Memoria

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Ho perso la memoria. E credo che sia questa la causa di tutti i miei guai di adesso. È l’unica cosa su cui siamo d’accordo in famiglia. Quando faccio un gesto sbagliato e lascio cadere il pranzo in terra, mi sembra di non aver mai saputo come si avvicina un cucchiaio alla zuppa. Oppure quando mi mostrano una persona e mi chiedono di ricordare chi è, ho come un vuoto nella testa, roba da rimanere senza fiato. Riesco appena a farfugliare qualche verso strano e faccio colare un fiotto di saliva dall’angolo della bocca, senza articolare una parola. Loro li sento dire: «Non riesce ancora a fissare niente nella memoria», e mi guardano preoccupati.

Di ciò che ero non rimane più niente, a quanto pare. Dagli sguardi amorevoli di chi mi sta accanto – soprattutto quelli di Lei – capisco che la mia vita è stata meravigliosa. Ma adesso l’unica traccia rimasta è la sofferenza dei miei giorni. A volte vedo un tramonto che riempie il cielo di arancione, oltre la finestra del salotto, e mi sembra di ricordare. Tornano davanti ai miei occhi inseguimenti rocamboleschi e lunghe passeggiate tra i salici di un borgo marino, con una tazza di caffè americano in mano. Ero io o qualcun’altro mano nella mano con la ragazza giapponese? Poi la vista si annebbia e tutto scompare. Comincio ad arrabbiarmi, divento violento, urlo, cerco di spaccare gli oggetti che mi circondano. Senza riuscirci. Lo faccio perché voglio che intervenga Lei. E Lei interviene, col suo sguardo dolce e ansioso che mi avvolge e mi cura come un pastrano nella nebbia appiccicosa e umida di novembre. So che le mie sguaiatezze la feriscono, ma è il modo più rapido per averla subito da me. Quando sono violento mi sento in colpa, ma questa dinamica convulsa mi porta a ricordare qualcosa di quel rapporto che c’era tra noi due: frammenti che provengono da lontano e raccontano di quando ero parte di Lei, non solo un’ameba incapace di abbracciarla tutta per darle l’amore che merita e ricambiare la dolcezza del pastrano. Solo un soffio di memoria. E così piango ancora, anche se con meno violenza, tra le Sue braccia.

La maggior parte della mia giornata la passo con la badante. È una donna gentile, corpulenta, a cui piace sorridere spesso. Ma io la odio, perché quando c’è lei se ne vanno tutti quelli della mia famiglia: il fatto che abbiano deciso di affidarmi a un’estranea durante il giorno è uno dei motivi per cui non vado più d’accordo con loro. Oggi Lei, la mia dolcissima, esce di casa prima del solito e mi lascia solo con la badante. Ancora una volta, io divento un diavolo. Comincio ad urlare, cercando di spaccare vasi, sedie e il resto che trovo sulla mia strada. Ma per la badante è facile impedirmi di fare danni, le basta intervenire con quella sua aria paciosa e bloccarmi le braccia, indirizzandole su una specie di girello, un sostegno per rimanere in piedi. Sì, perché faccio fatica anche a camminare: da qualche tempo, piuttosto che arrischiare traversate pericolose da stanza a stanza, preferisco passare il tempo seduto con le gambe incrociate sul tappeto del salotto, oppure sopra quella sedia speciale che hanno messo per me al tavolo della cucina. Sempre meglio che affaticarmi in spostamenti diventati ormai superflui. Quando la tempesta si calma e le mie escandescenze hanno fine, Mary (così si chiama la badante) trova qualche minuto di pace. Non io, che resto chiuso in me, accoccolato sul divano tra rabbia e singhiozzi, senza avere più la forza di avventarmi contro gli oggetti.

