Un tempo assai felice

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Caterina pelava patate. Con quelle sue manine delicate che non parevano mani di donna di servizio. E mentre la lama rapida toglieva la buccia, lei cantava a bassa voce “Mi sono innamorato di te” di Tenco. Le era stato ordinato di non cantare ad alta voce la domenica mattina, perché il signorino dormiva. Era il 1962, lei aveva diciassette anni e avrebbe voluto poter scegliere di non essere una domestica. I soldi necessitavano ai suoi genitori che poco o niente avevano risentito del boom economico, come molte famiglie di mezzadri che avevano continuato a fare quello che facevano da secoli, coltivare alacremente la terra di altri. Agli occhi dei parenti, Caterina era una privilegiata ad andare a servizio, ma tutto questo privilegio non le pareva un granché, dato che non faceva che correre dalla mattina alla sera. Le padrone erano tre: la signorina Renata, la signorina Maria e la signorina Francesca detta FriFrì; tre sorelle nubili, non più giovanissime, che vivevano coll’adorato nipote Egeo, orfano del loro unico fratello. Era un bravo giovane e amministrava con oculatezza i numerosi averi della famiglia, vezzeggiato e servito come un principe dalle zie che facevano a gara per carpirne l’affetto. Peccato per quel difettuccio del ragazzo che proprio lontano dalle sottane non ci sapeva stare, facilitato dal bell’aspetto e dall’eleganza impeccabile dei modi. D’altronde le zie erano concordi nel ritenere che le donne dei paraggi, ammogliate o no, seducevano sfacciatamente il fanciullo ormai quasi trentenne. Caterina di giorno cantava pelando patate e la notte leggeva manuali per diventare infermiera. Chissà magari più in là, nel tempo avrebbe avuto un’occasione. Sperare non era peccato, nemmeno per una servetta. Egeo in quel periodo coltivava un’infatuazione per la moglie del medico del paese che ricambiava con entusiasmo le sue attenzioni. Tant’è che spesso l’uomo si trovava casualmente a casa della donna, mentre il marito faceva il giro delle visite. Quando la storia della tresca arrivò alle orecchie delle zie, si scatenò il putiferio. In passato avevano già affrontato ire di mariti oltraggiati, ma questa volta era troppo, questa volta non l’avrebbero perdonato. Lo aspettarono sedute nel salottino, con la faccia seria e la fronte aggrottata. Egeo arrivò fischiettando, dando un bacio alle tre guance dure. Anche per lui non era la prima volta che quella scena si ripeteva e aveva imparato che era opportuno far buon viso a cattivo gioco. Quindi ammise tutto, più o meno, e promise di chiudere la storia e mettere la testa a posto, come da copione. Questa volta però le ziette pretesero di più. Stavano invecchiando, erano stanche, volevano qualcun altro che prendesse il loro posto in quelle squallide recite: una moglie. La risata di Egeo si smorzò quando capì che le donne non scherzavano. Non sarebbe stato difficile trovare una ragazza di buona famiglia desiderosa di imparentarsi con loro. Il loro cognome aveva un peso, eccome. Egeo, nei giorni successivi, fu preso da uno strano malessere. E dopo una lunga cavalcata sotto la pioggia, si ammalò. Gli venne la polmonite e fu assistito dalle zie e soprattutto da Caterina per parecchie settimane. La ragazza serviva in quella casa da quando aveva circa undici anni e per lui, fino a quel momento, era stata poco più che invisibile. Ma in quei lunghi pomeriggi di cure, lui iniziò a vederla con uno sguardo nuovo. Lei non era come le altre. Non aveva modi da contadina. Gli leggeva il giornale, gli raccontava ciò che fuori accadeva con allegria, spirito, senza malizia. Talvolta cantava per lui la canzone di Tenco, sempre un po’ imbarazzata per il testo, ma era quella che preferivano entrambi. A lui piaceva ascoltare, era brava. Man mano che i giorni trascorrevano, il giovane si accorse di aspettare con trepidazione l’arrivo della ragazza e più la guardava, più si stupiva di quanto fosse bella e del fatto che lui non se ne fosse mai accorto. Caterina si era pian piano aperta nel raccontare i suoi sogni e le sue speranze. Lui ascoltava rapito da come ragionava con assennatezza, malgrado la giovane età. Con grande fastidio ammise