– «È una scala», rispose Mezzo ad una domanda che per una volta gli era parsa semplice.
– «No, non è una scala», disse l’altro. – «È un gradino inutile e tu sei uno scemo. »
L’uomo era in piedi, alto e contro il sole, tanto che Mezzo poteva vederne la sagoma ritagliata nella luce calda di quell’agosto. Era vero, in tutto quel tempo aveva completato solo un gradino. Però ben fatto, solido sugli appoggi, sarebbe durato a lungo.
Che fosse uno scemo, poi, poteva essere vero anche questo, dato che era il parere di tutti. Anzi, era quasi un nome, confermato dal dottore che in lingua francese, dato che aveva studiato alla Salpêtrière, lo chiamava “l’idiot”.
La tecnica era semplice. Cercava nel bosco i sassi più grossi, meglio se a spigoli vivi. Li affondava poi nella terra lavorando di zappa, lasciando verso l’alto le facce piane, su cui poggiare ad incastro due lastre. E intorno, a rinforzo, piantava pietre come spuntoni, a gran colpi di mazzuolo. Era un lavoro di fatica, perché il materiale lo trovava nei dintorni. Tornava con pietre troppo grosse per lui, che teneva all’altezza del petto e perfino del ventre, incurvandosi per poggiarsele addosso quando le braccia non gli bastavano.
Allampanato, stretto di spalle, terminava con una minuscola testa di bambino invecchiato e non cresciuto. – «La morphologie de l’idiot», chiosava il dottore incantando un po’ tutti e completando la sua elencazione: – «Microcéphalie, insuffisance constitutionnelle, débilité motrice et arriération mentale», dissertava con un malcelato imbarazzo proprio per la sua somiglianza fisica con i segni che descriveva.
Mezzo tornava dopo il tramonto, ad orari disparati perché smetteva col lavoro della scala quando si sentiva troppo stanco per continuare – non conosceva le ore; confrontava la sua stanchezza con quella del giorno prima, che però gli appariva troppo lontana per servirgli come paragone, e rimaneva indeciso. Il suo pensiero si confondeva spesso, e le idee gli arrivavano in testa come una filastrocca recitata troppo in fretta, con le parole l’una sull’altra in un precipitare senza senso.
Si sedeva allora sull’ultimo gradino, dato che aveva proseguito e l’aspetto era in effetti quello di una scala. Non sapeva contare oltre una mano, ma i giorni di lavoro erano lì in fila. Col respiro beveva l’umidità delle nuvole in alto, i cristalli della brina e i grandi sorsi del fiume, perché un fiume intero sentiva inondargli pancia e polmoni, unendosi al sangue. In fondo, la saldezza dei gradini era anche sua, ma questo non arrivava a pensarlo. Ritrovava lo spigolo dei sassi nelle sue spalle ossute, e questo gli bastava, insieme alla terra smossa e brunita che aveva sotto le scarpe e le unghie, e che gli ombreggiava le mani.
I gradini percorrevano ormai tutto il prato sopra i vigneti, con una linea sghemba che aveva allungato la distanza costringendolo ad un lavoro maggiore.
– «Sei andato storto», gli disse quello che tornava a casa passando di lì tutte le sere e lo trovava sempre un po’ più in alto.
Mezzo si fermava allora a guardare il percorso curvo della scala, come una falce enorme che si distendeva sull’erba prima di tagliarla. E se ne stava lì in piedi, seguendo con gli occhi un’incurvatura che con l’oscurità, una volta calato il sole, poteva essere il riflesso della mezzaluna.
Quando arrivò alla linea del bosco, così netta come l’attaccatura dei suoi capelli sulla fronte, tutto fu più difficile, perché gli strati di soffice torba non legavano bene i gradini al suolo. Mezzo doveva scavare più in profondità, incontrando le radici attorno a cui costruiva le basi di pietra. Cercava i sassi sotto gli aghi di pino, tirandoli fuori con le dita da un viluppo di muschio, ragnatele e licheni. Porosi, anneriti su un lato, brillanti e smeraldini, forti da contrastare il tempo, pesanti da portare solo in basso, stabili, taglienti o tondi, i pietroni gli stavano sul petto smunto nella sua posa da insetto trasportatore.
