Secondo le cronache antiche fu sotto re Aimone che il Regno del Nord raggiunse la sua massima estensione. A quel tempo – così dicono i cronisti – tutti i principi del mondo conosciuto si inchinavano davanti ai messaggeri reali e non c’erano regno o repubblica che osassero dichiarargli guerra. Non ancora quarantenne Aimone era riuscito in quello in cui intere generazioni di sovrani prima di lui avevano fallito. Fu la sua spada ad uccidere l’ultimo drago nascosto fra le Montagne Azzurre, fu lui che al comando dell’esercito riuscì a fermare l’avanzata dei terribili Unni Bianchi; sotto il suo governo la capitale raggiunse una ricchezza così grande che da allora non è più stata eguagliata. Pacificata ogni provincia e debellata ogni insidia, era arrivato finalmente il momento per il re di abbandonarsi a una vita tranquilla nel palazzo reale, aspettando una serena vecchiaia. Tuttavia il re non riusciva ad essere felice nemmeno quando passeggiava negli stupendi giardini del suo palazzo. Anzi, era proprio in quei giardini che la sua inquietudine aumentava sempre più. Non avvezzo alla calma, Aimone si ritrovava a chiedersi quando sarebbe sopraggiunta la morte. Lui che era ancora in piena salute, un uomo vigoroso temprato da cento battaglie, era terrorizzato dal non sapere quando sarebbe successo. Il suo più grande desiderio divenne allora quello di allontanare da sé l’unico nemico che non sarebbe mai riuscito a sconfiggere: la morte. Fu proprio per questo motivo che una sera, mentre le ombre si allungavano veloci sulle mura che circondavano i giardini reali, fece chiamare l’alchimista di palazzo. Vergognandosi un po’, confidò all’alchimista il motivo della sua inquietudine.
«Voi che conoscete molte cose, non sapete se c’è un modo per allontanare da sé la morte?», chiese dopo un lungo preambolo il re.
L’alchimista iniziò a suggerire al re di seguire una certa dieta e di allenare il fisico e la mente, ma non era questo che il re voleva sentire. Alla fine l’alchimista capì cosa intendesse il suo sovrano.
«Non c’è modo di sconfiggere la morte, ma forse ci sarebbe un modo per guadagnare del tempo».
«E come?», chiese il re senza più mascherare la sua curiosità morbosa.
«Ebbene, gli antichi dicono che nel nostro mondo esiste un uccello, un uccello che si dice essere magico. Alcuni lo chiamano “Fenice”, altri “Uccello di fuoco”. Qualcuno invece lo designa con il nome di “Uccello del tempo”. Anche sul suo aspetto non c’è concordia: c’è chi lo descrive come un’aquila d’oro, chi come un airone vermiglio, chi infine come un gallo dai colori dell’arcobaleno. Se sull’aspetto non vi è un parere unanime, tutti concordano sulle qualità di quella creatura. Viene chiamato Uccello del tempo perché, in effetti, quell’essere riesce sempre a spuntarla sulla corruzione del tempo: quando sopraggiunge la fine quell’uccello si fa divorare dalle fiamme, finché di lui non resta che un pugno di cenere. Ed è proprio da quella cenere che riprende vita: come un pulcino che poi cresce fino a rigettarsi nelle fiamme per perpetuare quel ciclo all’infinito».
«Vi confesso che invidio proprio questo uccello», disse Aimone «ma di grazia, in cosa può essermi utile questo racconto? Se mi gettassi nel fuoco di me davvero non resterebbe che un pugno di cenere e sfido anche voi che siete tanto sapiente a cavarne fuori un pulcino».
«Certamente non vi sto invitando a gettarvi nel fuoco, Sire», disse sorridendo l’alchimista. «Le leggende dicono che ogni piuma di quell’uccello permette di allungare la vita umana. Su questo però gli autori tornano ad essere discordi: c’è chi dice che una piuma allunghi la vita di una settimana, chi di un mese e chi addirittura afferma che una piuma equivalga ad un anno intero».
Nel sentire quelle parole nel cuore del re si accese una flebile speranza. Dunque c’era forse un modo per garantirsi una manciata di giorni in più e, forse, addirittura qualche anno!
«Ditemi, dove si può trovare questo Uccello del tempo?», chiese il sovrano fuori di sé.
«Ebbene, nessuno lo sa con precisione», disse desolato l’alchimista. «Su alcune pergamene si parla di un deserto, in altri di una foresta in fiore, in altri ancora di un’isola circondata da ghiacciai simili al cristallo più puro. I riferimenti sono molto vaghi».
Nel sentire quelle parole ad Aimone il cuore si fece pesante. Da principio avrebbe dovuto cercare nel suo regno, ma se lì non avesse trovato il magico uccello si sarebbe dovuto spingere nelle province dei suoi vassalli e fors’anche oltre i confini del mondo conosciuto. Più volte fu sul punto di abbandonare l’impresa: soprattutto di mattina gli sembrava che il desiderio di guadagnare tempo allontanando la morte fosse sacrilego.
