L’escluso

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Se do uno sguardo all’indietro mi vedo correre dentro un cortile, nel nastro di catrame punteggiato dai pini immensi del quartiere Tiburtino, dove l’aria estiva passava tra i tronchi e i muri delle case con un gran risucchio.

Riesco a vedermi schizzare sui marciapiedi schiacciando lo spettrale calore d’agosto sull’asfalto, con la mia ossatura bellica e lo sguardo increspato, incantevole. L’occhio essenziale, senza paura, quello dell’età ardente in cui si crede che il momento massimo della vita ci stia ancora davanti e non già addosso.

A otto anni passavo i pomeriggi a passeggio per la borgata, sottomesso a passioni e linguaggi grevi, sparavo ai compagni di giochi con la canna dell’indice tesa e quelli si sdraiavano a terra stringendosi le budella. Morti, felici di farsi accoppare.

Sotto l’effetto della miseria cronica in cui vivevo commisi l’errore grossolano di lasciarmi crescere dentro la presunzione di una futura migrazione da ogni disgrazia. Ero certo che reclamare al mio destino un battimani futuro fosse, data la partenza, una richiesta plausibile, anziché un finale improbabile, un errore di scrittura.

Di fronte al mio presente asmatico, costruito sulle sottrazioni, la mia immaginazione andava alla ribalta certa di avere il colpo in canna, tirava fuori la lingua mirando al destino e gli faceva il verso, alleggeriva la tragedia.

Ero un vero disgraziato dalle incredibili pretese ma non ero poi questa forma di vita anomala. Ero come i giovani sciagurati di dovunque.

Quella vasta aspettativa non si traduceva però in nessun tipo di volontà, non mi sentivo in dovere di tentare nulla per raggiungere i miei desideri e quell’ansia di rivalsa restava un combustibile per i sogni e non per le azioni.

La mia più grande consolazione all’epoca era constatare di giorno in giorno che neppure a quelli che avevo attorno stava toccando ancora niente.

Avevo dodici anni l’anno in cui la vecchia affittuaria dell’appartamento accanto a quello in cui abitavo crepò, la sua casa restò vuota per alcune settimane poi venne riassegnata, e fu così che la famiglia Zevi traslocò nel mio palazzo.

Un pomeriggio, rincasando, trovai la loro roba che occupava l’intero androne. Erano tutte cose di poco conto, mobili perseguitati dalla miseria ma tenuti con cura come per una tenace rivalsa.

Un ragazzo stava fermo sulle scale a sorvegliare le sedie e altre specie di fagotti, mi salutò mentre passavo. Era Marco.

Tanti anni più tardi ricordo ancora la sua faccia di quel momento, la giovinezza chiusa come un passeggero nel vagone del suo sguardo. L’occhio sveglio, un libro ficcato in una tasca e le unghie nere e rotte. Mi parve, cogliendolo dal basso appollaiato su quello scalino di marmo, nella luce soffusa che il portone spalancato lasciava filtrare, un’immagine irreale e prodigiosa, fluttuante come tutti i futuri che avevo in testa, un’apparizione azzurra nel colore smorto delle scale.

I primi tempi ci scambiammo soltanto lievi cenni di saluto tra i corridoi della scuola, poi, avviliti dalla luce grigia dei lunghi mesi invernali, cominciammo a parlare da un balcone all’altro e scoprii che, secondo la collaudata regola popolare, anche lui aveva idee grandi per il suo futuro, molto più grandi delle mie. Si dedicava ai libri con furioso fervore pensando che, se alla sua vita fosse saltato in mente di raddrizzare quella prospettiva storta in cui era nato, quello studio sarebbe stato il suo atto di incoraggiamento.

Marco non scendeva spesso giù nel cortile. Quando io ero fuori a giocare con gli altri o a prendere a botte qualcuno, lo vedevo accucciato nel balcone a fissare la polvere delle nostre risse, l’ombra delle fortificazioni di quando ci si incaponiva a tirare su un capanno.

Si può dire che era uno di quelli che vivono gran parte della loro infanzia attraverso gli occhi, che sembrano avere una attenzione differente alle cose, quel tipo di persone che abbracciano la vita col pensiero per vocazione, conducono esistenze che somigliano ad un esercizio spirituale.

Io invece acchiappavo la mia vita per il collo, la stringevo tra le mani, la pestavo coi piedi, fraternizzavo con la materia.

Le poche volte che Marco si decideva a uscire di casa lo costringevamo a seguirci in qualche scorribanda. Per la maggior parte del tempo ai nostri programmi lui scuoteva la testa e credo che accettasse di venirci dietro solo per raccogliere un po’ di immagini dalla strada, roba che forse gli serviva a nutrire i suoi pomeriggi di solitudine.

