Amentia – Cronaca di una follia

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GIUGNO 1940

 

Quando gli consegnarono la lettera, RISE ferocemente.

 

Si chiesero cosa mai potesse suscitare una tale reazione. Gli strapparono di mano la busta e il foglio un poco sgualcito e ne lessero avidamente il contenuto. Sgranarono gli occhi, costernati.

 

Gli dissero che era malato, perché solo uno squilibrato avrebbe potuto RIDERE a quel modo ad una simile notizia. Eppure seguitava a RIDERE.

 

Andò avanti per delle ore. La sua RISATA echeggiò fino a notte fonda in tutto l’edificio. RIDEVA deformato dalle convulsioni, scosso da tremori che gli correvano in tutte le membra, madido di sudori freddi che gli imperlavano il pallido incarnato. Mandarono a chiamare il medico, ma ci vollero quattro paia di braccia per legarlo al letto, prima di riuscire a iniettargli un sedativo. RISE fino allo sfinimento. Con il rapido scemare delle forze la RISATA si ridusse ad un rantolo che solo un sonno profondo riuscì a soffocare.

 

Supposero che si trattasse di un momentaneo squilibrio del suo precario e alquanto instabile umore, ma finirono per escluderlo a priori: erano settimane se non addirittura mesi che il signore non subiva picchi emotivi e poi, suvvia, quella era la crisi di un pazzo, non il riflesso di scompensi emozionali di una persona (fin troppo) sensibile.

 

Confidarono allora in un eccesso di febbre, ma nemmeno il delirio infuocato di una recente polmonite poté giustificare quella reazione sconcertante. La fronte era fresca. L’infezione sconfitta. Per scrupolo gli infilarono il termometro in bocca, ma le loro speranze si spensero poco dopo, quando la colonnina di mercurio si ostinò a non spingersi oltre il 36.8.

 

Infine, non poterono che ipotizzare il peggio, scongiurato per anni e ora di nuovo pronto a minacciare la sua felicità. Che si trattasse dunque di una ricaduta? Un ultimo, tardivo strascico della malattia? Eppure la convalescenza era ormai cosa vecchia, ne era uscito brillantemente, quasi nuovo, mai avevano assistito ad un recupero tanto veloce, addirittura si era potuto parlare di guarigione quasi totale. Possibile che quei disturbi mentali potessero riaffacciarsi al suo presente dopo tanti anni di sopore? Come una vipera, che si ritira quando i freddi soli d’inverno non bruciano più la terra, e proprio quando tutti la credono scomparsa, ecco che a primavera torna a sibilare per i prati assolati. Quel male invisibile era dunque tornato a strisciare nella mente infuocata di Pietro Felici?

 

GENNAIO 1918

 

Era in trincea da meno di un mese e già dava i primi segni di infermità mentale.

 

In un’alba di ghiaccio, rientrato da una ricognizione notturna, l’avevano sorpreso riverso su una brandina in preda a contrazioni spasmodiche. Credettero che avesse i brividi per il freddo, ma quando lo distesero supino si accorsero che non batteva i denti per il gelo, bensì per un RISO convulso. Scoprirono che versava in quello stato da giorni, un suo amico e compagno d’armi riferì che era stato colto da una qualche forma di demenza da quando, qualche giorno addietro, erano usciti all’assalto sotto una pioggia di granate e proietti di grosso calibro e aveva fatto ritorno viso pallido e occhi scoloriti, con la baionetta che colava sangue fin sulla canna del fucile.

 

Lo chiamarono “scemo di guerra” e presero a schernirlo e dileggiarlo. Lui, RIDEVA.

 

Si divertirono con lui nei modi più meschini. Più d’una volta gli misero nella gavetta una piccola miccia che poi finiva per esplodergli tra le mani. Una lieve detonazione, ma un grande spavento. Lui, RIDEVA.

