare qualche goccia di vero alcool, conscia del fatto che altrimenti il piano sarebbe fallito miseramente ancor prima di decollare, con conseguenze cui non volevo nemmeno pensare. All’alba del giorno dopo il Bevilacqua vide la luce ed ero sicura che avrebbe funzionato. Il drink divenne ovviamente la scelta prediletta del signor Bevilacqua, al punto che al fatidico “solito” si sostituì ben presto un orgoglioso “mio”. Il Bevilacqua non è riuscito a cambiare del tutto le sorti della moglie, ma col tempo pugni, calci e sigarette spente sulla sua pelle si sono trasformati in distratti schiaffi. Non una vittoria, certamente, ma qualcosa di molto vicino. La risata sguaiata e fastidiosa di lui è diventata ora una quasi accettabile risata allegra. Anche lei adesso ride un po’ di più: alla risata stridula e soffocata iniziale – per nulla piacevole da ascoltare – volta a mascherare la paura, è seguita una risata di amaro sollievo ed infine l’odierna risata, intenta a dar voce alla sofferenza, alla gioia e, forse, anche a quella piccola e segreta vendetta che si è presa sul marito.
Qualcuno sta chiamando il mio nome. Sposto lo sguardo verso la fonte del suono e trovo Beatrice, un’altra sfortunata cliente affezionata. Le sorrido di rimando e la saluto con un gesto della mano. Anche oggi si è vestita in modo estremamente elegante ed ha truccato le sue splendide labbra a cuore con un rossetto rosso. Si dirige verso l’ingresso del bar, sfilando soavemente sotto il grande orologio della piazza che batte orgoglioso le ventuno e quarantacinque. La osservo lasciare delicatamente l’ombrello e la dignità fuori della porta e varcarne la soglia. So già cosa succederà: anche stasera incontrerà qualcuno – uomo o donna – col doppio dei suoi anni e la sua risata fragorosa e coinvolgente attirerà gli sguardi ammirati ed invidiosi di tutti. Si fingerà felice e spensierata, più ingenua del suo interlocutore in modo da nutrirne l’ego, poi dissimulerà il disprezzo e il disgusto che prova nei suoi confronti e ci converserà amabilmente, costringendosi a ridere allegramente ad ogni sua battuta, aneddoto, avances. Ad un preciso punto della serata, quando sorrisi lascivi scomporranno il viso del suo ospite, sottolineerà quali sono i limiti del suo lavoro e farà ricorso al suo seducente fascino per ottenere denaro in cambio della sua preziosa compagnia, che spera limitarsi ad un paio d’ore di conversazione al bar in centro. Anche stasera, tuttavia, non potrà rifiutarsi di seguire il suo ospite nella camera d’albergo già prenotata e sussurrerà alla propria immagine riflessa nello specchio che la dignità costa troppo, per poi fingersi infuocata d’amore e farsi strappare la lingerie dispendiosa, ponendosi al servizio dissoluto del nuovo padrone. Stanotte, come tutte le notti precedenti, la sua risata curerà un’altra anima sola, danneggiando la propria per uno scopo ben preciso: pagare l’affitto e le bollette, mantenere la sua numerosa famiglia, sostenere le spese mediche della madre in fin di vita, riuscire a laurearsi presso la prestigiosa università privata che non può permettersi, trovarsi un lavoro ben remunerato che non le renderà più sacrificabile la dignità e costruirsi infine la vita che si merita. Anche stasera e stanotte indosserà gli abiti di Beatrice, l’accompagnatrice prediletta delle anime sole, voraci e benestanti di Milano.
Non so il suo vero nome. So solo che indossa la maschera di Beatrice in maniera ineccepibile. Non diresti mai che finge di divertirsi, che la sua bellissima e fragorosa risata nasconde un imperioso astio verso se stessa, l’ospite e il mondo. Non lo diresti mai. Beatrice, l’attrice migliore che io conosca, l’unica in grado di sdoppiarsi in maniera così naturale e credibile e al contempo di mantenere salda la propria identità e personalità, tanto diversa dal personaggio di Beatrice. Trovo che ci sia un qualcosa di magnetico, meraviglioso e terribile in tutto questo. Godo della sua risata finta ogni volta che risuona nel salone e mi ritrovo a provare quell’immenso piacere che coglie l’essere umano nel momento in cui ascolta la propria canzone preferita o si trova al cospetto di un tramonto splendido. Poi torno sul piano della realtà ed anche il mio sorriso, come l’anima di Beatrice, si sporca.