Lei si mette a preparare il pranzo, mentre per me comincia una nuova battaglia silenziosa: cagare. Il rapporto con la merda, quella che devo espellere in continuazione, è uno degli aspetti più drammatici delle mie giornate. Comincio a pensarci ancora prima che il formicolio dello sfintere possa dare qualche avvisaglia al cervello. Sono secondi interminabili: riesco ad architettare un piano in tre mosse, mentre cerco di prevedere una scadenza verosimile degli eventi. So che deve accadere, succede dopo quelle sfuriate e appena prima dello yogurt alla banana delle 10: stavolta le condizioni ci sono entrambe, quindi non posso avere dubbi. Sono mentalmente preparato e in teoria ho tutto sotto controllo. Ma non riesco a raggiungere il bagno, come sempre. Ed è straziante la fatica che faccio nel tentativo di coordinare i tre movimenti contemporanei che sarebbero necessari a evitare il disastro: questi si sovrappongono e si ostacolano, per colpa mia, perché non sono in grado di dargli la giusta scansione temporale. Mi maledico e puntualmente rovescio il contenuto di vescica e intestino dentro quell’odioso pannolone che ormai mi accompagna notte e giorno. Non ricordo nemmeno più quando l’ho indossato per la prima volta, mi sembra di avercelo da sempre. Le urla di sofferenza richiamano Mary che mi accompagna per mano verso il culmine dell’umiliazione, quando sono costretto a mostrare il culo e le palle per consentirle di ripristinare un po’ di decenza.

Mando giù a canna lo yogurt tra lacrime di rabbia e dopo un’ora è già il momento del pranzo. Rimango folgorato dal bagliore delle posate messe in bella mostra accanto alle zucchine bollite. Il piatto è caldo e invitante, mi viene voglia di metterci la faccia dentro. Lo faccio e comincio a masticare le rondelle di zucchine che mi si appiccino ai bordi della bocca. Faccio schifo, lo so, e forse è per questo che esplodo in una risata che contagia anche quella cicciona di Mary, sempre allegra con il grembiule indosso. Dopo il pranzo, esausto, vago per la casa sbattendo tra muri e porte, in cerca di Lei. Voglio il suo letto caldo, voglio sentire se ha ancora il suo profumo: lo trovo, mi ci tuffo dentro, c’è ancora un odore intenso di mandorla. Mary mi lascia fare e io cado in un sonno profondo. Del mio passato oscuro, ormai, percepisco soltanto la stanchezza che si è infilata nelle ossa.

È pomeriggio. Riemergo da un vischioso villaggio merovingio dove ho sognato di compiere gesta meravigliose, tutte dimenticate, ennesimo frutto marcio dell’acquosa apnea del mio sonno. Per pochi secondi la porta della mia camera mi appare ancora ricoperta di palizzate e soldati pronti a scavalcarle. Invece sono le 15 e so bene cosa mi aspetta: la passeggiatina al parco. Parzialmente ristorato da quel lasso di tempo passato nell’aroma del Suo cuscino, provo a oppormi alle manovre di Mary che vuole incatenarmi a una specie di sedia a rotelle. Ovviamente vince lei e non riesco a trattenere le lacrime mentre l’ascensore scende i cinque piani che ci separano dal piano terra. Così, odorante di zucchine, merda e mandorle, vengo lasciato libero dalle catene solo quando raggiungiamo il parco, sotto un sole di granito che mi scoppia sulla faccia: intorno a noi l’ultimo giorno d’estate rende i bambini allegri ancora per un po’.

