Specchio marino

categories="13381,12868,6030,12964,9217,13794,12762,12863,12742,12741,12743,12862,12744,12746,12745,12747,12748,12865,12866,12799,12749,12763,12750,12864,12751,12867,12752,6546,16899,12965,6542,3,12980,210,17281,17282,17283,17284,12962,6126,13798,12981,287,1,12966,12961,12976,2916,5857,9608,12505,14138,14139,13781,6544,13496,7153,6534,5184,12977,6031,9215,6523,10994,6522,1545,6421,10995,10993,13198,361,13290,12821,12800,6062,8672,16701,16702,16703,6,5856,12959,9216,9218,27,101,14566,13209,6511,12963,12816,427" random="1" limit="1"]

Seduta sullo scoglio, mi guardo intorno.

A sinistra, prima della segnaletica che indica il divieto di oltrepassare il molo di cemento, c’è una palafitta.

È uno stabilimento balneare di giorno e un ristorante di notte.

Sotto, tra i pali e lo scoglio, è fresco e ombroso. Ci vanno le mamme d’estate, quelle che hanno i bimbi piccoli che non possono essere esposti al sole nelle ore più calde.

Ci vado anch’io.

Il mare mi piace in primavera, quando ci sono poche persone e si può passeggiare in pace. Mi piace in autunno, quando rimangono solo i duri, gli incartapecoriti che non si rassegnano all’arrivo del freddo; mi conquista d’inverno, mentre, imbacuccata, mi godo quelle giornate fredde, limpide, col vento gelido che taglia le guance, e si vedono le isole incoronate, verso l’ex Jugoslavia.

D’estate c’è troppa gente, è troppo caldo, vengo solo per fare lunghe nuotate al largo, con il mare calmo, stando sul dorso per godermi la vista del cielo, o a rana, gli occhi aperti e il viso a pelo d’acqua, per sentirmi metà terrena e metà marina.

Non riesco a stare al sole tutto il giorno, non sopporto il caldo; guardo con invidia i rettiliani; io, appena trascorso il tempo dell’asciugatura, mi ributto in mare.

Volgo lo sguardo davanti a me. C’è una piscina naturale. Tolgo le scarpe da ginnastica, i calzini un po’ umidi di sudore, arrotolo i pantaloni della tuta e immergo i piedi.

L’acqua è trasparente, gelida, dalle iridescenze verdi. È colpa dello scoglio di questa rupe, che continua sott’acqua rendendola smeraldina.

Poco oltre un gommone passa sfrecciando, l’onda causata dall’imbarcazione mi bagna fino alle ginocchia.

Tolgo i piedi dal mare e starnutisco. Vorrei che si asciugassero all’aria, ma non mi pare il caso, fa ancora fresco, infilo i pedalini sui piedi bagnati e poi le scarpe.

Faccio un passo qui e uno là, un saltello corto, uno lungo, e raggiungo un altro scoglio. Quanti graffi, abrasioni ed ematomi mi sono fatta in questo punto…

Ora non ci si potrebbe più andare, è vietato, ma ho oltrepassato il nastro rosso e bianco, sono già in flagranza di reato.

Il sasso della rupe, libero di esprimersi, forma dune di calcaree e polvere, a tratti soffice come la panna montata, a tratti tagliente ed extraterrestre.

Con la mia amica Federica, distendevamo asciugamani colorati che alla fine della giornata erano bianchi. Con i sandalini di plastica, di cui non puoi fare a meno se non vuoi essere vittima di ricci, meduse e anemoni di mare, scendevamo in acqua, percorrendo le vie subacquee sicure per raggiungere i nostri punti preferiti.

C’erano certi personaggi caratteristici: Paperino, l’Uomo Pesce e la Donna Sirena, così si chiamavano.

Paperino passava tutti i giorni, si fermava di fianco a noi e faceva i versi dei cartoni animati, “qua qua qua”, poi andava via, nero come un tizzo, secco come un chiodo, verso altri gruppi di adolescenti.

L’Uomo Pesce arrivava verso le nove, infilava una specie di guanti palmati, e si tuffava.

Da quel momento lo rivedevamo verso le dodici, quando usciva dal mare grondante e affaticato e si distendeva giusto il tempo di asciugarsi, per poi andare via.

La Donna Sirena era una signora sui sessant’anni, muscolosa e asciutta, e anche lei stava sempre in acqua. Si diceva fosse stata una campionessa di nuoto, in gioventù.

Il sole comincia il percorso verso l’altra metà della terra, l’aria, priva di umidità, gli permette di illuminare tutto, risaltare tutto.
Il mare è arancione, il cielo ha assunto un colore violaceo, come in certi video degli anni sessanta dopo un test nucleare: sembra preludere una fine definitiva.

Ma il mondo non finirà e se non mi muovo a raggiungere lo stradello, la vedo dura stanotte, qui.

Allora mi schiodo dall’incanto e finalmente arrivo alle grotte.

Sono ancora sprangate, piccole miniature di ville amorevolmente tenute.

Disegni, colori, abbellimenti marini, fiori, farfalle: ognuna ha qualcosa di originale, un simbolo, sulla porta, sul muro, sul tetto, che denota il carattere di chi la possiede.

