Il sogno di Miguel

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“Io sentii una voce che veniva giù dal fondo stretto del pozzo, come da un utero infernale, e poi di là vidi spuntare una creatura senza volto, una maschera di sudore, di sangue e polvere. E quella mi disse: «Dovunque vai, parla pure di questi tormenti, parla, fratello, del tuo fratello che vive là sotto, nell’inferno.»”                                                                                 (Pablo Neruda, Canto Generale)  

Sprofondato nelle viscere della terra, Miguel rivolgeva al Diablo le sue preghiere.

Trentadue anni, in miniera dall’età di quindici, era nato in un villaggio arroccato sulle pendici grigie delle Ande peruviane, un misero agglomerato di case di pietra e lamiere, macerie e strade sterrate, la cui precaria sussistenza era legata all’estrazione del tungsteno.

Ogni mattina, prima dell’alba, Miguel percorreva i cunicoli della miniera. Camminava più di due ore per raggiungere il filone di minerale che aveva preso a lavorare quattro anni prima, riuscendo da allora ad avanzare di venti metri: venti metri in quattro anni di fatica. Che lo avevano logorato, sfibrato, fatto invecchiare precocemente.

Per dieci ore al giorno la punta del suo scalpello intaccava la roccia. La mano destra sollevava il martello e vibrava il colpo, la cui eco sorda rimbalzava fra le pareti delle gallerie sotterranee.

A ogni colpo, per un numero infinito di volte, la roccia cedeva all’uomo pochi millimetri: un frammento impuro di tungsteno affiorava alla luce e saltava via con il colpo successivo.

Girava voce che il minerale si stesse esaurendo, che il filone fosse agli sgoccioli e la Compagnia straniera in procinto di abbandonare la miniera. Se questo fosse avvenuto, sarebbe stata la fame per i minatori e le loro famiglie. Ma Miguel non lo credeva.

Per lui il minerale non poteva finire. Non sarebbe finito mai. Troppo tempo gli ci era voluto per avanzare di quel breve tratto, venti metri. Gli uomini sì, quelli sarebbero finiti, ad uno ad uno divorati dalla miniera com’era già accaduto a suo padre e a suo cognato, sepolti vivi da una frana.

Gli uomini non ce la potevano fare perché una, cento, mille vite non sarebbero bastate ad aver ragione di quell’incommensurabile vastità di materia infernale, venata di tungsteno, che era la base delle Ande. Le vette delle montagne, che pur si arrampicavano in cielo per migliaia di metri, non erano nulla rispetto all’enormità del loro substrato. Non erano nulla rispetto a quel mondo buio e terribile che era il regno del diavolo, e che gli uomini avevano osato sfidare.

Se la Compagnia abbandonava il campo non era certo perché il minerale stava finendo. Se la Compagnia lasciava era per paura e per riflessione, perché aveva capito che le forze demoniache della terra pian piano l’avrebbero schiacciata, e tutti i suoi soldi e i macchinari e gli uomini non l’avrebbero salvata. Sarebbe morta soffocata, uccisa dai gas come Ricardo e José, Fernardo, Jorge, Raúl; fatta a pezzi come René e Vicente, dilaniati dall’esplosivo; oppure schiacciata dalle frane com’era accaduto ai suoi familiari, e a Félix, Octavio, Augusto e a tanti altri ancora.

Ma che nessuno andasse a raccontare a Miguel che la terra aveva esaurito la sua ricchezza, che si era lasciata strappar via dalle deboli mani degli uomini tutto il suo tesoro, e che dunque non c’era più motivo di perforarla. Perché ciò significava che la Compagnia aveva vinto, e lui sapeva che questa era una cosa assolutamente impossibile.

Non c’era vittoria, che si potesse sperare, se non quella di conservare la propria vita andandosene via e accontentandosi del bottino raccolto, che già era costato tante vite umane. Forse la Compagnia l’aveva finalmente capito…

Forse l’avevano capito tutti, pensava Miguel, gli occhi sbarrati contro la roccia rossiccia, bruna come il colore della sua pelle.

Picchiava duro con martello e scalpello, rivoli di sudore gli colavano sulle tempie a dispetto del freddo, la luce da testa gli oscillava in fronte a ogni colpo. Fumo usciva dalla sua bocca, mentre masticava e rigirava continuamente fra i denti un tritume di foglie di coca.