Non stava molto simpatico a nessuno perché, malgrado fosse molto più in gamba di noi, e lo capivamo bene, ci è sempre sembrato come se gli mancasse qualcosa.

Certe volte è difficile capire quali aspetti ci rendono piacevoli gli altri. Per ignoranza e superbia, noi altri ci rassomigliavamo.

D’istinto, la sua superiorità morale, il suo linguaggio limpido, senza sozzure, ci insospettiva e, alla lunga, quest’aspetto della sua personalità ci fece montare una gran rabbia per la sua persona.

Quel che all’inizio fu una sensata indifferenza verso qualcuno che non capivamo fino in fondo, divenne con il passare dei mesi un ambiguo rancore che ci portò ad escluderlo dai nostri giochi e, alla fine, crebbe fino a divenire un risentimento tanto forte da costringerci a occuparci di lui.

Cominciammo a cospirare, a infliggergli miriadi di piccole mostruosità e quando lo coglievamo di lontano passare per la strada, schizzavamo da un cortile all’altro per raggiungerlo, agitati dal desiderio di tormentarlo.

Si trovava così accerchiato in una gabbia di risatine e insulti ronzanti, finché, e andava bene ogni pretesto, scoppiava sull’asfalto uno sfogo atroce di gole, una pioggia immonda di lingue, qualcosa che non era possibile imbavagliare con la floscia indulgenza che Marco vi opponeva.

Il ruolo che mi ero scelto in tutto questo era il più lurido perché spingevo maliziosamente gli altri a eccedere senza oltrepassare mai personalmente quel confine.

Non ero mai io quel qualcuno che, stanco della centesima replica della nostra vittima, lo mandava alla fine giù con una spinta, appagando il desiderio di tutti.

Io ero quello che guardava la scena da una certa distanza, osservava Marco impantanarsi nel crollo delle ginocchia, incassare il gusto dei suoi denti e crollare a terra col ventre sazio di violenze, stringendosi le budella, lui per davvero quasi morto.

Solo allora mi si vedeva accorrere e intervenire, spintonando via il gruppo di giovani aguzzini che si disperdeva lieto, animato dallo slancio emotivo per quella disinvolta brutalità.

Mi avvicinavo a lui, gettandomi a terra con decisione e ferendomi i ginocchi nudi, con l’impertinenza di volergli dimostrare l’impeto di quell’attenzione tardiva, e lui sollevava verso di me lo sguardo stordito dove aveva segnate tutte le sue umiliazioni, un elenco di confidenze che mi spingevo a sopportare.

Restavo accucciato al suo fianco provando una sorta di disprezzo per lui, una meschina ripugnanza e nascosto, ingannevole, un sentimento sconosciuto che non ero in grado di esaminare. Di contro, scoppiavo di vanità per il mio buon cuore.

Dopo un’intera primavera di tormenti, Marco sparì. Quando sollevavo lo sguardo impaziente dopo una corsa o alzavo le braccia in aria per celebrare qualche razza di vittoria, cercavo la sua forma nel balcone con l’anima divorata dal risentimento e mi balenava nell’animo una imprevista protesta per quel vuoto là in alto.

Una mattina, mentre ero steso sul balcone di casa a fissare le cime degli alberi muoversi lente, il corpo di Marco che si affacciava mi entrò nello sguardo. Portava una maglietta deforme e scucita sui bordi ma meravigliosamente bianca, immacolata, che gli sventolava sul torace appena gonfia di vento. Il sole alto la rendeva carismatica, abbagliante, le dava una sorta di sacralità.

Stetti un po’ a rimirare la candida frenesia di cotone stesa sul suo petto, finché mi decisi, mi alzai e appoggiai i gomiti alla ringhiera sporgendo bene la testa per mettermi in scena. E lui mi vide.

Spudorato e sboccato lo salutai e mi immersi nella smania di lasciargli comprendere che potevamo ancora parlare come negli anni passati. Le teste rosse dei gerani nei vasi mi danzavano attorno curiose di quella mia impertinenza.

Marco mi ascoltò per quell’impulso generoso che in lui era tenace, pulsante.

Il mondo non m’era mai parso così luccicante e ben disposto come quel giorno.

Con la testa sospesa sul vuoto mi cimentai in discorsi vaghi sulla musica che conoscevo tendendo l’orecchio alle sue risposte, famelico di vivere quel momento.

Dissi non so quante bugie sulla quantità dei libri che avevo letto per l’impiccio di volergli far credere che fossi chissà che intellettuale e intanto mi sporgevo dal muro caldo dell’affaccio, la tensione di far restare il busto più avanti che potevo.

Volevo che Marco potesse cogliere in quei discorsi una segreta affinità tra noi, una volontà orripilante rispetto a ciò che umanamente avrei meritato da lui.

