Gaio che ride

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«Spezzagli l’omero!» urlò il Grinfia da fondo campo.

«Ma l’omero sta nel braccio.» precisai io col fiatone mentre correvo intimorito verso l’avversario.

Il Grinfia mi lanciò un’occhiataccia che voleva più o meno dire: “Ma guarda se io, in questo momento, con quello lanciato in contropiede, mi devo mettere a disquisire di anatomia con un terzino damerino, che deve pure rinfacciarmi che lui invece, ha studiato. Spezzagli un osso qualsiasi, perché se ti scappa anche stavolta, giuro che ti smonto l’omero e te lo reimpianto nella gamba, così la prossima volta lo trovi al posto giusto.

Il Grinfia faceva il portiere ed io il terzino per caso, perché negli amatori della Lido di Lodi, i ruoli non erano poi così chiari.

Ma quello era un giorno speciale.

Perdevamo partite dalla notte dei tempi, anche se il nostro centravanti Gigi, detto “Rombo di tuono”, sosteneva che solo tre anni prima c’era stato uno zero a zero non omologato, per via di un famelico prosciutto dato in omaggio all’arbitro prima della gara.

Gigi però non era molto affidabile. Basti pensare che supponeva di avere quel soprannome “Rombo di tuono”, in onore al grande Gigi Riva. Mentre tutti sapevano che era solo questione della sua straordinaria potenza nello sfogare i gas intestinali.

Comunque quello era un gran giorno, perché eravamo addirittura in dodici. Proprio così, non solo non ci presentavamo nella consueta inferiorità numerica, ma addirittura potevamo contare su una riserva in panchina.

Un inatteso nuovo acquisto, arrivato solo tre giorni prima, dal mercato degli svincolati. Il mercato degli svincolati, era quel serbatoio di uomini nuovamente liberi, perché finalmente lasciatisi da compagne opprimenti.

Ogni domenica mattina, mentre ci recavamo a subire la nostra abituale sconfitta, la vista di quei poveri repressi accoppiati, in parte ci rallegrava ed in parte di rattristava. C’era chi era costretto a raccattare la cacchetta del Pincher nano della tiranna, che non si sa come un animaletto così piccolo possa produrne così tanta. Chi trascinato a messa doveva recitare una falsa espressione devota ed interessata, mentre nella sua mente perfezionava la formazione da schierare al fantacalcio. E poi c’era chi, addobbato con maglioncino sopra una camicia bene abbottonata, si accingeva a sorbirsi il tour delle zie della fidanzata, figlia di madre senza fratelli. Noi li guardavamo quei disgraziati e pensavamo che prima o poi sarebbero tornati ai comportamenti primordiali ed istintivi dei veri uomini: cioè a giocare con la palla.

Il nostro redento, si chiamava Gaio Giulio Cesare Augusto. E l’unica altra cosa che sapevamo di lui era che quel nome, che supponeva chissà quali antiche origini italiche, gli era in realtà stato dato da un padre tunisino. Gaio, come con umile semplicità si faceva chiamare, era infatti nato il giorno stesso in cui i genitori erano riusciti a sbarcare clandestinamente in Italia. Ed il padre commosso ed emozionato per quella doppia emozione aveva voluto così glorificare il nostro paese.

Comunque Gaio non poteva essere nome più azzeccato. Perché lui, rideva sempre.

Steso sul campo, riaprii finalmente gli occhi e vidi le facce dei miei compagni in cerchio sopra di me che mi squadravano preoccupati. Sarà stato per lo stato confusionale dovuto alla botta, ma giuro, che tra quelli, riuscivo a vedere persino Ombra.

Ombra era la nostra ala sinistra teorica. Non parlava mai ed era talmente magro e veloce, che capitava di giocare intere partite senza accorgersi di averlo in campo. In molti pensavano che fosse solo un’invenzione della lega per farci illudere di essere in undici.