Lui si muoveva di tendini e ossa, di minuscole zampe: dorifora, scarabeo, maggiolino quieto ed eterno ad ogni stagione. Si accollava più peso di una formica, arava la terra come il grillotalpa e il bosco era il suo cantiere e magazzino, polmone, serbatoio, riserva da locusta.
Scrocchiava le foglie di castagno o vi si infilava sotto al riparo dalle grosse gocce dopo i tuoni, quando una nuvola di fuoco e fuliggine portava un inferno notturno ad oscurare il sole. E bagnato, più consumato ancora, appena partorito nei liquidi e nella sua testa da neonato, nei suoi pensieri di sogno annebbiato, nei capelli indistinti che come una calotta tamponavano la trasparenza del cranio e tenevano strette cellule cerebrali, meningi e innocenza, sbucava dalle foglie al termine dei temporali insieme al ricordo dell’ultima pietra vista e non presa ancora.
La scala era una serpentina fra i tronchi, un giro contorto di spire e di anelli incrociati, saldati tra loro. Aveva le curve della chiocciola, quando Mezzo disegnava spirali con le dita nell’aria, seguendone le volute, ed era un tappeto di velluto dentro la selva, srotolato in svolazzi e scarabocchi. Ogni gradino era un tempio di colonne in salti rampanti, fughe di plinti e di archi, di guglie.
Tornava in paese sempre più tardi, la sera, avvolto dal buio e sicuro nel suo percorso. La notte era meno inquietante nella foresta, da quando quel nastro d’argento portava memoria al labirinto e donava al ritorno la semplicità di un tragitto domestico.
“Come una casa”, pensava Mezzo immaginando il suo letto al termine della scala. Il suo era un viaggio nelle distanze, nel modo di percepirle. Si serravano mondi lontani, stringendosi appresso.
E aveva un ondeggiare da magro giunco, inadatto a molte cose. Forte come un refolo e una farfalla, i rami più sottili lo potevano incidere come la cera, sciolto anche lui nei legamenti. Pupazzo secco di linfa e travolto dai brividi, Mezzo acquistava vita mentre scendeva lungo i gradini e uno spirito tropicale gli entrava sotto la pelle, tenendolo al caldo.
Arrivava tra le case di notte, etereo, goffo e leggero, sbiancato dalla luna e dalle giornate senza cibo né acqua, appena visto da qualche sguardo tra gli scuri. E si infilava in un sonno deserto, spopolato di sogni e di persone. Il vero sogno, lui, lo viveva di giorno, dentro l’estasi febbrile che lo faceva scattare al primo albeggio, avanti le campane.
Nessuno avrebbe potuto fermarlo né rallentarlo, quando con un incedere di passi lunghissimi e gli occhi aperti sul ricordo delle ultime pietre posate, estingueva gli altri sensi. Cieco, sordo ai richiami, farfugliando qualcosa che poteva sembrare una preghiera sommessa, raggiungeva il prato su cui biancheggiava il primo scalino. E poi su, oscillando la testa in un movimento da pendolo, oltre il prato e nel bosco di pini, su fino ai castagni, ai larici e a quel diradare di piante che portava agli alpeggi.
Il tempo era stato lungo, poi eterno, ingannevole e incerto. Mezzo era entrato in un fluire lento e incalzante come un moto ondoso, vasto più delle sue giornate e più della sua vita da quando se la poteva ricordare. C’erano brevi scoppi di istanti, poi mesi interi. C’era la ricerca di un sasso, vagando tra gli alberi, che durava giorni, e la sua posa stava su un arco immaginario di gesti, quando se lo rigirava tra le mani, e su incastri perfetti e millenari. La scala cresceva nelle stagioni.
