Alle diciotto e trenta esatte di quel due luglio millenovecentottantatré, Carlo Senzacqua, celibe, investigatore privato, stava riponendo nel portafoglio la foto dell’uomo che aveva pedinato per tutta la giornata, seguendolo addirittura ai gabinetti pubblici, dove lo aveva spiato a prudente distanza anche quando lo vide accostarsi all’orinatoio.
Entrò nel piccolo atrio della pensione Veliero, di seconda categoria, salì le scale fino al primo piano e girò impaziente la chiave nella serratura della camera numero dodici, singola con bagno, per sdraiarsi spossato sul letto.
Sapeva benissimo che avrebbe dovuto telefonare alla moglie dell’indagato, darsi una rinfrescata e andare a cena, ma si sentiva totalmente svuotato e aveva solo voglia di starsene in pace.
Supino sul letto, in mutande bianche di cotone makò, lo sguardo fisso al soffitto, pensava che era stata una beffarda coincidenza essere capitato proprio in quella pensione a distanza di diciassette anni e, per somma di coincidenze, anche nella stessa stanza, allora matrimoniale con bagno, in cui aveva soggiornato con Erika Fὕrstock, ventenne austriaca dai capelli rosso rame, occhi azzurri, studentessa in egittologia.
Si guardò allo specchio e si vide com’era: mezza età, né alto né basso, capelli neri, radi, con riporto a destra, addome vistoso e cicatrice per l’operazione di appendicite.
Era terribilmente provato, e non solo per le pesanti giornate di lavoro trascorse, roso da un tarlo che l’aveva attaccato fin da quando era arrivato in quel dannato posto della riviera alto tirrenica, tanto da sentirsi stanco di tutto, come se il passato lo avesse aggredito all’improvviso svuotandolo e lasciandogli solo i ricordi di quell’amore giovanile.
Dopo molto tempo che se ne stava inerte sul letto, trovò la forza per farsi una veloce doccia con un bagno schiuma ai propoli contro la pelle grassa.
Sotto l’acqua si sforzò di canticchiare con voce stridula una versione molto libera del Nessun dorma, interrotta bruscamente sull’acuto finale “… all’alba vincerò” da violenti colpi di tosse, quotidiano tributo alle quaranta sigarette giornaliere.
Si fece la barba, poi si ravviò con cura i capelli, compiendo autentici miracoli di ingegneria statica con il riporto. Erano anni che non gli veniva così bene, tanto che, in assenza di vento, avrebbe forse potuto resistere fino all’ora di andare a dormire.
Il pensiero che non avrebbe più dormito mollemente adagiato su un letto si presentò all’improvviso, ma non se ne dolse granché.
Si vestì e su un piccolo foglio di carta a quadretti raffigurante il logo della pensione, scrisse con una penna bic mistero: Ho amato solo te. Carlo. Guardò a lungo quello che aveva scritto e poi, ripiegato il biglietto, lo infilò con cura nel portafoglio vicino alla foto di Erika ventenne, gelosamente conservata dopo tanti anni, temporaneamente vicina alla foto formato tessera dell’uomo su cui stava indagando.
Passeggiò a lungo senza meta per il paese sfavillante di luci tra le centinaia di turisti vocianti, i pensieri fissi sul modo in cui lo avrebbe fatto.
I passi lo portarono al vecchio molo che già si erano accese le luci del grande porto foraneo a un chilometro di distanza; saranno state circa le ventuno.
Non aveva timori particolari, nonostante il mare lo avesse sempre impaurito fin da piccolo. Non sapeva nuotare e fin da bambino temeva di inoltrasi in acqua anche con i braccioli dove si tocca. Di fatto, non si bagnava più in mare da chissà quanti anni.
Nello stesso momento, fatti salvi gli scarti del fuso orario combinati con l’ora legale italiana, in un paesino montagnoso dell’Austria, Erika Fὕrstock, ormai quarantenne, nubile, insegnante di storia alle scuole superiori, attendeva seduta che l’orologio a pendolo davanti a sé battesse il minuto preciso in cui aveva deciso di spararsi un colpo di rivoltella alla tempia destra.
Era diligentemente seduta su una sedia a braccioli in noce metà ottocento, china sullo scrittoio sul quale aveva appena finito di scrivere, nel suo italiano elementare ma corretto, un breve messaggio: Carlo, non ti ho mai dimenticato.
Spostò previdentemente il foglio verso sinistra, temendo che qualche schizzo di sangue potesse macchiare lo scritto, qualora questo fosse rimasto in posizione centrale.
L’orologio a pendolo scandiva indifferente il tempo, mentre lei caricava la pistola a tamburo paterna, sospirando languidamente.
Intanto, sul vecchio molo della riviera alto tirrenica, Carlo Senzacqua, infilate cinquecento lire nell’apposita fessura, aveva preso da una macchinetta mangiasoldi un piccolo siluro di plastica giallo, che conservò dopo aver buttato in un cestino della spazzatura il pupazzetto che c’era dentro.