Ascoltai assorto come per ogni mia sciocca osservazione lui avesse un’idea stravagante e piena di fascino e percepii, dolente, l’incompatibilità quasi organica dei nostri linguaggi. Il sole a picco illuminava l’agonia della mia autocoscienza.

Mi ritirai in casa vinto da una chiara angoscia e col braccio sfinito per il costante sforzo di sporgere dal davanzale per avvicinarmi a lui.

Negli anni a seguire ebbi altre occasioni di rivederlo ma mai nessun’altra di parlargli come quel giorno.

Intanto avevo compiuto quattordici anni e con gran sgomento della mia famiglia avevo scelto gli studi classici esordendo con un quattro in latino. Non migliorai col tempo e il mio esame di maturità fu, come per molti altri, la liberazione da un incubo.

Una mattina, tornando da una lezione del primo anno alla facoltà di lettere a cui mi ero scritto per sfacciataggine viscerale, fui colto da una pioggia autunnale improvvisa che frusciava liscia sulla pietra delle panchine e rendeva disabitati i cortili.

Cercai riparo correndo veloce sotto la tettoia del portone e scorsi Marco nel giardino interno del palazzo, steso da un agguato a sorpresa, ansimante, sprofondato nel prato vischioso di fanghiglia.

La pioggia gli cadeva addosso dritta, quasi avesse a cuore di mantenere una rigida disciplina al suo cospetto.

Osservai quel corpo disteso catturando l’immagine immediata di una bellezza senza limite.

Quando gli fui vicino lui si scoprì la fronte e venne fuori il taglio profondo, la ferocia cruda della bombatura rossastra alla tempia.

Mi guardò inclinando la testa di lato, gli occhi di un azzurro così intenso. Con occhi del genere si dovrebbe essere per natura invulnerabili, diventare immortali.

Gli tesi una mano impaziente che la sua mi arrivasse addosso ma lui piantò i palmi nell’erba e si mise seduto strusciando sulla schiena. Nella pozzanghera gonfia, il suo corpo spostandosi generò una piccola onda. Restò così, immobile e muto a ignorare la mia mano ancora tesa. La fissava senza guardarla.

«E piantala! Non t’hanno mica ammazzato!», gli dissi spinto dal suo disprezzo.

«A farlo tutto in una volta non hanno coraggio. Un pezzetto alla volta, sì.»

E fu lì, nel suono del suo corpo che si sollevava dall’acqua, senza voce, senza linguaggi, che il tempo della mia giovinezza s’annullò.

Guardai Marco scivolare nel portone, le spalle severe, indolenzite, gonfie di pioggia e di terra.

L’immagine della sua schiena che si allontanava mi parve allo stesso tempo crudele e grandiosa, seducente e straziante nella sua verità immediata, aveva in sé quel qualcosa di eterno che hanno sempre le prove umane più coinvolgenti, perché gli istanti di esistenza più pieni, belli o brutti che siano, si somigliano tutti in qualche cosa.

Mi accorsi, nella solennità di quel momento, che il dislivello metrico tra le nostre due umanità rendeva la sua statura di ragazzo vera poesia e la mia un balbettio puerile, una lallazione esile che delle immense fattezze di Marco non poteva essere nemmeno uno spunto vago.

Da uomo, oggi, non so più se scomodare le mie misere velleità di partenza per giustificare gli anni che ho buttato, giorni sterili dall’andatura inoffensiva in cui non speravo più nulla. Stagioni senza la vanità del torso largo che immaginavo avrebbero posseduto.

La mia esistenza è scarna degli aspetti grandiosi che il bambino che fui credeva indiscussi e quando torno con la mente ai ricordi passati per assassinare quella spensieratezza di scemenze finisce che invece, a rimandare certi episodi a memoria, mi lascio uccidere. Un pezzo alla volta.

Il tempo che ho soggettivato interiorizzandolo è diverso dal flusso continuo della storia, non scorre fluido ma alterna fatali decomposizioni di giorni dimenticati a reminiscenze eterne.

E mi resiste nel pensiero più di tutti quell’istante dilatato, l’esemplare momento in cui la pioggia cade dritta nel cortile finché un corpo di ragazzo, vero presente, col sangue che gli scorre sul viso lì dove l’hanno colpito, non spezza il ritmo dell’acqua attraversando il giardino. Resistono quelle spalle curve che scivolano nel portone del palazzo e spariscono ingoiate dal buio delle scale.

E ad ogni rimpatrio a quell’odiosa memoria capisco che l’unica cosa possibile per me, oggi come allora, è continuare a guardare quel ragazzo allontanarsi e morire di vergogna.

O d’amore.