Pensava al suo sogno, trovare lavoro in un cantiere, trasferirsi con la famiglia in città. Pensava al suo sogno, Miguel, e rivedeva invece le vecchie case del villaggio, sua moglie Lara che pelava patate, la pentola dell’acqua messa a bollire sul fornello, la televisione in un angolo, immagini religiose sui muri scrostati, una lampadina che pendeva dal soffitto, materassi e coperte sparsi dove dormivano i bambini…

L’effetto della droga gli faceva sbarrare gli occhi arrossati. Faceva fatica a respirare. Aveva l’affanno, il viso lucido di fatica e ringhiava, ora, ogni volta che colpiva. Dall’impasto verde che stringeva tra i denti un rigagnolo di saliva gli colava sul fazzoletto rosso intorno al collo. Di tanto in tanto sputava, ficcava le dita in un sacchetto e s’infilava in bocca altre foglie.

Quando aveva iniziato a lavorare, ed era un ragazzo, pensava che la coca non gli servisse, che avrebbe potuto farcela anche senza. Ormai ne consumava un chilo a settimana. Masticava foglie di coca e beveva alcol a novanta gradi come unici rimedi contro la paura e la fatica.

Lavorava da solo senza guanti, con le mani deformate e la faccia stravolta. Infieriva sulla roccia come se ogni attacco fosse l’ultimo, e invece era soltanto l’ennesimo di una successione infinita. Il tungsteno che riusciva a staccare lo infilava in una borsa, pezzetto per pezzetto, frammento su frammento, fino ad arrivare almeno a un chilo: il quantitativo minimo perché la Compagnia gli riconoscesse la giornata di lavoro.

Era rientrato in miniera la sera prima, dopo aver riposato appena cinque ore. Turno straordinario. Roba da uccidersi. Ma la Compagnia non si opponeva, se qualcuno se la sentiva di farlo per intramezzare un giorno in più di paga ai sei settimanali. Stava lavorando di notte, ma laggiù dov’era non c’era nessuna differenza fra la notte e il giorno.

Le braccia di Miguel cascavano, dopo aver colpito, un tremito scuoteva i muscoli delle sue spalle e gli avambracci duri come l’acciaio dello scalpello. Di lì a poco avrebbe dovuto fermarsi, nonostante l’energia che continuava a trarre dalla droga, perché il suo corpo si sarebbe rifiutato di continuare.

Ma ancora insisteva con una determinazione che non aveva più nulla di umano, che era al di là della fatica, e tra i lampi che gli si accendevano in testa e dietro agli occhi, dopo ogni colpo, rivedeva il giuramento che aveva fatto a se stesso: assicurare ai suoi figli una vita diversa.

Fra poco non avrebbe sollevato più le braccia. Sarebbe rimasto immobile per alcuni minuti, a contemplare la roccia come rapito. Meccanicamente avrebbe aperto le mani, e il martello e lo scalpello sarebbero caduti a terra. Poi si sarebbe voltato. Avrebbe lasciato il lavoro per recarsi in una nicchia separata, a una mezz’ora di cammino da lì.

C’era parecchia strada davanti, nelle gallerie, e Miguel procedeva a memoria. Reggeva in una mano la bottiglia dell’alcol e nell’altra il sacchetto della coca.

Ciao-ciao chica, no te preocùpe” recitava la sua mente, e i suoi occhi vedevano Lara, che ora stava lavorando a maglia con il gatto acciambellato ai piedi, uno dei suoi bambini era a letto malato, gli altri fuori a giocare. La vedeva bella, perché era ancora innamorato di lei, e avrebbe voluto fare di più all’amore, se solo fosse tornato prima delle dieci di sera e non avesse avuto il cuore avvelenato da una stanchezza mortale.

Quell’antro di roccia, dove quattro o cinque minatori, fra i quali Miguel, erano soliti riunirsi una volta al giorno, somigliava a una cappella ricavata all’interno di un’imponente abbazia.

Era un luogo angusto e appartato, adatto alla preghiera. E infatti proprio per pregare vi si raccoglievano gli uomini, penetrando in quel vano sotterraneo da una strettoia che non consentiva il passaggio a più di una persona per volta.

Soltanto là dentro si sentivano protetti. Uno accanto all’altro, si disponevano in ginocchio davanti a una pietra. Riempivano di alcol piccoli bicchieri di vetro e li poggiavano a terra. Tiravano fuori le sigarette e le allineavano pure a terra, su un foglio di giornale, e così facevano con le foglie di coca che ammonticchiavano in piccoli cumuli. Quindi rivolgevano le loro preghiere al diavolo, el Diablo, simboleggiato dalla pietra: “Dacci la forza di estrarre almeno due chili, e concedici di sopravvivere. Di tirare avanti e sopravvivere.”