Qualcuno gli aveva portato del cibo, specie una vecchia che aveva lontane ormai le ombre dei figli. Trovarlo era facile, raggiunto sul suo percorso come in una scia o una lunga coda che non conduceva che a lui. Gli si vedeva il cibo scendergli in gola in trasparenza come nella digestione di uno scarnito serpente.
Altri invece gli stettero più distanti, sorpresi dalla sua alacrità furiosa e senza soste e temendo che quella forza insospettabile si potesse orientare altrove, sregolata e dannosa. Altri ancora videro un inganno, una specie di astuzia primitiva per uno scopo oscuro, discutendo di ciò con il maestro della scuola che in quel percorso d’ascensione trovava invece un’elevazione al cielo.
In paese se ne parlava. Si trattava però di un’attenzione incostante, volubile e incerta, legata ai vortici di una polvere vacua che si aggregava un momento proiettando al suolo un’ombra transitoria. Così era la gente, fatta di istanti e spinta da un vento breve, subito spento e tuttavia interminabile nei suoi cicli da pipistrello. Ma lui non se ne curava.
Mezzo era ormai oltre il bosco e la sua scala solcava ora i prati più alti, ai bordi delle rocce che gli offrivano un materiale sbrecciato. Pietre logorate dal freddo e dal sole, si rompevano in scaglie.
Aveva le dita piene di tagli. Anche le braccia, perché portava i sassi più grandi abbracciandoli quando i polsi e le mani non reggevano. E i vestiti erano consumati, estenuati, svigoriti e color polvere di sasso, lisi come la pelle, striati dalle vene sottili di Mezzo e sbiancati e candidi come i pensieri. Logori negli anni che attraversava.
Nella fatica aveva acquistato altra secchezza. Sparuto, emaciato, ritto a meridiana, pareva evanescente quando il sole più alto lo rendeva incorporeo a confronto con la nitidezza del mondo, ma netta la sua ombra al suolo.
Smozzicava ancora parole, uscite da polmoni come noci, asfittici per l’aria di montagna. Parlava per sé e si teneva compagnia, abbinando brandelli di frasi con gesti e posture. Esclamava e balbettava sommessamente, da non disturbare nessuno. Ma attorno aveva soltanto il ronzio delle api.
Da lassù la valle era piccola e lontana, con il paese minuscolo come un grumo di tetti d’ardesia. Il filo di Mezzo si snodava dall’alto, seguiva le curve dei prati, le balze, passava tra i primi alberi tuffandosi poi nel folto del bosco, ricomparendo più in basso come un graffio sulla terra.
Non si sapeva di quanto volesse salire ancora, ma i gradini non smettevano di comporsi uno appresso all’altro fino al tramonto. E neppure la direzione indicava una meta soltanto, poiché l’alternanza delle curve impresse alla scala spostava le traiettorie anno dopo anno. Poteva condurre ovunque, nonostante un disegno trasparisse nello sguardo di Mezzo quando si piazzava sull’ultimo gradino e come un gallo protendeva in avanti un becco serio e indagatore.
C’era un progetto, un’opera immortale nascosta nelle grinze attorno agli occhi, nei capelli inchiodati alla testa, diritti a pennacchio, ormai canuti e sparigliati sopra i pensieri da bambino irrisolto, interminabile nel mistero di quell’infanzia protratta per sempre. C’era un’idea in quel lavoro costante, nei mille inverni, nelle sue scapole ossute che spingevano come ali dall’interno della camicia, nei gomiti a punta e nelle ginocchia tremule per lo sforzo. E una fantasia liberatoria, svincolata, affrancata dal sudore e dalla fatica, quando l’armonia dei passi, provando le pedate a gruppi di quattro, gli imprimeva un sorriso terso e azzurrino, riflesso del cielo.
Mezzo preferiva i numeri pari: gli davano il senso di completezza, di chiusura di un ciclo, confortandolo e incoraggiandolo quando la solitudine gli si presentava davanti e a lui si bloccava il respiro perché non la riconosceva mai in tempo. Così era per molte cose, poiché Mezzo non conservava le esperienze dentro di sé e tutto era inaspettato, un morso di dolore e spavento.