Il suo raziocinio da investigatore privato di pluriennale concretezza gli aveva suggerito di inserire nel piccolo contenitore la foto dell’adorata Erika col suo biglietto d’addio; il piccolo siluro giallo avrebbe sicuramente resistito all’azione dell’acqua nelle sue tasche e così il mondo avrebbe saputo del suo amore per Erika.
In quello stesso istante, circa un migliaio di chilometri a nord est in linea d’aria, Erika Fὕrstock maturò una decisione improvvisa, assai poco in armonia col suo temperato costume mitteleuropeo, e, ritrovato lo spirito dei vent’anni, stracciò in tanti pezzi il foglio avanti a sé, precipitandosi verso l’armadio in abete della stanza degli ospiti alla ricerca di vestiti più leggeri da indossare per il viaggio in Italia alla ricerca del suo Carlo, che, ora ne era certa, era sempre stato la sua unica ragione di vita.
Buttò via con furia tutti gli oggetti che le capitavano fra le mani, gettandoli per terra o sul letto vicino con un disordine assolutamente mediterraneo.
Dopo tanti anni si sentiva finalmente libera e rideva, rideva rumorosamente, gli occhi azzurri lucenti per le lacrime di gioia.
Rideva anche quando fu trafitta dalla punta acuminata della corta piccozza da montagna, regalo degli zii paterni per una vecchia promozione scolastica, che la colpì violentemente alla tempia destra.
Erika cadde senza un grido sul pavimento in tek brunito, arrotato appena un mese prima, con i lunghi capelli rosso rame scomposti e gli occhi aperti a una visione ancora felice.
In quello stesso istante, circa un migliaio di chilometri a sud ovest in linea d’aria, l’investigatore privato Carlo Senzacqua aveva appena riposto la foto di Erika nel siluro di plastica giallo, ma, prima di inserirvi il biglietto d’amore, si fermò e improvvisamente decise che prima di morire avrebbe dovuto tentare il gesto disperato di cercare la sua Erika, anche a costo di esserne respinto.
Era già tra gli scogli bassi, lambiti dal mare aperto, quando, nel girarsi di scatto per risalire sul molo, fu tradito dall’oscurità, mise un piede in fallo e batté violentemente la tempia destra su un masso appuntito, rotolando esanime tra le rocce con il mare che, con la placida marea serale, a tratti gli ricopriva le gambe per poi ritirarsi.
Il piccolo siluro giallo scivolò tra le fenditure delle pietre del molo, rimanendo incastrato in un invisibile pertugio tra i massi. La foto di Erika sarebbe rimasta lì per sempre, orfana del biglietto d’addio, ancora nel portafoglio di Carlo insieme alla foto dell’indagato.
Quando la domestica scoprì la fine di Erika, inorridì nel constatare il disordine in cui era la stanza.
I parenti e gli amici, subito informati, furono concordi nel ritenere che una donna non dovrebbe vivere da sola e che, comunque, i lavori pesanti sarebbe sempre meglio affidarli a un uomo.
Di Somma Carmelo, brigadiere dei Carabinieri che curò la pratica Senzacqua, non ebbe dubbi nel classificare l’accaduto come un suicidio, il cui movente era individuato nel chiaro legame evidenziato dalla foto sbiadita del misterioso uomo, così come rinvenuta nel portafoglio dell’annegato, abbinata alle fin troppo allusive parole Ho amato solo te. Carlo, rinvenute nel biglietto.
Il quotidiano locale se ne uscì il giorno successivo con un titolo a nove colonne, Torbido suicidio di omosessuale, perfetto per favorire vendite massicce, nonostante la presenza di spalla dell’ingombrante pubblicità della “Ferracci Elettrodomestici”.
Esaurite nel minor tempo possibile le procedure giudiziarie di rito, la salma di Carlo Senzacqua fu lasciata a disposizione dei parenti, nessuno dei quali fu rintracciato o perché non ve ne fossero o perché nessuno in realtà se ne interessò più di tanto.
Quando la Mercedes furgonata delle pompe funebri attraversò il lungomare nelle prime ore di un mattino di pochi giorni dopo, c’era poca gente per la strada.
L’unico segno di vita veniva dalla discoteca Naraňa, che si stava svegliando con le sedie sopra i tavoli e watt impietosi che si propagavano dalle porte e finestre spalancate.
Carlo Senzacqua ebbe come nenia funebre un vigoroso funk d’oltreoceano, ma, come l’auto abbandonò l’abitato e iniziò a salire per la collina, il frinire delle cicale sommerse poco a poco la musica, mentre i pitosfori della macchia presero a interrompere dall’alto la linea bianca della risacca.
In basso, il paese era avvolto in un biancore irreale e mandava sfavillii accecanti.
L’auto procedeva lentamente con un cupo rimbombo che si perdeva lontano; quando scomparve alla vista sembrò che qualcosa d’importante fosse finito per sempre.
Il mare luccicava immobile sotto il sole e sembrava un serpente di cui non si scorgeva la testa.