con se stesso di essersi innamorato, cosa che non gli era mai capitata: per la prima volta sentiva pulsare il cuore prima di un’altra parte del corpo. Come era possibile? Non si erano nemmeno sfiorati. Più guarivano i polmoni, più il giovane s’ammalava d’amore. Le zie si trovarono un mattino ad ascoltare la richiesta di sposare Caterina, se lei lo avesse voluto, naturalmente. Una fucilata avrebbe fatto meno effetto. Inammissibile che il nipote sposasse una cameriera. Con tutte le nubili colte e facoltose del circondario. E mentre le zie si ergevano come colonne di un tempio terremotato schiacciando per sempre il suo desiderio, Egeo si sentì soccombere tra la gratitudine per chi l’aveva cresciuto e la propria vigliaccheria. Non le avrebbe combattute e si arrese ancor prima di guerreggiare. Caterina, ignara, pelava cipolle e cantando Tenco, cantava l’amore segreto per il suo padrone, perché sì, anche lei lo amava, ma sapeva che certi amori sono innaturali e non si possono nemmeno immaginare. In campagna nessuna specie si mescola alle altre, figurarsi una serva con un signore. Allora cantava “Mi sono innamorato di te/ perché/non potevo stare più solo/ il giorno…” perché sulle cipolle poteva piangere in tutta tranquillità e la sua voce correva per i corridoi dolcemente fino alle orecchie del ragazzo che si disperava chiuso in camera sua. La signorina Frifrì che conosceva le ambizioni della giovane, le disse che le aveva trovato un posto da infermiera in un ospedale tramite un amico medico; sarebbe bastato un colloquio. Certo un po’ lontano. Un colpo di fortuna. Voleva dire cambiare vita, vivere in città, una paga migliore. Una vita migliore. Ma bisognava fare presto, partire presto. Caterina pensò che partire era una buona idea, andare lontano per non vederlo sposato con un’altra, per non soffrire così. Il tempo l’avrebbe aiutata. Il tempo aiuta sempre. Preparò le due cose che aveva, avvisò la famiglia. L’autobus partiva all’alba. Prima però doveva vederlo, almeno una volta. Lui era nella scuderia, come spesso capitava la sera. Lei si era tolta il vestito da cameriera, aveva sciolto i capelli, aveva indossato l’unico abito carino che aveva: blu con piccoli fiori bianchi. E così gli si era presentata davanti. Negli occhi di entrambi albergava una tristezza fonda, una tristezza muta. Lui avrebbe voluto dire, lei avrebbe voluto spiegare. Nessuno dei due parlò. Lei, rossa in volto, gli porse la mano che era piccola e fresca. Mentre si allontanava lui la rincorse, l’abbracciò e le diede un bacio. Un bacio vero, sulla bocca. “Vorrei fosse diverso” mugolò lui. Lei stupita e affranta ricambiò con ardore quel bacio e poi che le lacrime si furono mescolate, se ne andò, di corsa. Lui non la rincorse più. Fu importante la vita che venne dopo? Di lui, di lei? Fu importante quel bacio sospeso incastonato in un tempo sottile, in una mancata promessa di carta velina? Egeo non smise mai di pensare a Caterina. Aveva persino pensato di rintracciarla in alcuni momenti della sua vita. Non l’aveva mai fatto. E lei? Per quanto tempo aveva sperato di trovarselo sulla soglia di casa? I binari della vita li avevano portati ad altri visi, altri occhi, nuove responsabilità, ma nessuno dei due aveva smesso di pensare all’altro. Nemmeno per un giorno.

Nel giardino di Villa dei Ciliegi, la casa di riposo dove viveva da alcuni anni, Egeo, seduto su una panchina, ascoltava il frusciare delle foglie. Talvolta, rammentava Caterina che cantava la canzone di Tenco. Gli pareva quasi di sentirla, come la sentiva da giovane con quella sua voce gentile e piena di sogni. Senza accorgersene intonò un verso “perché non avevo niente da fare il giorno…”. La dottoressa Levi gli si sedette accanto: “È una canzone bellissima, signor Egeo. Mia mamma me la cantava sempre, diceva che le ricordava una persona speciale di quando era molto giovane, un ragazzo che aveva molto amato e a cui aveva dovuto rinunciare”. A Egeo s’illuminarono gli occhi, e guardò la giovane donna sforzandosi di cercare nel volto qualche tratto di Caterina. La dottoressa chiese: “Anche a lei ricorda qualcuno di speciale?”. L’uomo le prese la mano tra le sue e sussurrò: “Mi ricorda un tempo, un tempo assai felice”.