Sul davanti, spianate di cemento permettono di poterci poggiare le sdraio per godersi il sole.

Questa specie di terrazzini all’ora di pranzo si popolano di sedie pieghevoli e tavoli da picnic, tendoni e ombrelloni, risate, chiacchiere e rumori di pentole, piatti, odori di spaghetti allo scoglio, cozze alla tarantina, pesce arrostito in barbecue di fortuna.

Se ti fai un giro da queste parti appena arriva il bel tempo, trovi le grotte aperte su piccoli mondi domestici.

Tutto alla vista di chi passa, portoni spalancati che mostrano massaie ai fornelli, bambini in costumi di Spiderman che giocano con l’acqua in piscine di plastica, pensionati che minuziosamente “capano” le cozze, anzi, i “moscioli”, come si dice qui “in Ancona”.

Subito dopo un’altra e un’altra ancora, con un proprio mondo, una donna ai fornelli, rumori uguali eppure diversi di voci, stoviglie, urla.

È un piccolo paese, il Passetto, senza confini, dove la convivenza è stretta, fra i “grottaroli”.

Chi, come me, non ha la grotta, non può sostare molto a osservare.

Perché, come uno straniero, dopo un po’ do fastidio e comincio a essere vista come qualcosa di alieno, da allontanare.

Per un periodo ho frequentato un’amica che aveva una grotta dall’altra parte, vicino alla Seggiola del Papa, un masso dalla forma caratteristica.

Era magico stare lì, mangiare sui tavoli all’aperto, a due metri dal mare, e farsi una birra con l’aria frizzantina della notte.

Ho sempre desiderato acquistarne una, ma non si trovano in vendita.

Chi le possiede le tratta come un cimelio di famiglia.

Forse prima o poi riuscirò, chissà…

Salgo lo stradello che porta alla civiltà e arrivo al parchetto. Sono al Monumento ora, colorato di rosa.

Sembra un tempio greco, dedicato al sole, al mare, all’estate, anziché un ricordo in memoria dei caduti della prima guerra mondiale.

Ha il suo fascino anche nella stagione invernale, come a febbraio di quest’anno, quando, ammantato di neve, si ergeva superbo, più bianco della neve, sul fondo grigio del cielo, fra alberi piegati dal manto nevoso e cespugli sepolti.

Ci giro attorno, non è ancora ora di rientrare. Scendo gli scalini che portano alla spiaggia, come ho fatto due ore fa, ma mi fermo alla prima rampa. Appoggio i gomiti sul muretto di pietra e aspetto paziente la luna. Il monumento e la scalinata, visti dal mare, sembrano una gigantesca aquila, è un effetto voluto dagli architetti. Io sono esattamente nella testa, ora.

La luna quando sale cambia gli odori: come se il mare fosse più selvaggio, le alghe più putride, l’aria più intrisa di sale.

Chiudo gli occhi e aspiro profondamente, è il mio odore, quello della mia vita.

Oltrepasso la pineta, da poco sistemata con panchine nuove, ghiaia pulita, aiuole curate, e raggiungo l’ascensore che svetta, nella sua architettura anni settanta, sulla spiaggia.

È ricoperto di enormi vetrate, perché prima, quando c’era solo una balaustra di ferro battuto, veniva scelto da chi questa vita non la voleva più.

Abbandono l’ascensore e continuo a camminare su un sentiero che costeggia la strada, per raggiungere un altro pezzo di quel Passetto che tanto amo: quasi a ridosso del porto c’è una piccola spiaggia, scogli dove ci si distende comodamente e una grotta naturale, chiamata “Azzurra” perché, inserita nella rupe calcarea, dà quell’incantevole colore al mare.

Mi affaccio alla staccionata di legno, non vedo quasi niente, è ora di andare a casa, lo so.

Torno sui miei passi, verso il Viale della Vittoria, raggiungo il secondo portone nella prima traversa, salgo dieci scalini e apro la porta di casa.

Nel corridoio d’entrata ci sono mensole, dove ho riposto i trofei con le coppe e le foto.

C’è anche uno specchio: è il regalo di un’amica ceramista, un’artista dotata; l’ha contornato di delfini, stelle marine, sirene, mostri mitologici. È grande e pesa un quintale, ho dovuto chiamare un muratore per metterlo in sede, ma ne è valsa la pena.

Lo guardo, scoprendo per l’ennesima volta che la campionessa di nuoto, la Donna Sirena, è una vecchia ormai.

Alle narici mi arrivano odori di mille caffè, pareti umide, naftalina in abiti da troppo tempo conservati, libri acquistati quarant’anni fa.

L’anziana allo specchio ha capelli di acciaio e occhi azzurri circondati di rughe, un fisico asciutto ma un po’ curvo, una bocca con gli angoli che puntano verso il basso.

Ho male alle ossa, male ai muscoli. Il tempo non è stato clemente con me, demolendo uno per uno tutti i miei punti di forza: il fisico, la caparbietà, la bellezza.

Domani starò peggio, la pagherò cara questa passeggiata. Oggi però, sono tornata indietro.

Ho sognato.