Io ci avevo provato davvero a fermare quell’attaccante. Ma quello invece, decise gentilmente di pormi il suo gomito, il suo omero appunto, che accidentalmente egli fece sbattere contro la mia testa, facendomi ribaltare a terra rovinosamente.

Io comunque, laggiù dal suolo, Ombra lo vedevo davvero. Stava lì, come avvolto da una luce eterea.

«Ombra, sei tu? Ma allora esisti!» esclamai con un filo di voce.

Vidi allora il Grinfia che si voltò a destra ed a sinistra, assai impensierito.

«Balla, stai vedendo ombra?»

«Si lo vedo.» Balla era il mio nomignolo perché da piccolo, quando era emozionato, cominciavo a ballettare.

«Oddio, è grave allora!» Esclamò agitato il portiere.

Il Grinfia era anche il nostro allenatore giocatore. Ci avevamo provato ad averne uno vero, ma avevano fatto tutti una brutta fine: Il Primo si ammalò di depressione e, alla visione di una vera partita, per lo sconforto si buttò da una torre dello stadio Meazza di San Siro. Il secondo preferì arruolarsi nella legione straniera. Il terzo abbandonò la famiglia, si rasò i capelli e si isolò in un monastero in Tibet. Padre Piergiorgio, la nostra ultima speranza, si innamorò del nostro terzino di allora, quello prima di me, ed insieme scapparono in Sudamerica.

Stavo ancora cercando di riprendermi, quando sentii chiaramente il nostro allenatore chiamare concitatamente l’arbitro.

«Sostituzione! Chiedo il cambio. Esce il numero 3 ed entra il 12 e Dio ci benedica.» E così facendo si produsse in ampi gesti verso la panchina.

L’arbitro allora fece due cose incredibili. Per primo, estrasse il cartellino rosso all’avversario che mi aveva steso, che abbandonò il campo bestemmiando e lamentando che era un fallo di poco conto tanto che non sembravo aver subito alcuna lesione permanente. E per secondo appunto, registrò la mia sostituzione con il neo acquisto Gaio, che in fretta e furia s’era tolto il giubbotto ed era entrato in campo tutto sorridente.

Adesso dalla panchina in cui stavo seduto vedevo gli sguardi smarriti e terrorizzati dei miei compagni, ad eccezione di Gaio che saltellava per riscaldarsi e contemporaneamente rideva.

Il fatto è, che in quel momento, a soli venti minuti dalla fine della partita, stavamo ancora pareggiando ed avevamo persino l’uomo in più. Insomma tutti pensavamo la stessa cosa, senza ovviamente avere il coraggio di dirla. E che cioè, per carità era solo un’ipotesi, ma insomma forse c’era anche una possibilità, che oggi ecco, si poteva magari anche.. non perdere.

Ma le sorprese della giornata non erano ancora finite.

Come detto la mia squadra ci mise un po’ a realizzare dell’opportunità e come al solito applicava l’unico schema conosciuto: l’ 1-1-8, detto schema della misericordia. 1 portiere, 1 difensore centrale e 8 giocatori sparsi per il campo a cercare una posizione. Ombra ovviamente non veniva conteggiato.

Il difensore centrale era il mitico Lunetta, così chiamato perché lui lo trovavi sempre lì, all’interno della lunetta fuori dell’area di rigore. Del resto a lui gli avevano detto che era il difensore centrale e quello faceva.

La formazione titolare, che poi era anche l’unica possibile era dunque questa: Grinfia, Lunetta, Il duro, Balla, Tre gambe, Doppio malto, Padre pio, Schizzo, Rombo di tuono, Dammela ed Ombra.

Al minuto novantuno, avvenne il miracolo.

Era una turgida (che non so cosa significhi, ma suona bene) e fredda domenica di fine Ottobre. I tre fili d’erba sopravvissuti sul campo melmoso, talvolta composto di terra e talvolta di sterco di cavallo, ci facevano sentire un tutt’uno con madre natura. Dal terreno accanto, il lieto ronzio della motofalciatrice del signor Duilio, accompagnava l’armonica sinfonia dei nostri spasmi.

