Talento e professionalità a disposizione delle storie degli altri: il ghost writer è un lavoro che richiede l’unione di molte doti, prime tra tutte l’ascolto seguito dalla capacità di rendere a parole ciò che altri hanno vissuto e che vorrebbero rimanesse scritto in un libro. Mirfet Piccolo, vincitrice 2009 del concorso Liberi di Scrivere e autrice di diversi racconti e di un romanzo, fa anche la scrittrice fantasma e in occasione dell’Incontro con l’autore, organizzato dal Circolo Tematico Don Milani di Cernusco sul Naviglio, ha raccontato cosa questo lavoro significhi per lei.
Tecnica e disciplina della ghost writer
Sollecitata dalla domanda «Non ti dispiace non avere il tuo nome in vista, cioè non ti senti un po’ derubata?» Mirfet Piccolo ha spiegato:
«Essere (anche) una ghostwriter non è molto diverso dall’essere una sarta che crea abiti su misura: oltre a creare abiti per me stessa, ne creo anche per altre persone. L’abito confezionato per un uomo d’affari non potrà andare bene a nessun altro che non sia quell’uomo d’affari sul cui corpo è stato modellato e cucito. Quando mi chiedono di scrivere una storia che porti il nome di qualcun altro, quindi, mi chiedono di usare la tecnica, appresa in anni di studio e di pratica, per creare un abito su misura».
Alla tecnica, Mirfet Piccolo ritiene necessario aggiungere un secondo fondamentale elemento:
«La tecnica è molto importante ma non basta per fare questo mestiere; la verità è che non basta seguire uno o più corsi di scrittura creativa, e chiunque cerchi di vedervi questa favola presentandovi un corso dal costo spropositato con la promessa che, dopo aver pagato e seguito le otto o dieci o quindici lezioni, il successo sarà assicurato, vi sta mentendo. Quando la scrittrice è (anche) ghostwriter. I pilastri sono due: la propria voce e la voce degli altri».
La propria voce e la voce degli altri
Prima di poter scrivere degli altri e quindi inevitabilmente entrare nella loro intimità tanto da arrivare a dare forma ai loro pensieri, una ghost writer deve conoscere quella che Mirfet Piccolo chiama “la propria voce”.
«La voce si forma con lo studio e la pratica, e nella maggior parte dei casi, se non tutti, sono necessari molti anni per trovare la propria. Quello che è definito “esordio” nasce da anni precedenti di scrittura senza un pubblico di lettori, da anni di scrittura inconsciamente imitativa degli autori che amiamo, e poi da altri anni di tentativi di provare a uscire dal nido di questi nostri beniamini, e quindi si scrive e si cestina, si scrive e si cestina tantissimo.
Questa è una cosa che voglio affermare con forza – ha ammonito la scrittrice – C’è ancora chi crede di potersi sedere alla scrivania una domenica uggiosa e, al primo tentativo, scrivere un capolavoro della letteratura nostrana se non internazionale, senza magari avere speso tempo ed energie a leggere e a studiare i libri degli altri. No, non funziona così».
Il potere dell’ascolto
Solo una volta affrontato questo passaggio necessario e fondamentale allora si può fedelmente riportare nero su bianco la voce degli altri. Una cosa per cui torna molto utile il prezioso potere dell’ascolto:
«Chi è la persona che ho davanti? Perché vuole raccontare proprio quella storia, e a chi la vuole raccontare? Trovare una risposa a queste domande può, a volte, voler dire impiegare settimane e mesi per conoscere l’altro in tutti i contesti della sua vita, professionale e privata. Ci vuole pazienza, attenzione ai dettagli, e molta discrezione.
La coerenza tra la persona (visione del mondo e modo di abitarlo, registro linguistico, progetto, etc.) e la sua voce è, per me, il cuore del mestiere di (anche) ghostwriter. Devo diventare l’altro o l’altra. Posso diventare, ad esempio, il compositore musicale che sa scrivere sì la musica ma che ha una storia in mente e questa storia la vuole trasformare in un racconto, ma non è ne ha gli strumenti, e dal racconto creare un soggetto cinematografico che porti il suo nome».
Chi è il vero ladro?
Insomma, fare la ghost writer vuol dire sapersi mettere a disposizione delle storie altrui e trovare l’esatto modo di poter raccontare le vite di ciascuno. C’è chi può forse pensare che l’unica soddisfazione di scrivere un libro sia trovare poi il proprio nome scritto sulla copertina, ma in realtà è un mestiere che offre molto di più, soprattutto a un ghost writer a cui si presentano sempre nuove storie degne di essere raccontate.
«L’abito che creo su misura per me non potrà mai andare bene per altre persone, e viceversa. Essere una (anche) ghostwriter vuol dire mettere la tecnica e la disciplina (tantissima disciplina) al servizio degli altri. La tecnica – l’arte e gli strumenti del cucito – è cedibile. Non è cedibile, invece, il corpo, ovvero la visione del mondo e il modo di abitarlo.
Non c’è alcun conflitto.
La risposta quindi è no, non mi dispiace che il mio nome non compaia, e non mi sento derubata. Sento piuttosto di avere una finestra privilegiata grazie alla quale posso entrare nelle vite degli altri: questa finestra mi permette di abitarne i corpi e i pensieri per il tempo necessario a svolgere il lavoro. Io entro in un luogo inaccessibile ai più, a volte questi luoghi sono sigillati come solo i segreti più intimi possono esserlo. Ed è da qui, da questa finestra o sigillo che si può provare a ribaltare la prospettiva: e se la ladra, invece, fossi io-scrittrice?».