Innocenti manomissioni

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  1. Agosto 1943-Aprile 1947. Lidia me la ricordo appesa a un ramo di ciliegio, spavalda nella caligine d’Agosto. La nostra pelle era fresca d’anni, calda l’ora. Masticava un pugno di frutti sfatti con l’ingordigia delle bestie giovani, incurante del succo che, dal mento, scivolava fino al solco dei seni, tatuandole in petto un cuore deforme.

Quella me la sposo, pensai, a dispetto dell’età verde e dei suoi fragili sogni.

Quella me la sposo.

Arrivava dalla città, sfollata come tanti; scarpe consumate dalla polvere della fuga e, nello sguardo, la fierezza estenuata di chi ha visto sgretolarsi un mondo, ma è rimasto in piedi.

Ad accompagnarla, una sorella grande, monacale nei suoi silenzi assoluti. La madre era bruciata a San Lorenzo, scoprimmo poi. Il padre l’avevano fucilato per un chilo di carne.

Lidia guardava avanti e dipingeva, sola, un futuro senza macerie e senza memoria.

Intriso della retorica sdolcinata di poesie e canzonette, scoprivo allora che non tutte le donne sono fragili come margherite o rose capricciose. Lidia somigliava piuttosto a una di quelle palle spinose che fioriscono a tradimento, per puro spirito di contraddizione. Cominciai a corteggiarla un anno dopo il nostro primo incontro, scomodo nel vestito buono della messa quanto nei riti dell’imbalsamata educazione di provincia.

Non sapevo parlare d’amore, se non per luoghi comuni, e forse mi salvò proprio la verginità della lingua, perché nell’esasperazione dell’ennesimo rifiuto, inventai.

La fermai una domenica, davanti alla parrocchia del Santissimo Crocifisso. Dalle finestre spalancate, Oscar Carboni intonava il tango struggente dell’amore perduto, lacrimando il mare d’occhi che non aveva visto mai, ma io sì e osai confessarlo.

M’hai fatto annegare il cuore, Lilla.

Lidia teneva il capo coperto come si usava allora davanti al prete, eppure non c’era modestia in lei, né paura. Rideva forte, accanto a un’amica non brutta, ma scolorita com’erano, all’improvviso, tutte le femmine del paese.

«Cuore, cuore, cuore!» sibilò sprezzante, le palpebre socchiuse, l’iride torbida di una privata tempesta. «Non te l’ha raccontato, mammina, che i cuori si rovesciano, bruciano, mettono la coda?»

Tutti videro. Ascoltarono. Risero.

Umiliato fissai il selciato per sfuggire allo schiaffo di uno sguardo trasparente e ferocissimo. Passava un rospetto, uno di quelli piccoli e rossastri, persino graziosi. Lo raccolsi e glielo lanciai, colpendola al seno. La sorpresa le fece ingoiare la lingua.

«Anche i girini perdono la coda!» urlai.

Non aveva alcun senso. Ne aveva troppi.

 Il nero sbiadisce, un cuore può raddrizzarsi, l’amaro scivolare via.

 Difficile immaginare un messaggio più sgangherato di quello, ma Lidia lo colse comunque: baciò il rospo. Baciò me.

Ci sposammo d’Aprile, alla fine di un tempo di ruggine, morte, fame. Come nel giorno del nostro primo incontro, camminavo con le scarpe in mano, alle spalle la polvere esausta di un pomeriggio già in agonia. Non era un lieto fine, perché la scommessa di un futuro a due nasceva allora e non sarebbe stata sempre felice.

  1. Dicembre 1956-Giugno 1960. Lidia confondeva l’affetto con il dispetto. Avrei dovuto pensarci prima, da come masticava ciliegie troppo mature quasi stesse sbranando cuori. La volevo mia, ma non sopportava i possessivi. Ogni giorno inventava piccole, insolenti manomissioni: assenze impreviste, calzini spaiati, la sigaretta abbandonata là dove sapeva che l’avrei vista – e gliene avrei chiesto il conto.

«Perché fai così?» le chiedevo. Mai una risposta. A volte un cenno stento del capo, una stretta di spalle, un’occhiata delle sue.

Perché sono così, dicevano gli occhi chiari, da ragazzina persino quando a incorniciarli sarebbe arrivata la ragnatela del tempo.

Sei tu che mi hai voluta.

Ho sognato di punirla mille volte per quella libertà oltraggiosa, indossata come un profumo sulla pelle nuda. Sorprende, forse, il fatto che sia poi capitato quasi per caso, e il rimorso abbia avvelenato un piacere modestissimo.