Vuotavano d’un fiato i bicchierini e li riempivano ancora. Bagnavano d’alcol la base della pietra e ripetevano quel rituale altre due tre volte. Con un cerino si accendevano le sigarette: il fumo riempiva l’aria e li faceva sentire al sicuro.

Infiggevano una sigaretta nel fango che incrostava la pietra, e l’accendevano in modo che anche el Diablofumasse con loro. Quando si portavano alla bocca una manciata di foglie, ne spingevano verso la pietra un mucchietto simile, e là lo lasciavano a cerimonia finita.

Cercavano in questo modo di accattivarsi il favore del sovrano del freddo regno di ombre nel quale trascorrevano la maggior parte della loro vita, vulnerabili creature sprofondate ai piedi di ciclopici macigni e sbuffi improvvisi di gas letali. E per via della droga erano tutti convinti di averlo visto più di una volta, el Diabloin persona, osservarli di nascosto da dietro uno spuntone di roccia: le labbra atteggiate a un sorrisetto vorace e gli occhi rossi, fiammeggianti.

 

Accovacciato in un anfratto, Miguel si abbracciava le ginocchia.

Alla nicchia del Diablo non aveva trovato nessuno dei suoi compagni. Si era trattenuto là da solo, e dopo aver spartito con l’oscuro signore della miniera le sue foglie di coca e l’alcol, si era stretto alla parete e aveva dormito un paio d’ore. Doveva recuperare le forze necessarie per arrivare fino a metà pomeriggio, quando l’ululato della sirena avrebbe segnato la fine del turno di lavoro.

Aperti gli occhi, si era subito alzato. Aveva accostato alla bocca il pacchetto delle sigarette e ne aveva trattenuta una fra le labbra. Un’altra l’aveva accesa e lasciata infitta nella pietra. Poi se n’era andato.

Non era tornato al suo filone, bensì aveva deviato per raggiungere un punto della miniera a lui sconosciuto, dove la Compagnia gli aveva detto di recarsi per far saltare un costone di roccia che impediva l’accesso a una nuova vena di tungsteno.

Miguel aveva piazzato una leggera carica di dinamite alla base della parete, e aveva individuato un posto dove ripararsi una volta accesa la miccia. Non c’era che da far questo, ormai. Accendere la miccia. Ma lui aspettava. Se ne stava seduto e aspettava.

La preghiera a el Diablo aveva provvisoriamente allontanato da lui la paura, la fatica aveva allentato la stretta sul suo corpo, e Miguel poteva respirare.

Il suo torace si sollevava e riabbassava con regolarità, ora. L’espressione sconvolta dei suoi occhi era confluita in una calma solo un po’ trasognata.

Restava immobile, Miguel, con la luce spenta. Il bianco degli occhi luccicava nella semioscurità. Esente dalle suggestioni della droga, la sua mente inseguiva libera un’immagine di felicità: se stesso sul piazzale assolato di un cantiere, immerso in una luce naturale e benefica che ricadeva come pioggia su di lui e sui suoi compagni. Talmente tanta luce che per lavorare bisognava stringere gli occhi, mentre dal cielo si udivano i gabbiani stridere e gorgheggiare, e c’era sempre qualcuno accanto e non si era mai soli…

Pensando a questo si sentiva pervadere da una gioia profonda, che gli infondeva forza e speranza. La miniera non l’avrebbe ucciso, adesso lo sapeva. Se ne sarebbe andato sulle sue stesse gambe, un giorno come un altro, magari fra non molto. E la montagna, beh… neanche quella ce l’avrebbe fatta a ingabbiarlo fra le sue rocce brulle e le case cascanti del villaggio; a stringerlo nella miseria fino a farlo morire.

Avrebbe trovato un altro lavoro, e anche una casa nuova e più spaziosa per Lara e per i bambini. Non più tutti in una stanza, con quel misero sgabuzzino accanto, dove sua moglie cucinava. Ma una casa vera…

Voltò il capo e accese il faretto che portava in fronte. Alla luce gialla che ne scaturì osservò la carica da far brillare. Guardò la miccia e ancora non si mosse. Raddrizzò il capo, lentamente, e spense il faretto. Se ne stava fermo per non spezzare l’incantesimo, perché i suoi pensieri non svanissero. Perché restassero là con lui a tenergli compagnia.

Sognava a occhi aperti, Miguel. Sognava un posto da manovale in un qualsiasi cantiere in città.