ANNO 1
Arianna e Moira sono vive e litigano spesso. Feroci botta e risposta, ripicche, accuse reciproche. Mamma, Moira dice che sono bassa. Mamma, Arianna è sotto la doccia da dieci minuti. Mamma, Arianna mangia a bocca aperta e lo fa apposta. Litigano la mattina a colazione – sento i torpidi passi sul cotto, i cucchiaini urtare il bordo delle tazze, quasi lo sbriciolarsi dei biscotti tra i denti – su chi deve portare in spiaggia la borsa con i giochi e l’ombrellone, litigano il pomeriggio, quando nell’asfissia di luglio cerco di terminare al portatile il mio romanzone postmoderno molto ambizioso/pretenzioso che grida di lei e solo di lei, e di me, di me che penso a lei, che ignora, che nemmeno sospetta quanto mi abbia sollecitato e strutturato e infine affossato per sempre, litigano, più blandamente, quasi forzate dallo stanco canovaccio, la sera, dopo cena, quando scappano in strada a giocare con gli altri bambini e io mi accascio sulla sdraio in veranda tra zanzare e falene a consumare libri sotto una lampadina penzolante, mi son portato dietro Lowry e DeLillo e Munro e qualche sudamericano caldo, in sottofondo del dream pop da concentrazione, il tascabile in una mano e la prima lattina di Ichnusa brinata nell’altra. Rare luci, a mezzanotte, Anna e Moira a letto come i loro amichetti estivi, la madre al telefono col marito lontano e lavorante, un’intimità che si è costretti a condividere, una parvenza di Lattea nell’incognita del cielo, e io divento lo sbronzo Geoffrey Firmin e sfoglio febbrile, segnando a lapis qualche passaggio, Per lui la vita è sempre dietro l’angolo, sotto specie di un altro bicchiere all’osteria vicina, mentre dal mare sale leggera quella brezza corroborante che è spinta a non mollare, mai, leggi, in questa nuova casa ignota della Gallura, sfuggente alle reti della telefonia mobile, eremitica, fiorita in mezzo al granito primordiale che tanto piaceva ai romani, leggi, leggi tutta la notte, fratello, leggi finché hai occhi e battito, lo sai, che altro ti rimane.
ANNO 2
Rimugino sulla cadenza brianzola, nordica, su quanto mi suoni precisa e competente, su cosa ci sia di distorto e latentemente razzista nel mero fenomeno percettivo. Immagino quanto possano esser cresciute in dodici mesi. L’espansione cerebrale, l’assorbimento delle esperienze, la definizione dei caratteri. Vivono d’estate, Arianna e Moira, nelle mie estati deserte di puro pensiero e odor di ginepro, la loro vacanza sarda di luglio, con la madre – educatrice da applausi – che ha la suoneria di T. Ferro e cucina spesso il pesce, fritto o alla griglia, vivono e respirano e masticano e bisticciano e si vogliono ovvio bene a una manciata di metri da me, sulla destra, al di là di un’elevata e folta siepe di lauro che ci divide e ci vieta di scrutarci e scoprirci a vicenda. Per quanto sembri improbabile o proprio impossibile non ho mai avuto modo di vederle, né quest’anno né l’anno scorso, eppure intuisco, sento, so, che Moira è la più grande, di tre o quattro anni, magari alta e ricciuta, e che Arianna fa la prima o la seconda ed è sveglissima, furba, non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Non le ho mai viste perché conduciamo giornate difformi, asincrone, teleologicamente diverse. Non le incontro al mare, per esempio, alla caletta un centinaio di metri qui sotto, la colata di sabbia tra le rocce dove vado anzianamente a leggere di prima mattina, dopo la corsa nel bush e la colazione, quest’anno leggo Pynchon e Montalban e poesie di Michele Mari e Rovelli, il fisico, l’intellettuale in