Ignaro di quell’idillio, il dieci avversario si avvicinò minaccioso e lasciò partire una mina pazzesca dal limite. La sfera andò rovinosamente a sbattere addosso a Il Duro, rimbalzandovi come se avesse colpito contro un muro. La palla, ora ovalizzata ritornò indietro verso la metà campo avversaria. Rombo era in traiettoria, ma era così stanco che riuscì a malapena a deviarla di testa, prolungando di quel tanto il suo percorso. Il pallone arrivò così, proprio tra i piedi di Schizzo che, lentamente ed in inconfutabile posizione di fuorigioco, stava ancora rientrando dall’azione conclusasi dieci minuti prima.

Schizzo si trovò così isolato, palla al piede e lanciato verso l’area di rigore.

Tutti guardammo l’onesto zio Astutillo, novantasettenne prestato al ruolo di guardalinee. Lui avrebbe anche voluto alzarla quella bandierina, ma a causa di un’infiammazione al nervo sciatico non riuscì proprio a sollevare il braccio.

Così Schizzo avanzò liberamente quando, giunto ormai dentro l’area di rigore e col portiere rivale che gli stava venendo incontro, iniziarono a tremargli le gambe dall’emozione.

In quel momento, anziché prendersi la responsabilità di tirare preferì passare la palla al centro, dove invisibile stava arrivando veloce e silenzioso come un spettro, il nostro semi-compagno Ombra.

Ora qui ci sono due versioni, quelli che dicono che Ombra fece una finta, e chi sostiene che la palla abbia attraversato il suo corpo etereo senza deviare traiettoria.

Fatto sta che non la toccò ed il pallone sopraggiunse così dalla parte opposta del campo.

Ed ecco ivi a sorpresa arrivare il buon Gaio che fino ad allora non aveva partecipato ad alcuna azione, tanto che tutti si erano dimenticati di lui. Il nostro numero dodici stoppò serenamente la palla venendosi a trovare solo con di fronte a se una porta di 7,32 metri totalmente sguarnita.

Tutto il mondo trattenne il fiato.

Ma Gaio, anziché tirare, decise che era il momento di iniziare a palleggiare così, per puro virtuosismo accademico, ammetterà, poi nella sua autobiografia apocrifa. Finito lo show, si alzò spavaldamente il pallone in alto, ben oltre la testa. Allora si girò schiena alla porta e sfoderando un sorriso incosciente, si esibì in una plateale rovesciata.

Colpì perfettamente la palla, la quale si alzò a palombella, scintillò sotto i bei raggi del sole, prestò il suo miglior profilo per le foto di rito e poi si abbandonò, stanca ma felice, tra le braccia della rete.

Col fiato sospeso e nel silenzio di quell’immensità, i presenti fissarono attoniti l’arbitro.

Questi, tutto impettito e senza alcuna esitazione indicò con fermezza il centro del campo. Quindi, come fosse una cosa normale, fischiò dapprima il goal e poi con altrettanta leggerezza, emise tre memorabili fischi che sancirono la fine della partita.

Tutta la panchina, cioè io, corremmo allora in campo increduli a festeggiare e ballettare.

Un fragore di applausi e grida di giubilo, provenne da tutto il pubblico di casa presente a bordo recinzione e cioè: la moglie di Padre Pio, detta la suora, la nonna di Schizzo, la badante di Astutillo e il nostro presidente in incognito.

Si perché avevamo anche un presidente. Ma doveva restare un segreto.

Il fatto è che il nostro presidente, nonché padre di “rombo di tuono”, nonché titolare del prosciuttificio Mino Sala, nonché nostro sponsor anonimo, aveva esplicitamente espresso il desiderio di non apparire pubblicamente.

Questo per due motivi. Uno perché, diceva il grand’uomo, le opere di bene non devono esser fatte per vanto e sarebbe stata villania ostentare il suo nome insieme a quello della nostra squadra. E due, perché quel cretino che aveva stampato le divise, aveva ben pensato di invertire il nome scrivendo su tutte le maglie: “Prosciuttificio Salamino”. Il modesto e preciso presidente aveva personalmente strappato tutte le scritte da ogni maglia ad eccezione di quella numero dodici, che tanto non veniva mai usata.