«Ho i migliori medici di tutto il regno che controllano la mia salute», diceva il re cercando di convincersi. «Mia moglie, la regina, mi ama sinceramente e i miei figli mi rispettano. Se anche dovessi morire domani non avrei nulla da temere: il regno è saldo e prospero, i sudditi fedeli. Non ci saranno più draghi che infesteranno i campi, né per molto tempo i nemici oseranno calpestare i confini. Di che ho paura?». Dicendosi queste cose Aimone credeva di poter scacciare una volta per tutte la sua inquietudine, ma ogni sera, quando le tenebre strisciavano implacabili tra gli alberi del giardino, i suoi pensieri tornavano a farsi sempre più cupi. Allora rientrava nel palazzo reale, affrettandosi lungo i sentieri circondati da siepi. Anche dentro i saloni del palazzo non riusciva a sentirsi sicuro: le tremolanti fiammelle delle candele e delle torce disegnavano figure inquietanti sulle pareti affrescate. Soltanto in sogno il re trovava la pace; in una terra lontana vedeva volare un uccello che non aveva mai visto, più bello del pavone e più elegante del cigno. Quell’uccello – lui lo sapeva – era la Fenice, l’Uccello del tempo che risorgeva dalle sue ceneri. Una volta svegliato si dimenticava la forma di quell’uccello, e la serenità provata nel sognarlo svaniva presto. Fu così che dopo poche settimane il re decise di partire alla ricerca dell’Uccello del tempo.
Il re non confidò a nessuno il motivo di quel viaggio e a sua moglie, ai suoi figli e ai suoi funzionari disse che partiva per far visita a tutte le province del regno e che forse si sarebbe spinto oltre per stringere accordi di pace con i signori delle terre incognite. Certo il viaggio sarebbe stato lungo, ma il regno avrebbe giovato di quest’impresa e i confini sarebbero diventati ancora più sicuri. Fu così che una mattina di maggio Aimone partì con mille cavalieri, scelti fra i più validi guerrieri del regno. I principi avevano pregato di poter partire con lui, ma Aimone aveva rifiutato ordinando loro di aiutare la regina durante la sua assenza.
Il viaggio nelle terre del regno fu sorprendentemente veloce. Grazie alla qualità delle strade, alla sicurezza dei valichi e a un tempo straordinariamente clemente il sovrano riuscì a far visita alle principali città del suo regno e delle province a lui vassalle in meno di due anni. In tutte le città visitate Aimone chiedeva ai locali se avessero mai sentito parlare dell’Uccello del tempo (o della Fenice, o dell’Uccello di fuoco). La maggior parte degli interpellati rispondevano negativamente, qualcuno annuiva ma restava sul vago e mai nessuno disse dove poter trovare quella creatura. Solamente nella più remota provincia occidentale il re riuscì a trovare un uomo che sapesse qualcosa di più. Un vecchio di nome Giovanni, che nella città in cui viveva aveva fama di essere un uomo molto sapiente, disse che lui – cieco dalla nascita – non aveva mai visto l’Uccello del tempo, ma conosceva un’antica poesia che ne parlava. Il re lo ascoltò con attenzione; a colpirlo furono soprattutto i versi che dicevano:
Più vicino di dove immagini
dove non hai mai pensato
vive eternamente l’Uccello del Tempo.
Se lo vuoi trovare bisogna
che tu ritorni là
dove veloce scende la sera.
Il vecchio Giovanni non sapeva cosa volessero dire quelle parole, ma il re ritenne che la “sera” nominata nella poesia indicasse il luogo dove tramontava il sole, e cioè l’occidente. Il destino aveva voluto che si trovassero proprio nella provincia più occidentale: il re comandò che si facessero provviste e una settimana dopo ripartì alla volta delle terre incognite occidentali.
Una volta attraversato il confine il viaggio si fece molto diverso; la strada, così larga e bella finché si era nel regno, divenne appena un sentiero in una sterminata prateria. Per ben tre anni il re e i suoi cavalieri si fecero strada in uno sterminato mare d’erba; ogni tanto trovavano un villaggio dove potersi fermare, ma per la maggior parte quelle lande sembravano essere disabitate. Più procedevano verso occidente e più la notte sembrava farsi lunga. Un giorno infine raggiunsero il mare, e compresero che più in là non si poteva andare. Quella notte il re sognò dopo molto tempo l’Uccello del tempo. Volteggiava sopra di lui, e cantava una canzone, della quale una volta sveglio si ricordò solo queste parole:
Alle tue spalle,
indietro ai tuoi piedi
dove veloce scende la sera
ti aspetta ancora
l’Uccello del Tempo.