 

I pochi che ne ebbero compassione, mossi a pietà da quel ragazzo remissivo, lo trascinarono dal comandante di compagnia il quale, nonostante le pressioni, gli rifiutò un congedo per insanità mentale, asserendo che la sua era una gran bella simulazione e che con lui certe scuse non attaccavano.

 

La situazione non poté che peggiorare.

 

Pietro Felici aveva braccia e gambe scosse da tremori irrefrenabili, un volto più bianco della ceramica, gli occhi annegati nel vuoto e RIDEVA.

 

Una notte alcuni commilitoni, esasperati da quei ghigni isterici e raccapriccianti, lo condussero al più vicino ospedaletto da campo. In seguito seppero che da lì il ragazzo era stato trasferito, a cura dell’Intendenza d’Armata, al reparto psichiatrico di uno stabilimento sanitario, dove rimase ben oltre la fine della guerra. Alla sua demenza venne attribuito un nome. Si trattava di una nuova espressione, comparsa per la prima volta su una rivista medica inglese: “Shell shock”. Suonava come qualcosa di profondamente doloroso e inguaribile.

 

APRILE 1919

 

Le infermiere erano gentili e premurose. Mi dedicarono attenzioni che non avevo mai ricevuto prima. Leggevano e scrivevano per me la corrispondenza, mi accompagnavano in lunghe passeggiate nel giardino che tornava a rifiorire sotto cieli azzurrini e tersi, mi rimboccavano le coperte, la sera, lasciandomi al sonno con una carezza amorevole e parlavano, parlavano, parlavano. Mi dicevano tante cose. Parole di fiducia e incoraggiamento, parole che ridestarono il mio animo svigorito. Promesse, tante promesse mi fecero.

 

Accanto a loro tutto era delicatamente avvinto dal profumo inebriante della menzogna. Questo un poco mi turbò, ma non volli prestarci attenzione, incolpai il mio animo ancora provato dall’accaduto, mi dicevo che era solo una sensazione passeggera, di chi fa resistenza alla felicità per paure radicate e difficili da estirpare. Così mi lasciai cullare dalle bugie del mondo e guarii. Una guarigione inattesa e insperata. Ero tornato a vivere, a godere dell’azzurro del cielo e del verde dei prati. Eppure un profumo zuccheroso e stucchevole mi destava nelle notti serene dandomi la nausea. Allora spalancavo la finestra della camera che dava sul fiume e lasciavo che le brezze umide e fresche dai toni muschiati mi invadessero i polmoni e lenissero i miei inquieti presagi.

 

GIUGNO 1940

 

Quando si ridestò, un RISO strozzato gli ribolliva ancora in gola.

 

Il giorno prima qualcuno si era presentato alla porta, ma prima ancora che gli fosse recapitata la lettera, nell’aria si era diffuso un odore ironico e pungente. Non era la delicata fragranza delle robinie in fiore, quella non si sarebbe fatta beffe di lui, no. Era quel profumo dolciastro che anticipa una promessa infranta, un’antica bugia svelata.

 

Quella sera di giugno Pietro Felici RISE perché la storia si ripeteva, di nuovo. RISE perché l’uomo è un essere stolto che non impara nulla dai propri errori e che anzi continua a commetterne sempre uguali o peggiori: mette il dito sulla fiamma della candela, si brucia e frigna per il male, ma la volta dopo si getta nel fuoco con tutto il corpo e non ne esce vivo. Infine RISE perché in fondo lo sapeva. Le infermiere mentirono quando gli dissero che era in un posto sicuro, che sarebbe andato tutto bene e che nulla gli avrebbe più fatto del male. Mentivano e lui lo sapeva.

 

“L’Italia entra in guerra. Il signor Felici Pietro è richiamato alle armi”.

 

Qualche singulto di RISO gli sconquassò ancora il petto, prima di trasformarsi in singhiozzo.

 

E pianse.

 

Pietro Felici pianse come avrebbe voluto piangere tutte le volte che gli era venuto da piangere, ma in cui per una crudele ironia della sorte, per uno spietato scherzo della mente, AVEVA RISO.