Viaggio nella pandemia: storie di chi è alle prese con il virus

    Chi racconta la sua esperienza da positivo, chi rientra da un viaggio e chi teme di essere contagiato

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    «Quando a gennaio è esplosa l’emergenza sanitaria vivevo letteralmente nel terrore. Non uscivo di casa, ascoltavo con ansia ogni nuova notizia. Ero paranoica. Ora vivo questa seconda ondata con molta stanchezza psicologica, ma mi sono abituata alla situazione. È diventata la nuova normalità»

    racconta Ludovica, 30 anni, al momento a casa con la febbre da diversi giorni. «Quando ho iniziato ad avere mal di gola e febbre mi sono allarmata subito, più che altro perché non ho mai la febbre e la cosa mi sembrava molto strana. Ero in ansia, non sapevo che cosa potesse succedermi. Ma con il passare dei giorni ho visto che non stavo così male e mi sono tranquillizzata».

    La paura del virus

    Il coronavirus. Questo sconosciuto. Nei mesi della prima ondata tutto era così spaventosamente inquietante, non si conosceva nulla di Sars-Cov-2. Ora, in un certo senso, non spaventa più. O meglio, spaventa ancora, eccome, ma come per ogni cosa abbiamo imparato a conviverci. Come Ludovica: inizialmente completamente bloccata dalla paura e ora, che potrebbe essere stata contagiata, affronta questi giorni con rassegnazione. «La prima cosa che ho fatto è stata auto-isolarmi in camera mia. Poi ho contattato il mio medico» prosegue Ludovica «Quando ho chiamato la mia dottoressa, circa una decina di giorni fa, mi ha detto che non c’erano gli estremi per fare il tampone. Mi ha consigliato di isolarmi, di monitorare la temperatura e di contattarla nel caso la mia salute fosse peggiorata. Nient’altro. Ora sono passati circa 10 giorni, sto un po’ meglio, ma come faccio a sapere se ho il coronavirus o no? Posso uscire? La mia dottoressa me lo farà fare? Perché io il tampone non ho intenzione di farlo privatamente».

    Pubblico contro privato: la guerra dei tamponi

    I dubbi di Ludovica sono legittimi e soprattutto non è l’unica a non voler fare i tamponi privatamente. «Non capisco perché dovrei pagare per un obbligo statale» mi spiega Paolo, un giovane che vive tra Italia e Francia. Proprio per questa vita da pendolare, Paolo ha dovuto affrontare l’esperienza del tampone entro le 48 ore dall’ingresso in territorio nazionale.

    Il rientro dall’estero

    Paolo, come sei arrivato in Italia? Hai preso un aereo, un treno, flixbus… «Sono tornato in macchina. Ho iniziato a organizzarmi per prenotare il tampone due settimane prima della partenza. È stato un disastro – racconta –  Ho cercato una lista di centri con disponibilità nei giorni necessari sul sito della Farnesina, sul sito del Ministero della Salute e anche su Viaggiare Informati, ma nulla. Qui in Francia esiste un sito completamente dedicato a Covid-19, che ti permette di visualizzare subito i centri con le disponibilità».

    Come sei riuscito a trovare la soluzione? «Alla fine ho trovato un link sul sito di Regione Lombardia, ma ho fatto molta fatica a trovarlo. C’era la lista completa dei centri e ho dovuto cliccare su ognuno di essi per verificare se ci fosse un posto per me nelle 48 ore successive al rientro. È stato veramente complicato, non potevo visualizzare solo i laboratori con disponibilità, ma ho dovuto aprire ogni singolo sito. Sembra quasi che cerchino in tutti i modi di disincentivare il servizio pubblico. Alla fine ho trovato posto, ma ho dovuto posticipare il mio arrivo di un giorno».

    Un’esperienza negativa

     

    Quella di Paolo è stata un’esperienza negativa dall’inizio alla fine: «In ambulatorio avevo 10 persone davanti a me, tutti facevano domande, non c‘era distanziamento e per compilare alcuni moduli usavamo tutti la stessa penna. Per lo meno io mi sono portato il gel igienizzante da casa, perché lì non c’era. Un dramma». Il vero dramma è che se anche Paolo non avesse fatto il tampone, nessuno se ne sarebbe accorto. Ha fatto avanti e indietro dalla Francia senza nemmeno un controllo alla frontiera da parte della polizia o della gendarmerie francese. Una falla non da poco per entrambi i Paesi. «Tutto viene lasciato al buon senso dei cittadini» conclude Paolo.

    La sicurezza prima di tutto

    Se fare un tampone in modo statale richiede troppo tempo, Stefano, appena si è accorto di non sentire più gli odori non ha voluto perdere nemmeno un secondo e ha fatto immediatamente il tampone. «La mia compagna è incinta, non potevo permettermi di contagiarla». «Avevo già fatto un tampone privatamente a fine settembre quando sono rientrato da un viaggio di lavoro e appena ho capito che potevo essere positivo, prima ho prenotato il tampone e poi ho avvisato il mio medico». Come si è evoluta la situazione? «Inizialmente avevo solo un po’ di raffreddore e di mal di gola, poi, dopo due o tre giorni, il raffreddore è sparito, ma non sentivo più nulla: ho fatto persino il test provando ad annusare l’alcol. Niente». Stefano, 48 ore dopo il tampone, svolto in tempo record e senza alcuna fila, ha scoperto di essere positivo. «Io e la mia ragazza abbiamo diviso la casa in due. Io dormo in una camera e lei nell’altra. Ci siamo anche divisi i bagni. Passo le giornate lavorando, anche se sono a casa in malattia, perché la noia è davvero tanta e guardare la tv o il telefono tutto il giorno non fa per me». Ora come stai? «Un po’ meglio. Ricomincio a sentire gli odori, ma la sensazione di grande stanchezza non mi abbandona. Sono isolato da una settimana e devo aspettare almeno 10 giorni dal primo tampone per poter fare il secondo. Deve sbloccarsi il portale dell’Ats per prenotarlo e non so come e quando potrò farlo. E questo mi preoccupa. Mi preoccupano i tempi di attesa del servizio pubblico».

    Luoghi di contagio

    Stefano, dove credi di aver preso il virus? «Non saprei. Sono molto preciso e attento in queste cose: indosso sempre la mascherina. Ovunque. Lavo le mani e le igienizzo decine di volte al giorno. Non me lo spiego. L’unico posto in cui potrei averlo preso è in piscina. Io tengo sempre su la mascherina fino a bordo vasca, ma non tutti lo fanno e gli spogliatoi sono sempre pieni di gente e di bambini che finito il corso non indossano la protezione».