Quasi per ripicca, ora non voglio più alzarmi dalla sedia con le ruote: ma ho smesso di essere un problema per Mary che, dopo avermi sbrigliato, tira fuori lo smartphone dalla tasca e comincia a controllare gli aggiornamenti sui social network, indossando gli auricolari. Io rimango lì, seduto e imbronciato a guardare quattro vecchi che stanno sulle panchine di fronte. Mi guardano e ridacchiano, non capisco se per compassione o scherno. Mentre decido se odiare anche quegli incartapecoriti o no, un pallone da basket di quelli in plastica leggera rimbalza su di me. È un’occasione d’oro per testare le mie capacità motorie: ora che ho tra le mani quella palla, potrei provare a rilanciarla, o perché no, alzarmi e restituirla con un calcio ai brufolosi proprietari che stanno giocando pochi metri più in là. Un’impresa, ma posso farcela. È il mio momento. Passano solo pochi secondi che a me sembrano un’eternità: il più alto e puzzolente dei brufolosi mi raggiunge con tre balzi delle sue lunghe gambe secche e pelose e prima che io possa muovere un muscolo o dire qualcosa, mi ha già strappato la palla dalle mani, facendo una smorfia. Rimango senza forze, svuotato, immobile sulla sedia a rotelle. Non ho neanche la forza di piangere o protestare. Vedo che i vecchi a quel punto ridono apertamente e mi indicano.

Sono le 17, è passata più di un’ora dall’incidente della palla, e io sono ancora lì, imbambolato e prigioniero del mio corpo inutile. Forse sulla sedia a rotelle ho dormito un altro po’ (la notte scorsa è stata un incubo continuo in cui ho sognato i miei denti in frantumi che sgocciolavano dalla bocca e non riuscivo a riprenderli con le mani perché erano diventati liquidi). Mary si toglie le cuffiette con un colpo netto, le arrotola intorno al cellulare e si avvicina verso di me. Non incrocia il mio sguardo, mentre con tutta calma torna ad allacciarmi a quel carretto con le ruote. Sulla strada sconnessa del ritorno, le mie membra flosce sobbalzano a ogni buca e io le lascio andare, resto passivo, con le braccia abbandonate vicino al corpo e le ossa disarticolate.

Sono di nuovo a casa e dopo una cena leggera e senza intoppi, mi sento gaio come un uccello dal gozzo gonfio e arrossato: Lei sta tornando! Lo percepisco dal buio che filtra dalle finestre e dal fatto che Mary sistema tutto ciò che ha lasciato in disordine durante il giorno. Comincio a dimenarmi, vorrei parlare, pronunciare frasi di senso compiuto per esprimere la mia felicità, ma dalla bocca mi esce soltanto un suono sordo e maligno, un mugolio monotono filtrato dalla dentatura serrata. È un gemito sforzato perché faccio fatica anche solo ad emetterlo, quel verso orrido. Mi accorgo di quanta miseria ci sia in questi spasmi di una muscolatura compromessa e mi sale di nuovo la voglia di spaccare tutto.

Ma non c’è tempo. Sento le chiavi girare nella toppa e mi si scioglie qualcosa nel petto: è Lei. Quindi mi incasino ancora di più, rotolo sul tappeto, provo a inarcarmi, muovo un braccio, affondo col ventre sul tappeto, lascio che la parte inferiore del mio corpo si appoggi sul gonfiore del pannolone. E resto lì: bloccato a terra, in una posizione innaturale, crocifisso con il busto in torsione. Sta parlando con Mary, ma non riesco a capire cosa si stiano dicendo con precisione. Sembra comunque soddisfatta del resoconto della giornata. Immobilizzato, ascolto quindi il rumore dei suoi passi: sta per arrivare. Interrompo quel mugolio agghiacciante solo perché ho bisogno di respirare e di sentire.

Lo scalpiccio dei tacchi si ferma a pochi metri da me, ma la posizione in cui sono bloccato mi costringe con la testa girata dall’altra parte e mi impedisce di vedere l’entrata della stanza. Sento il Suo profumo che mi raggiunge quando sono al culmine della sofferenza. E la Sua voce, che mi rimprovera con infinita dolcezza: «Ma tu guarda se un bambino di due anni deve stare così! Forza, forza… tiriamoci su: domani è il tuo primo giorno d’asilo, non vorrai mica fare una brutta figura con la nuova maestra?».