Aimone ci pensò su un po’, ma poi concluse che l’espressione “alle tue spalle, indietro ai tuoi piedi” indicasse il sud. E così di nuovo partì verso le terre sconosciute di mezzogiorno, affrontando impervi sentieri fra le montagne. In cento si persero in quel labirinto di burroni e creste. Quando poi ridiscesero in pianura si ritrovarono in un immenso deserto. Camminare di oasi in oasi fra quelle dune fu molto faticoso e passarono ancora tre anni. Un giorno la carovana si imbatté in una distesa di insidiose sabbie mobili e a tutti fu chiaro che il loro viaggio verso sud finiva lì. Quella stessa notte il re sognò ancora l’Uccello del Tempo. Ora non volava, ma appoggiato sul ramo fiorito di un albero cantava:
Riprova ancora, riprova
più vicino mi dovevi cercare,
l’Uccello del Tempo ti aspetta
tra gli alberi in fiore
dove veloce scende la sera.
L’indomani il sovrano annunciò al suo seguito sempre più demoralizzato che il viaggio sarebbe continuato verso oriente. Gli alberi in fiore della canzone dovevano sbocciare dove sorgeva il sole e d’altra parte era soltanto in quelle terre che gli restava da cercare. Nella traversata delle dune morirono in duecento cavalieri, e solo in settecento riuscirono a vedere le paludi che si estendevano a perdita d’occhio verso est al di là di quel mare di sabbia. Per tre anni il re e i suoi cavalieri attraversarono un acquitrino insidioso e in trecento morirono affogando nelle acque melmose o finendo fra le fauci di strani draghi nascosti sotto il pelo dell’acqua. Ed ecco che dopo tre anni i superstiti arrivarono ai margini di una foresta così intricata da non lasciar intravedere nessun sentiero; lì sì c’erano alberi in fiore, ma dell’Uccello del Tempo nemmeno l’ombra.
Quella notte il re non fece nessun sogno, e l’indomani annunciò ai suoi che era finalmente arrivato il momento di ritornare a casa. Il viaggio di ritorno fu ancora più duro del viaggio di andata, e in quattrocento perirono per la fatica, per le malattie, per gli stenti e per gli agguati dei Tartari che si erano rifugiati in quelle lande desolate. Quando infine Aimone arrivò sul confine del suo regno erano passati oramai più di quattordici anni. Il lungo viaggio lo aveva sfinito: nulla era rimasto dell’antica forza, e soltanto mostrando i sigilli reali riuscì a farsi riconoscere. Fu appena oltrepassato il confine, nella più remota città della provincia orientale che Aimone seppe che sua moglie, la regina, era morta. I sudditi di quella città gli nascosero le altre cattive notizie, ma il re nel suo viaggio di ritorno verso la capitale non ci mise molto a capire che il regno era in guerra e che erano proprio i suoi figli a lottare l’uno contro l’altro per il trono. Quando raggiunse la capitale era oramai impazzito per il dolore; suo figlio maggiore, che aveva il controllo delle province centrali, accolse con disprezzo suo padre, un vecchietto infermo e sull’orlo della demenza.
Aimone trascorse i suoi ultimi giorni nei giardini del palazzo che aveva tanto amato. Sfibrato, senza più speranze, se ne restava immobile aspettando che scendesse la sera. Oramai non pensava più alla morte, al tempo che passava inesorabile e all’Uccello del tempo. Una sera che se ne stava come al solito lì in giardino, seduto sotto un vecchio albero, vide qualcosa muoversi fra le fronde. Era quasi ora del tramonto, e tra le foglie oramai scure c’era un uccellino poco più grande di un pettirosso che lo fissava appollaiato su di un basso ramo. Aveva il piumaggio grigio e il becco nero e lungo.
«Che razza di uccello saresti? Non riesco proprio a riconoscerti…», borbottò Aimone.
L’uccello spiccò il volo e planò accanto a lui. Aimone vedendolo così da vicino capì all’improvviso che si trattava proprio della creatura che aveva cercato per tanto tempo. Non somigliava affatto ad un’aquila d’oro o ad un airone vermiglio, ma non c’era nessun dubbio che quello fosse l’Uccello del tempo. Gli sarebbe bastato allungare la mano ed afferrare un paio di piume per vedersi regalare un po’ di tempo… Ma ne sarebbe valsa la pena? Sua moglie era morta, i suoi figli si stavano uccidendo a vicenda, il regno era in rovina. Il sopraggiungere della morte non era più una prospettiva così terribile.
«Sei sempre stato qui nel mio giardino…», sussurrò debolmente. «Ora capisco: se non mi fossi spinto oltre i confini del regno, se non mi fossi intestardito a cercare quello che già possedevo sarei stato padrone del mio tempo».
Il piccolo uccello lo guardava torcendo un po’ la sua testolina.
«Se solo avessi aspettato in questo giardino, mentre scendeva la sera… Ma ormai è troppo tardi. Su, vai via piccolo amico», e così dicendo Aimone agitò la mano per scacciare l’uccello. Quello spiccò il volo, e lui lo guardò allontanarsi verso il muro del giardino. Volava lentamente, ma alla fine si portò piuttosto alto nel cielo. Prima che i suoi occhi vinti dalla fatica si chiudessero ad Aimone parve che l’uccello si stesse per gettare nelle fiamme del sole al tramonto.