Dieci anni

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07:00

Non ho mai preso un aereo perché ho sempre avuto paura di volare, non lo trovo umano, gli uomini non volano. E in aereo non c’è spazio, è piccolo e va troppo in alto, non fa per me e in aeroporto non sono a mio agio, ma sono riuscita a fare tutto e arrivare all’imbarco. Aspetto. Vivo in Italia da dieci anni, in Italia sì, ma meglio dire a Milano, non conosco altro, nessun’altra città, non sono mai andata al mare o in montagna. Non conosco nemmeno tutta la città, a dire il vero; vivo in Viale Monza, in un appartamento grande e luminoso. Conosco bene la strada che bisogna fare per andare dal medico o a fare la spesa e la domenica so arrivare al Parco Trotter. Qui in Italia ci chiamano badanti, io mi occupo di una signora anziana.

Per il mio primo viaggio verso l’Italia avevo preso un autobus e avevo viaggiato per venticinque ore. Accanto a me c’era una signora gentile, che era stata a trovare la famiglia e tornava a Padova, una bella città, mi diceva. Io piangevo, ho pianto per tante ore fino a quando non mi sono addormentata stordita e al risveglio mi sembrava di essere più vecchia di vent’anni e senza più lacrime.

07:40

Sono seduta in attesa che cominci l’imbarco, manca poco, ma mi sembra tanto. Il volo durerà due ore, mi sembra troppo, ma forse sarà poco. Dal bar arriva un forte odore di dolci che mi dà la nausea, lo stomaco si chiude e chiudo anche gli occhi. Nel mio paese mangiavo sempre i Mucenici che faceva mia madre e io li ho preparati per mio figlio, qualche volta, solo qualche volta.

Riapro gli occhi quando sento la voce della hostess che avverte che si è aperto l’imbarco. Guardo l’ora, sono passati solo pochi minuti, mi sono sembrate ore; mi alzo e mi metto in fila.

8:20

Stiamo salendo in alto, guardo le nuvole e il sole rosso. Sembra che le nuvole siano anche nella mia testa: i pensieri non si fermano, galleggiano. A dicembre ho risparmiato un po’ di soldi, mi servivano per i regali, un profumo per mia madre e un videogioco nuovo per mio figlio, era l’ultima novità, me lo ha spiegato mia nipote. Avevo prenotato un aereo, anche quella volta, avrei passato dieci giorni a casa, finalmente, dopo tanto tempo. Ma la signora si è ammalata, era una brutta bronchite e i suoi figli avevano già organizzato le vacanze in montagna, non potevano restare con lei. I soldi in più che mi hanno promesso per restare durante le feste sono serviti a curare i denti di mio figlio, sono stati una buona cosa. Ma la notte di Natale ero triste, anche la signora era triste: «A Natale si sta con la famiglia, ma la mia sta sciando e la tua è a Bucarest.» Piangeva. Anch’io piangevo, ho pianto per tutta la notte nella mia stanza e ho pianto il giorno dopo, quando mio figlio non ha voluto parlare con me al telefono.

Com’era bello il Natale quando ero piccola: mangiavamo il Cozonac. Mi ricordo il primo Natale di mio figlio, quando era un bambino paffutello e rideva sempre. Tra pochi giorni sarà Pasqua. Sono passati quattro mesi dalla notte triste di Natale. Quattro mesi: sono tanti? Sono pochi? Mi sono sembrati tantissimi, contavo su un calendario i giorni; lo stesso numero di giorni in cui non ho parlato al telefono con mio figlio che non voleva sentirmi.

8:45

La hostess passa con un carrellino pieno di bevande e dolci e panini. Mi chiede se gradisco qualcosa. O almeno credo che mi chieda questo, ma non sento la sua voce, vedo le sue labbra muoversi e faccio no con la testa, ma non sento le sue parole, perché ho una voce in mente “Mama” dice quella voce, è il mio bambino, gioca sul prato con un agnellino che gli abbiamo regalato e che tratta come un cagnolino: gli ha legato una corda al collo e lo porta a spasso, ci gioca, si addormenta appoggiato a lui. Ha due anni ed è il giorno del suo compleanno “Mama” e sorride, perché è un bambino che sorride sempre.