Tranne oggi che invece l’aveva messa Gaio e che con un goal in rovesciata al novantunesimo minuto ci aveva regalato la nostra storica vittoria.

Nei gelidi e luridi spogliatoi del campaccio, funzionavano solo due delle quattro docce disponibili, volutamente con sola acqua fredda, per temprarci s’intende.

Toccava quindi aspettare. Ma l’umore degli uomini era alle stelle.

«Secondo me è assist.» Schizzo, stava disquisendo con Doppio Malto se il suo passaggio potesse considerarsi assist, visto che Ombra non contava e comunque non l’aveva toccata.

In quel momento entrò a sorpresa il nostro presidente in incognito, accompagnato da Samantha detta la Tanta, una giornalista locale assai formosa giunta repentinamente sul posto e che forse per la fretta, aveva dimenticato di chiudere tutti i bottoni della camicetta.

«Dov’è il nostro eroe? Voglio fare una foto con la Samantha con addosso la maglietta numero dodici, per farla pubblicare sul giornale.» esclamò euforico il signor Mino.

Gaio si era già tolto la maglietta. Allora il Dammela, che nella vita aveva un solo pensiero e fisso, rubò lesto la maglietta, la indossò e si fiondò addosso alla giornalista.

«Signorina, faccio io la foto se mi dà un bacino. Per qualcosa di più poso pure per un ritratto ad olio.»

Ma la nobildonna pareva non averlo sentito, impegnata a fissare impietrita il nostro caro Tre Gambe, che madre natura aveva generosamente dotato di attributi maschili di impressionanti dimensioni.

In quel mentre io mi ritrovavo accanto di panca a Gaio. E solo allora le notai.

Il nostro capocannoniere infatti, indossava delle comuni scarpette da tennis, anche piuttosto logore, anziché delle vere scarpe da calcio coi tacchetti.

«Usi quelle?» chiesi ingenuamente.

«Si, non posso permettermene di nuove, mio fratello Commodo ha sperperato i pochi soldi che avevamo.»

«Be’ comunque hanno funzionato benissimo no?» dissi cercando di rimediare alla gaffe.

«Infatti! Anche se mi stanno un po’ strette, così appena ne trovo delle altre, le passo ad uno dei miei sette fratelli.»

«Acciderbola, hai sette fratelli?»

«Si, tutti maschi. Mio padre ci ha chiamato tutti coi nomi di imperatori romani.»

Ebbi allora un’idea: “Che numero porti?»

«Quello che c’è”, scherzò allegro, “ma se posso scegliere, il 40.»

«Dai, che fortuna!» mentii «La scorsa settimana ho comprato un paio di scarpe nuove, ma per sbaglio ho preso un 40, mentre io porto il 45. Se mi dici dove abiti te le porto in settimana.»

«Grazie mille, però non ho più una casa. Mio fratello Nerone ha dato fuoco a tutto.»

E dove dormi allora? »

«Non lo so ancora. Magari in questo spogliatoio.»

«Ma fa freddo!»

«Si ma vicino c’è un maneggio e a mio fratello Caligola piacciono moltissimo i cavalli.»

Poi vidi che ad una mano gli mancavano tre dita.

«Posso chiederti cosa ti è successo?»

«Oh, niente, un buffo scherzo di mio fratello Caracalla» disse con ilarità.

Allora non mi trattenni dal chiedere:

«Ma come fai a ridere sempre con tutte queste disgrazie.»

Stavolta Gaio si fece serio: «Vedi, la risata ha molti poteri: può curare la tristezza, coinvolgere un amico, criticare un nemico o semplicemente aiutarti a fare nuove conoscenze. Credimi, se lasci accompagnare la tua vita da una risata, tutto ti sembrerà migliore.»