«Non ho tempo di perdere tempo, siediti, racconta cosa cazzo ci fai qui»
«Crepa»
«Non ho tempo nemmeno per questo»
Il Comandante della motovedetta è stanco, non dorme da più di 32 ore, è in mare da mesi, da quando l’estate è iniziata e l’anticiclone ha reso il Mar Mediterraneo una tavola piatta ed invitante. Conosce perfettamente la stanchezza, è la sua vita, la sa dominare, è stato allevato per questo, però l’addestramento durissimo e l’attaccamento al codice militare non gli impediscono di sentirsi spossato, distrutto.
L’ultimo barcone affondato ha provocato la morte di 56 persone, cinquantasei persone, donne, uomini, bambini, donne, uomini, bambini. L’ordine di affondarlo è arrivato direttamente da Roma, ovvio, ma il pulsante del missile lo ha premuto lui, e la cosa questa volta gli è pesata.
C’è stato un tempo in cui queste persone le salvava. Le raccoglieva dal mare, le sottraeva alla morte e come un moderno Dio ridava loro la vita. Magari una vita dura, di stenti, di insulti, di odio, di merda, comunque vita da provare a vivere. Poi il tempo è cambiato, non c’era più spazio per nessuno sul sacro suolo patrio, e allora prima i moniti, le schermaglie, gli “alt! Chivalà?”, gli aut-aut, infine le bombe, la guerra. Da Dio a Demonio, da Lucifero a Mortifero.
Il tempo non è lineare, si dilata a seconda degli eventi che viviamo. Noia: tempo lungo, dilatato. Azione: tempo breve, intenso. Che tempo è quello che separa un missile dal suo obiettivo? Un tempo così breve e così infinito, il lasso di tempo che separa il bene dal male.
«Siediti, africano di merda.» Grida il Comandante, ma non si sente bene. «Dimmi perché stai portando questa bagnarola in Italia.»
«Crepa.»
Gli affonda il calcio della pistola sulla nuca, quello sviene, sanguina. Il Comandante si alza, va in bagno, vomita.
C’era un tempo in cui li avvolgeva in coperte di lana calda, e si faceva raccontare da dove venivano, dove volevano andare, chi erano, come si chiamavano e quali soprannomi avevano, che tempo faceva nei loro paesi d’origine, sempre troppo aridi o troppo alluvionali, quasi mai accoglienti ma sempre meravigliosi.
Guarda l’orologio, sa che tra meno di un’ora dovrà riferire a Roma gli spostamenti del giorno, il numero di imbarcazioni intercettate, il numero di persone bloccate in mare, gettate in mare, disperse in mare, uccise in mare. Numeri che fanno grande un ego, e piccolo lo spirito di una nazione. Un Paese che odia è misero, come un cuore che non sa provare amore è misero perché non ha spazio sufficiente per contenerlo. La sua è stata una nazione grande, perché abbracciava tutto il mondo, con i suoi paesani sparsi ovunque, odiati e poi accolti, a volte persino amati per ciò che sapevano dare alla nuova terra che li ospitava. Una nazione simpatica, benvoluta.
Torna in cabina. «Fatelo rinvenire. Fatelo parlare. Fatevi dire quante altre carrette piene di merda ci sono in giro. Avete tempo due ore, se non parla, gettatelo in mare.»
Due ore sono il tempo che il Comandante dedica allo yoga, tutti i giorni, da quando è su quella nave, al tramonto. Asana e Pranayama, Dyhana, infine un’ora di meditazione. È la pratica che più lo affascina, perché dilata il concetto di tempo all’infinito, oppure lo restringe all’infinitesimale. Per un militare, il cui tempo, per educazione, scorre regolare e cadenzato, poter vivere al di fuori del tempo è stata una scoperta incredibile. Fu la sua psicologa, ingaggiata dallo Stato per sostenere i militari tornati dalla guerriglia in Iraq, ad insegnargli la pratica. Ore di meditazione, le prime passate a bestemmiare tra i denti perché l’immobilità del corpo e della mente erano dolorose, le successive affinando la tecnica, abituandosi alla postura, a lasciar scorrere i pensieri, anche quelli più terribili, senza giudicarli. È qui che il tempo si espande, e con lui la coscienza. Sospendiamo il giudizio. Quando diventano persone e smettono di essere migranti, nemmeno fossero uccelli, o gnu, le persone hanno una faccia, un cuore, una storia da condividere, e si crea spazio tra le pieghe della coscienza della nazione. Quando sono ridotte a cose, e di poco valore, la coscienza della nazione se ne frega, perché a nessuno importa dei sassolini che si accumulano ai lati di una strada, finché a qualche motociclista sprovveduto capita di frenare curvando in quel punto, e lì si ammazza.