La hostess va avanti col suo carrello. Chiudo di nuovo gli occhi. I miei genitori hanno costruito da soli la casa in cui sono cresciuta e in cui è cresciuto mio figlio. È una casetta piccola, in un piccolo paese di montagna. Conosciamo tutti nel paese e quando sono arrivata a Milano mi faceva paura la città; per tanti mesi non sono uscita di casa, se non per accompagnare la signora dal dottore, poi ho conosciuto Olga, che era venuta a vivere nel palazzo per occuparsi di un anziano signore. Mi ha convinta a uscire nel mio giorno libero e andare con lei nel “posto delle badanti rumene”, lo chiamava così. È una panchina del Parco Trotter, dove ci riuniamo ancora adesso ogni domenica, scherziamo, ridiamo un po’ insieme, guardiamo sul cellulare le foto dei nostri figli. Olga ha anche un nipotino. Domenica scorsa abbiamo fatto una piccola festa per lei perché ha finito, torna a casa, in pensione. Le abbiamo comprato un regalo e molti dolci, perché è davvero golosa; lei è stata fortunata: certo, le sue figlie ormai sono cresciute e lei non c’era, ma suo marito è rimasto a casa e ora sono nonni. È stata in Italia per quindici anni, ma dice che sono passati velocemente, forse perché se i giorni sono tutti uguali passano sempre velocemente.

8:55

Riapro gli occhi e vedo di nuovo in corridoio le hostess, non hanno più il carrello del cibo, stavolta propongono biglietti della lotteria, profumi, cinture. Sono passati quaranta minuti dal decollo, ma mi sembrano dieci volte tanti, sono stanca, ho gli occhi pesanti.

So che manca ancora un’ora e mi sembra troppo poco. Ho paura dell’atterraggio, non voglio scendere in quell’aeroporto, non voglio salire sulla macchina che mi aspetta.

Chiudo ancora una volta gli occhi. Una domenica di cinque anni fa non sono andata al parco con le altre, sono rimasta a letto a piangere per tante ore poi mi sono alzata e ho strappato in mille pezzi la foto del mio matrimonio; mio marito era andato via da giorni, i miei genitori avevano aspettato, non lo avevano detto subito a me e, a mio figlio che chiedeva dove fosse il padre, avevano raccontato che era andato via per lavorare. «E allora non torna prima di Natale, come la mamma» aveva risposto lui. Quella domenica mattina avevo saputo. Otto anni di matrimonio: pochi? Tanti? Otto anni forse valgono come i secondi che servono a strappare una foto.

9:40

«Il comandante informa che è iniziato l’atterraggio. Tra circa venti minuti atterreremo all’aeroporto di Bucarest

Tra venti minuti dovrò liberarmi dalla cintura di sicurezza, prendere la mia borsa riposta sotto il sedile anteriore, alzarmi, mettermi in fila e poi scendere dall’aereo, camminare verso l’uscita; non mi fermerò a ritirare i bagagli, non ho regali con me, stavolta. Ho una borsa nera, non mi ricordo cosa ci ho messo dentro.

Ore 10:20

Mi ritrovo fuori, nel parcheggio, dove so che qualcuno è venuto a prendermi, mio zio, forse. Devo aver slacciato la cintura, preso la borsa, fatto la fila, ma non mi ricordo niente di tutto questo.

Non vedo mio zio arrivare davanti a me, me lo ritrovo davanti all’improvviso, le sue labbra si muovono, ma, come con l’hostess, non sento la sua voce. Prende la mia borsa e mi accompagna alla macchina tenendomi per un braccio.

Ci vogliono due ore: usciamo dal traffico di Bucarest, prendiamo una strada larga e quasi deserta, poi ci muoviamo su strade isolate di montagna.

Non dico una parola, lui forse parla, ma non lo ascolto.

Guardo fuori, ma mi sembra di non riconoscere le strade, le montagne in lontananza, niente di ciò che vedo mi è familiare, nemmeno la mia faccia che si riflette nel vetro del finestrino. Tutto sembra estraneo, freddo, morto.

Da bambina avevo paura dei mostri quando restavo a letto al buio, la sera; e giocavo a farli sparire, chiudendo gli occhi stretti stretti. Gioco anche ora, in questa macchina, se chiudo gli occhi il mostro sparisce. Li chiudo e vedo mio figlio.