Anche la gente gli era oscura. Non capiva le parole, non tutte almeno, e il gesticolare delle mani degli altri lo confondeva poiché guardare e ascoltare insieme non gli veniva facile. Era come se ogni volta incontrasse gli uomini come si incontra una specie parallela, simile e insieme inaccessibile perché di un’altra epoca, fatta di un’altra materia.
Per questo, quando l’ombra dell’uomo gli si presentò anche lì in alto, ed era la solita, sobbalzò un poco, arretrando sulle ginocchia. Stava riportando la terra con le mani attorno al gradino, dopo averlo sistemato.
L’uomo lo sovrastava.
– «C’è un motivo se ti chiamano mezzo cervello», disse. La sua voce tuonava.
E quando lo colpì con il bastone diritto sulla fronte, Mezzo aveva ancora la sorpresa negli occhi, perché il suo tempo interno era regolato su una velocità differente e rimaneva spesso indietro.
Così, al secondo fendente il sangue sprizzò inconsapevole e muto, senza una ragione compresa. E una causa vera non c’era, dato che Mezzo non sapeva nulla delle pietre di confine che aveva tolto ai campi dell’uomo, sradicandole. Avevano angoli perfetti e lui aveva raccolto quel tesoro come un’offerta della fortuna, incastonando i gioielli nella sua collana.
All’uomo era montata la rabbia ad ogni passo, salendo fin là, ma frenò gli altri colpi che si era ripromesso di assestargli. Quando capì che Mezzo prendeva le bastonate senza ripararsi, gli si accese un disagio che non riuscì però a mutarsi in vergogna.
Mezzo pareva fatto di paglia, mentre si accasciava. Pareva una maschera inadatta, arrangiata su un’espressione incerta che non comunicava granché se non un semplice sonno. E infatti si addormentò come un bimbo su un fianco. La sua testa era fragile, era una clessidra di sabbia e lo scorrere dei granelli richiedeva attenzione perché non si incastrassero nelle strettoie dei pensieri. Era fatta di liquidi in pozze, sistemate negli anni in un modo precario, pronte a scombinarsi e a mescolarsi tra loro.
Mezzo fece un lungo e buio sonno, durante il quale il suo corpo di lucertola si rattrappì per il freddo e le mani si chiusero a pugno, vuote.
Gli passarono sopra, a ondate, i suoi passi insicuri, le scarpe e i vestiti senza forma. Volarono via le angosce delle notti lunghe, gli incubi di giorno e gli schiaffi del vento che gli tappava la bocca aperta e sbigottita. Se ne andò la meraviglia dei cento colori, quelli che lui – lo aveva giurato – contava in ogni spicchio del prato. Si disperse l’intreccio dell’alveare, il miele sulle mani e l’attesa che il gusto gli si espandesse in bocca, i piedi nudi sull’erba e i buchi della talpa che aspettava sempre, d’estate. Tutto rotolò via in fretta, così rapidamente che gli si allontanava quasi evaporando dalla pelle.
Quando si risvegliò, molto tempo dopo, era diverso. Più asciutto, più magro e ondeggiante, la sua testa di cristallo aveva una fessura in cui si infilavano disordine e sporcizia. E quando si alzò, rigido spettro, e riprese a camminare, le ginocchia non sapevano dove girarsi, gli occhi opachi trafitti dalla crepa irreparabile del cranio.
Dietro la sua pelle essiccata scorreva una linfa più lenta, svagata e persa. Perse erano le pietre nel bosco, non viste, e quelle dei gradini che non ritrovò, smarrito com’era in un vago, immemore presente, incerto nel cammino.
Il suo vagabondaggio durò una vita, e fu per sempre un moto circolare e silenzioso, senza scopo né tempo – ché il suo tempo era finito – di cui nessuno si occupò più. La scala si confuse col terreno, con l’erba e le piante attorno, con il muschio e le foglie del bosco, gonfiandosi come una vena nel suolo. E fu sepolta e indistinta di notte, ignota al sole e alle leggende nei secoli vuoti a venire, e più nessun mattino.