sandali, il divulgatore che ci spiega il tempo, quanta impalpabile complessità, la nostra percezione dello scorrere del tempo rappresenta solo il risultato di una sfocatura, di una maniera grezza e soggettiva di osservare l’universo, a livello microscopico non c’è niente di intrinsecamente peculiare nel passato che lo renda differente dal futuro. Più o meno. Ignoro che spiaggia frequentino, dicevo, so solo che quando tornano a casa verso mezzogiorno io sto armeggiando ai fornelli e sentendo jazz classico o Amanda Palmer o Corrado Augias in TV, so che Moira ha un lessico da scrittrice e va pazza per la pasta alle vongole, e so che al momento dei compiti, verso le tre, Arianna la teatrale non vuole mai fare i compiti e sforna scuse buffe a ripetizione, Mamma ma oggi è mercoledì!, Oggi c’è troppo rumore!, Mamma oggi ci sono le mosche!, io sono già fuori con la biro tra le dita a saggiare le ultimissime bozze, un fardello di svariati chili di A4 mollato sul tavolino provvisorio in plastica, bozze che logicamente mai saranno sul serio le ultimissime, figurarsi, la versione approssimativa della versione approssimativa del mio romanzone postmoderno che vorrebbe omaggiare Wallace e DeLillo e King e Dick e che sotto sotto parla di lei, che mi rivela cosa non ha funzionato con lei, non ce ne saranno altre, prendine atto, lei, non la vedo da ere geologiche, da quando abbiamo giurato come bravi bimbi di non sentirci né vederci né chattare né pensarci più, e se per caso un giorno ci incrociamo sulle strade di Firenze o Pisa o Pistoia o Lucca – genialata mia – cerchiamo per piacere di voltarci dall’altra parte e andare oltre, amen, viviamo le nostre vite, ognuno sul suo sentiero, il mio sentiero è una piazzola spoglia e buia e la ruota è pateticamente a terra, finché, mentre scorro le pagine e le riempio di scarabocchi, arriva puntuale la fitta, la consapevolezza fugace, io e lei, noi, ci sappiamo davvero così a fondo come credevo, e forse credevamo, o era tutta solo un’illusione potente di pupille strutte e sussurri e pelle salata, una sfocatura, e non siamo che due sconosciuti pescati a caso dal gran mazzo di carte del mondo? E la sera, quando rincaso dal mare, il carnato un filo più nocciola, ci sono stato giusto un’oretta o poco più per il tramonto, Arianna e Moira sono già rientrate e appaiono laconiche, fiaccate dal giorno andato, e aiutano docilmente la madre in cucina e apparecchiano, emigrare di sedie, tintinnare di posate, e ogni tanto Moira denuncia che Arianna fa le boccacce, rimarca il suo infantilismo esiziale per prenderne le distanze, e la mamma ride lieta, a volte si lamenta per la sabbia che seminano, a volte accende la televisione e segue il TG, il mondo trema di terremoti, trema di dittatori e listini di borsa, a volte chiama il marito, dall’isola al continente, voci, frequenze, silenzi, mezz’ore di silenzi, e poi rieccole ancora, Arianna e Moira, rigenerate, vive, che quando io mi butto sulla sdraio con L’arcobaleno della gravità nelle mani e la birra accanto implorano di poter uscire, e la mamma pone condizioni ferree ma le libera, Moira ringrazia con parole perfette, Arianna garantisce che domani farà i compiti senza fiatare, eccetera, e così, oltre la siepe, limite gnoseologico, lassù è tutto viola e pace, si uniscono agli altri, gruppetti di ombre guizzanti che tirano palle e giocano a nascondino, piccoli sistemi semiotici romani e genovesi e sardi e napoletani, strepitano, corrono, cadono spaccandosi gomiti e, ogni tanto, deflagrano di quelle risate che non vorresti scordare mai.