Accendo un’altra sigaretta, mi farà compagnia in questi ultimi minuti d’attesa. La pioggia schiaffeggia insistentemente l’asfalto come a punirlo per un qualche torto subìto. Mi arrendo all’idea che arriverò al lavoro completamente fradicia e ridacchio silenziosamente al pensiero dell’ora e mezza sprecata ad acconciarmi i capelli. Il prezzo della vittoria.
Incrocio il suo sguardo e smetto di ridere. Quando è arrivato? Lo guardo con la coda dell’occhio. Nonostante l’ombrello offenda il mio sguardo curioso, scorgo la sua gentile bellezza e, come sempre, arrossisco. Mi convinco del fatto che sia appena arrivato, o meglio, cerco di convincermene in modo da placare l’ondata di imbarazzo che mi infiamma il viso. Getto un altro rapido sguardo nella sua direzione e noto con stupore che non solo è ancora lì, ma per di più volge incerto lo sguardo verso di me. Lo saluto? No, non lo saluto. Non ci siamo mai parlati e non so neanche come si chiami. Fumo nervosamente l’ormai mozzicone di sigaretta rendendomi ulteriormente ridicola. Perché non entra? L’orologio segna le ventuno e cinquantotto. Aspetta qualcuno? Mi stupisco nell’avvertire una piccola fitta che mi attraversa il torace, eco di questo pensiero. Rido da sola, di nuovo, per l’imbarazzo. L’invisibilità urta con pari veemenza della troppa attenzione.
Lui mi sta ancora guardando ma lo perdono, del resto anch’io lo guardo spesso durante il turno. Ricordo la prima volta in cui lo vidi varcare la soglia del bar: indossava la stessa giacca di pelle che porta oggi, gli stessi anfibi, le stesse catene. Solo la maglia era diversa, o meglio, di una band diversa. Oggi indossa la maglia dei Nirvana. Nel corso di queste settimane mi sono chiesta più volte il motivo per cui, ogni sera, continui a preferire ad una silenziosa biblioteca il bar in cui lavoro, così rumoroso per lui che taciturno trascorre ogni serata destreggiandosi tra computer e manuali universitari. Ogni tanto lo vedo ridere di gusto mentre legge – ipotizzo – un fatto storico che evidentemente lo diverte; a volte è talmente assorto dalla scrittura da non accorgersi nemmeno del richiamo di Beatrice, la sirena il cui canto inesorabile pare lasciare solamente lui immune; altre volte ancora si perde in un mondo tutto suo, forse un mondo di ricordi ed il suo sorriso, solitamente in grado di incantare ed evocare benessere, svanisce nel fumo di quell’universo che prospera solo nella sua mente, così impenetrabile, così lontano, così tetro. In quelle occasioni la sua bocca carnosa si contrae, quasi a voler mostrare i denti in un’ancestrale smorfia volta a suscitare paura nel nemico. Eppure finora mai alcun nemico da combattere si è presentato al suo tavolo, né mai qualcuno si è seduto al suo fianco. Mi chiedo spesso in quale mondo diriga la sua mente e chi voglia annientare, ma me ne pento all’istante, perché all’occorrere di tali pensieri, volge rapidamente lo sguardo verso il bancone e mi sorride gentile, come a volermi tranquillizzare, di nuovo ancorato al presente.
Ci riesce sempre.
Mi sento chiamare nuovamente. Alzo lo sguardo e trovo il suo. Mi rivolge quello stesso sorriso caloroso e mi chiede se ho bisogno di un passaggio. Il suo bolide, dice indicando l’ombrello, è omologato per due. Rido divertita della battuta, forse con troppa foga. Faceva così ridere? L’imbarazzo infiamma ancora una volta il mio volto ma continuo a ridere insieme a lui, inebriata della sua risata così viva e dolorosa al tempo stesso e accetto di buon grado l’inaspettato passaggio. Forse in fin dei conti sono stata fortunata ad aver dimenticato l’ombrello a casa. Sorrido colma di gioia ed agitazione. Ci incamminiamo chiacchierando di musica e sorridendo ad aneddoti ad essa connessi, che ciascuno di noi pensava di esser il solo a conoscere.
Rido spensierata, sollevata di aver finalmente varcato le barriere dell’invisibilità e pronta per un’altra serata di lavoro. So già quel che mi attende: tra la preparazione di un drink e l’altro ascolterò – più o meno piacevolmente – nuove risate tristi, solenni, gioiose, oscene, fuori luogo, tenere e teatrali come la vita stessa.
E va bene così.