 

Lei era la segretaria d’un collega. Non mi attraeva, ma sorrideva con la gentilezza delle donne docili: io avevo sposato una lupa. Non andammo oltre un paio d’incontri deludenti per entrambi, tuttavia Lidia se ne accorse dall’odore di buio e colpa incollato ai baci del buongiorno.

Non ne fece mai parola: il suo castigo fu un silenzio torbido, accompagnato a uno sguardo che non le apparteneva e mi rese odiosa la stupidità con cui l’avevo provocato.

Mi compativa, Lidia. Aveva vergogna della vergogna mia. Della debolezza del suo uomo.

Prese a stirarmi le camicie con furia geometrica, ad apparecchiare di bianco ogni sera, ad accoppiare i calzini secondo il paio originale e non l’estro del momento. Pretese che guardassi con i suoi occhi il mondo che le avevo imposto, e cogliessi l’ipocrisia di una simmetria immacolata, ma vuota.

Il disordine costante, i dispettosi sabotaggi apparvero, allora, per quello ch’erano stati davvero: una lettera d’amore.

Guardami guardami guardami perché sono ogni giorno diversa. Perché non avvizzisco, non brucio, non metto la coda.

Io l’avevo trasformata nella donna di picche. Io, proprio io.

Ci vollero tre anni per recuperarne la fiducia. Tre anni e una cesta di ciliegie.

Gliele feci trovare sulla tavola, un giugno dalla vampa precoce. Lidia se ne ornò le orecchie, le dita, la bocca. Da ultimo iniziò a masticarle senza grazia, quasi avesse di nuovo quindici anni e la fame rabbiosa dei profughi.

Seppi d’esser stato perdonato quando un nocciolo mi colpì in mezzo agli occhi.

«Preso!» disse: e rise. Preso, sì. Di nuovo.

  1. Settembre 2007-Maggio 2017. Quando sparì la pipa e trovai gli occhiali in frigo, recitai senza convinzione l’irritazione che non provavo. Mi sembrava rassicurante, piuttosto, immaginare d’avere al fianco una donna in grado d’invecchiare senza essere adulta mai: gli anni l’avevano ingobbita, scolpita, levigata, ma non le avevano tolto l’allegria, né la voglia di giocare.

Poi le uova finirono nel cassetto della biancheria; i croccantini del gatto, nel cestello della lavatrice. Le innocenti manomissioni che avevano segnato il nostro stare insieme, la grammatica amorosa di una scimmia e di un bisbetico, furono, d’un tratto, solo quello: imperfezioni. Inopportune. Sbagliate.

Gliene chiesi il conto. Ricevetti, in risposta, una smorfia dalla rabbia inedita, quasi le mie parole fossero un nuovo tradimento.

Pensi che sia vecchia? Pensi che sia matta?

Penso che non sei più tu, mormoravo a me stesso. La verità e una menzogna insieme.

Cominciai a seguirla, custode e carceriere insieme; a coltivare il seme di un risentimento che aveva radici antiche, forse, ma motivi nuovi.

Perché fingeva d’ignorare il mio bisogno d’ordine? Perché negava il caos in cui, da un giorno all’altro, eravamo precipitati?

Solo che non fingeva. Solo che non era accaduto da un giorno all’altro, piuttosto negli interstizi dell’abitudine.

Arrivò la diagnosi e condannò me, ché lei era già impegnata a rincorrere mille domande ansiose.

Dove andiamo? Chi è? Chi sei tu?

Dell’amore pensavo di poter sopportare tutto: i cuori della passione, i quadri dell’abitudine, i fiori della pazienza, gli infiniti due di picche della quotidiana insofferenza. Non mi aspettavo, invece, il jolly spietato di una malattia più vorace di lei: ogni giorno un morso di noi. Fino al niente.

  1. Estate 2018. Ho comprato un cesto di ciliegie. Non somigliano a quelle di allora, lucide e sugose di un’estate irripetibile, o forse è lei che manca, a renderne indimenticabile il rosso. Le ho disposte con cura, al centro della tavola, perché gli anni passano senza che la simmetria smetta di attrarmi. Lidia non c’è più, restano gesti scolpiti dalla pratica, rassicuranti.

Un piccolo frutto continua a rotolare oltre il bordo del piatto, instabile a dispetto dei miei sforzi.

Allora ci sei, penso: e mastico una ciliegia incolore con la sua bocca piena di nostalgia.