ANNO 3
Buio sardo è spirito inquieto di cinghiali allupati che annaspano nella spazzatura e menzogne gocciolanti dal cielo e false rinascite e candore lunare di Corsica e indizi di salmastro nell’aria scossa dal maestrale montante, e l’idea tutto sommato appetibile di essere alla deriva, nel nero oceano illimitato, sconnessi da tutto ciò che conta, l’Esistenza, la Realizzazione del Sé, il Successo, e che non conta niente. Disincarnarsi. Al posto della lampadina nuda, fuori, in veranda, c’è una lampada svedese da soffitto. Davanti, sui tre lati, la barriera di lauro e fiori bianchi appena bagnata dalla luce, austera, le foglie in cima come schegge di bottiglia a impedire l’entrata alla realtà canaglia. Nell’appartamento a sinistra sta in affitto una coppia di fiorentini, credo giovani, lui gran bestemmiatore e lei remissiva, mangiano muti, la notte chiassose e svelte sessioni di sesso. A destra pure quest’anno la madre e le figlie, la vivacità lombarda, i dispettucci, in costante diminuzione, si subodora un affiatamento maggiore nel trio, un conoscersi più profondo, Moira sembra proprio adulta, deve fare le medie ma denota già processi cognitivi da scuole superiori, Arianna mi suona meno istintiva eppure ancora vivace, squillante, non ha smarrito il suo umorismo involontario e irresistibile. Dorme ora questo villaggioide vacanziero arrangiato tra i grandi sassi, dormono i bambini, i ragazzi, che si riscoprono qui anno dopo anno e finiranno da adolescenti a perdere verginità e innamorarsi vicendevolmente e assaggiare il dolore, Sindrome dell’Ospite Indesiderato, dormono tutti, tranne me, il tipo che crede solo alla letteratura, quasi mai, fa fresco e ho messo una felpa, una volta le diedi la mia felpa, borbotta nel sonno il mare tra gli scogli, e incorporo Ichnusa, una lattina, due, quattro, leggendo 2666 di Bolaño con tutte le sue donne ammazzate, e bevo, e bevo, e più bevo più astraggo, meno distinguo l’inchiostro e più colgo i concetti, la trama occulta, il segnale nel rumore, e ascolto a volume strabasso Springsteen e Dylan, roba così, accordi e voce e storielle di eroi piccoli. Nei pomeriggi assolati ricontrollo fino allo sfinimento il mio romanzone postmoderno e pretenzioso alla ricerca di errori, brutte frasi, contraddizioni, e penso sempre se lei capirà cosa voglia dire, se potrà capire il terrore e il tentativo disperato di ridurlo ai minimi termini, se mi ha mai preso sul serio, penso a cosa penserebbe se sapesse della collezione di appunti e dei racconti e delle poesie orrende, cos’è che non parla di te, Yvonne o Miriam o Fermina Daza o Maga di Cortàzar, capisci davvero che si prova a non poter niente, a non poter chiedere, a ponderare con lucidità il numero dolente degli anni buttati, a visitare le vecchie stanze di Skype che erano il nostro mondo segreto e ora sono vuote come un lutto, a riguardare ossessivamente quell’unica foto assieme, sgranata, a realizzare in ultima analisi che dire o non dire, come scrivere o non scrivere, non fa differenza alcuna – e allora perché, perché, perché. Berci sopra, bere ancora, e avanzare tra le pagine-fronde, addentrarsi nel mistero atroce di Santa Teresa – questa, e quella di Bolaño –, poi chiudere il libro di scatto, saranno le due o le tre e la sofficità è diffusa, nessuno fiata, e pensare dal nulla ad Arianna l’attrice, la furbetta, la viva, che dorme e sogna qui accanto e che oggi ha raccontato a un’amica genovese, invitata per merenda, di quando a scuola durante la ginnastica il maestro le chiese se potesse prendere sulle spalle un compagno per un esercizio, e lei gli disse che non poteva perché il tipo era sovrappeso e non ce l’avrebbe fatta, e il maestro a sentire quell’aggettivo si arrabbiò di brutto, certe cose non si dicono, certe cose possono offendere il prossimo, ma che ho fatto, dice perplessa Arianna all’amica, che ho fatto di sbagliato, mica ho detto che era grasso.