Passano le due ore. Sente un tonfo di corpo in mare. «Non ha parlato, nemmeno questo stronzo ha parlato. Non muoviamo nessun passo avanti. Passerò la mia merdosa vita su questa barca fatiscente del cazzo.»
Compone il numero. «Salve Ministro, no, nulla di nuovo, certo, cinquantasette in meno, e lei è sempre più bello e importante, sì, le voglio bene tantissimo e venero e bacio il suo sodissimo deretano.»
«Che schifo, cosa cazzo mi tocca inventarmi tutti i giorni.» Esce sul ponte a prendere una boccata d’aria, il cielo è terso e la luce ormai tenue, si sta benissimo. In lontananza si vede il profilo di Lampedusa. Sente nell’aria-forse è solo immaginazione, nostalgia o desiderio- il profumo del suo passito, del suo passato. Vino da meditazione, dicono. È un vino che nasce col tempo, quel tempo esatto in cui le uve devono stare recise sul vitigno, appassire, diventare zuccherine, buone.
Quel tempo che l’uomo concede a quelle uve, il vino passito restituisce all’uomo, lasciandosi bere a fine pasto, con calma, nelle chiacchiere finali, che precedono l’addio, o nei pensieri sazi, che anticipano il torpore serale.
Stappava una bottiglia, una ogni sera, ne versava un bicchiere per lui, il resto lo offriva, ai suoi dell’equipaggio, e ai musulmani meno ligi che celebravano la propria vita ritrovata.
Adesso tempo di bere dopo cena non ne ha più, i turni sono intensificati, bisogna muoversi, spostarsi, intercettare, bloccare, fare numeri alti da sputare in faccia all’Europa tiranna e menefreghista.
Questa sera però stappa, per stanchezza e perché deve alleggerirsi. Beve da solo, nella cabina privata, privilegio del Comandante. Così che non può vedere l’altra barca avvicinarsi, non fa in tempo a prepararsi, d’improvviso sente un boato e dopo poco si ritrova in mare, annaspa e ingolla sorsate di acqua salata, che poco assomigliano al dolce acidulo del suo passito preferito.
La nave ha speronato una di quelle bagnarole piene di disperati, di colpo nei flutti tutti si trovano attorcigliati nella furia delle onde, colpiti da rottami ed effluvi di barca sovraffollata. Il Comandante è in acqua adesso, cerca la superficie ma non la trova, il tempo stringe, la gola stringe, una mano, una mano nera come il carbone l’afferra, lo stringe e lo porta su. Sono abbracciati adesso, lui e Amir, provenienza Somalia. Abbracciati in mezzo ad un mare bastardo, disperatamente alla ricerca di vita, di aiuto. Il Salvatore e il Salvato, a parti invertite.
Se Amir lo lasciasse, lui morirebbe, lo sa. Sente amore per Amir, il tempo della repressione finisce in quel naufragio, non serve odiare, non serve torturare, non è un migrante, è Amir e Amir lo tiene stretto, come un padre il suo bambino che ha paura a scendere da un gradino troppo alto per la sua età.
Amir gli dice qualcosa, ma il Comandante non può capire, può solo credere nella bontà e nella forza magica di quei suoni incomprensibili.
Passano due ore tra la vita e la morte, Amir a sostenerlo e a sussurrargli una nenia rassicurante, aggrappati tra loro e sostenuti da un rottame galleggiante. Ci sono corpi senza vita intorno a loro, il buio è pesto, l’aria densa di grida, però sempre meno col passare dei minuti. Non si riesce a galleggiare nel mare nero di notte, non si riesce a stare calmi.
Poi una luce rossa e blu, ed un faro bianco di una motovedetta italiana che è giunta sul luogo alla ricerca di un segnale radar perduto. Il fascio di luce li illumina e presto vengono recuperati, vivi, tra i pochissimi sopravvissuti.
Riconoscono i gradi di Comandante, anche se gli occhi impauriti non corrispondono al ruolo. Lo scuotono, gli chiedono cosa sia successo, ma il comandante è sotto shock, per ciò che è stata la sua Vita, per le scelte che ha assecondato. Il medico di bordo lo seda, lo addormenta, lo spegne.
Amir resta sul ponte, a tremare, lo hanno ammanettato in attesa della sentenza.
Anche Amir non parla. Viene interrogato, non parla e non parlerà, perché non sa parlare, solo sa cantare nenie rassicuranti e divine della sua tribù di origine. Nenie che placano il mare e gli animi delle persone povere e spaventate.
Dopo due ore, il tempo dello Yoga, viene gettato a mare.
Quando il Comandante si sveglia, dopo dieci ore di sonno chimico e confuso, chiede del suo salvatore.
Due ore più tardi, il tempo dello Yoga, il Comandante si getta a mare per raggiungere colui che gli diede per l’ultima volta la vera Vita.