ANNO 4
Il picco a nord della Sardegna spazzato dal maestrale estremo. Il mare demonio che spiattella polimeri e carcasse. La nicchia di giardino, l’erba rasata, l’edera rampicante e i gechi caramello sull’intonaco rustico, la lampada Ikea, il tavolo in legno di quercia appena comprato. Fa freddo, è notte. È sempre notte. Sempre stelle annichilenti, a iperpensarci, stelle estinte. Bevo birre. Leggo Joyce, sdraiato, l’ammiro e lo detesto. Bevo tastandone la spina dorsale. I lombardi sono arrivati stamane, in netto ritardo rispetto al passato, eloquente anomalia. Un luglio particolare. Leggo o leggerò Vollmann, Santoni, Neil Peart, Richard Powers, I detective selvaggi, di mattina sul mare dopo l’acqua gelida o nel pomeriggio/notte, qui, in tuta, seccando lattine, leggerò Hawking e i suoi tentativi di informare il tempo, l’intuizione cruciale del tempo immaginario. Anche Powers ne sa qualcosa. Dispongo di più ore, rispetto agli anni passati, questo perché d’inverno, un giorno, la neve azzurra fuori dalla stanzetta in cui sorge e muore ogni volontà, ho stabilito all’improvviso che, dopo infinite correzioni antelucane e dubbi e cesellare patologico, il mio romanzone postmoderno e inutile che parla di lei, e a lei, era finito. Così nei giorni successivi ho preso a spedirlo qua e là alle case editrici più adatte – priorità ai colossi, che si possono permettere il lusso del coraggio –, l’ho fatto perché così si deve fare, è protocollo, senza speranze eccessive, non illuderti, si sa come funziona il mercato editoriale, già pronto l’alibi, troppo lungo e complicato, nessuno capirà. È sempre notte. Sempre notte. Ho più ore, e bevo. Mi sento vecchio. Marito e moglie parlano piano nella veranda accanto, a pochi metri. Non li ho mai visti. Presenze, sogni. Sono arrivati verso le dieci, hanno parcheggiato sulla stradina di fronte per scaricare i bagagli, il cancelletto piangeva nell’aprirsi, piangevano le ruote dei trolley sul vialetto pietroso che solca il loro giardino. Tra una ventata e l’altra piange la moglie, ora, la madre ottima, il padre zitto che forse l’abbraccia. Che vuoi dire. Bevo. Bevo più che posso. Chissà chi poserà gli occhi sull’incipit, almeno su quello, quanti sconosciuti decideranno che avrò perso tempo, che imbarazza, che ho fallito. Chissà chi scavallerà le cento pagine. Le trecento. Le settecento. La fine disillusa. Calcolo percentuali. Aspetto invano. Chissà se qualcuno saprà ricomporre lei, un giorno, se capirà che è vaporizzata sopra ogni frase, parola, lettera, se intuirà la fatica a monte. Non scapperai più da lì, sappilo. Prendine atto. Arrenditi. Vieni a patti con la tua eternità. Il padre, cupezza di voce, me lo immagino robusto e calvo. Un uomo responsabile, uno preciso, proprio come Moira, ecco da chi ha preso Moira la sorella maggiore, Moira l’adulta, Moira che ora riesce a dire solo sì e no. È ancora notte. Bevo. Stanco, vecchio. Luglio sardo, la luna un foro bianco. Disincarnati, alla deriva, isole galleggianti. Mi mancano le chat, confessa lei giorni addietro, fuor di romanzo, extradiegetica, il nostro scambiarsi particelle di vita. Buffo. A me manca la sua vita intera. Il pattern completo. E poi abbiamo giurato. O no? Sono Firmin, Florentino Ariza, Barney Panofsky, sono di carta. Non si ride più, oltre la siepe frullata dal vento, non si bisticcia. La televisione spenta. Confrontarsi col vuoto. Il letto vuoto, la sedia vuota. Per quante persone si apparecchia? Quando passa l’abitudine, la meccanicità dei gesti? Impossibile tornare indietro, a livello macroscopico. Apro una lattina: entropia. Apro un’altra lattina: entropia. È stata una giornata di sussurri, di frasi fatte, di troppe gentilezze. Sì e no. Sì e no. Dobbiamo farci forza. Ne verremo fuori. Spesso, si spostano solo oggetti. Gli oggetti assentono. Il padre che parla da solo. Il pranzo, la cena, i rintocchi delle posate. Tre bronci che non so vedere, umidità d’occhi che non posso incontrare. Non sappiamo mai niente.