Mama” è l’unica cosa che sento, non il rumore della macchina, non le parole dello zio, “Mama”, non ride però stavolta, mio figlio. Lo sto lasciando tra le braccia di mia madre, è piccolo, ma ha capito che non tornerò presto; in macchina mio marito mi aspetta per accompagnarmi a Bucarest, alla stazione degli autobus; prenderò un autobus fino a Milano, dove comincerò a lavorare come badante e i soldi di quel lavoro manterranno mio figlio. La schiena di mio marito gli impedisce di lavorare, ormai, dopo l’incidente, ma in Italia servono badanti, le cercano in molti e le donne rumene sono tra le più apprezzate. Mia cugina mi ha dato il numero dell’agenzia che l’ha portata in Italia, è stato facile. Io e mio marito ne abbiamo parlato a lungo, io ero decisa a farlo, non avevamo scelta, lui non voleva, ma alla fine si è convinto, non avevamo scelta.

Sono passati dieci anni da quella decisione, da quella partenza; sono tornata a casa a Natale, qualche volta, e d’estate ogni anno. Portavo tanti regali a mio figlio e mi accorgevo di conoscerlo sempre meno. Non conoscevo i suoi amici, non conoscevo i suoi gusti, le cose che amava mangiare; spesso gli regalavo vestiti troppo piccoli perché in nove mesi un ragazzo cresce, cambia, diventa alto, ma io ero ferma, il mio tempo era fermo, in quei mesi. Lo salutavo tra le lacrime ogni volta e il mio tempo si fermava a quel saluto; i mesi in Italia passavano come se fossi in apnea, non mi rendevo conto del cambiare delle stagioni, del freddo che diventava estate, delle giornate più lunghe; ero ferma in apnea, per tenere l’immagine del suo sorriso negli occhi e il suo odore nel naso quanto più a lungo possibile. E ogni giorno, sveglia alle sei, lavare, cambiare, vestire la signora, cucinare, darle le medicine, portarla fuori, poi riposino del pomeriggio, ancora medicine, televisione, minestrina della sera. E il giorno dopo ancora; il tempo passava, ma io restavo ferma all’ultimo abbraccio di mio figlio, per mesi. Lui però non restava fermo, cresceva, senza di me, senza suo padre. Era diventato alto e triste. Nell’ultima estate abbiamo litigato tante volte, non voleva che lo abbracciassi, stava fuori casa tanto tempo, sempre con gli amici e sempre arrabbiato. Mia madre sorrideva «Cresce, i ragazzi fanno così, non devi preoccuparti.» Poi ero partita, lo avevo abbracciato, lo annusavo e mi stupivo di quanto fosse cambiato il suo odore, non era più un bambino. Lo avevo stretto per qualche minuto, per portare con me un po’ di lui, per sentire quel corpo ossuto tra le braccia e ricordarne ogni spigolo. Poi ero andata via, tragitto in macchina, Bucarest, stazione degli autobus. Da quell’abbraccio sono passati otto mesi, un Natale che non abbiamo trascorso insieme e il rifiuto di parlare con me al telefono. Nella mia mente lui è fermo lì, con una maglietta gialla, il cellulare in mano, i capelli sudati, lo sguardo un po’ triste e un po’ arrabbiato. Mi devo costringere a pensare che non è rimasto fermo, ha continuato a crescere, a muoversi e a pensare. Si è ancora arrabbiato, ancora intristito, ha conosciuto nuovi compagni a scuola; ha riso, forse ha pianto, chissà se si è innamorato. Nei miei otto mesi immobili lui si muoveva, cresceva. Nei miei dieci anni in Italia, i miei immobili dieci anni in Italia, nella mia apnea, lui respirava e diventava più alto, aveva dei sogni, delle paure, cresceva.

Siamo arrivati. Scendo dalla macchina, prendo la borsa nera e mi avvio, fino a quando davanti a me leggo la scritta Morga. Obitorio, si dice in italiano. Entro, so che ho chiesto a un’infermiera dove andare, forse ho firmato qualcosa, ma non mi ricordo. Cammino in un corridoio lungo e poi entro da lui: lo guardo, ma non è mio figlio, non può essere lui, lui è fermo in quell’immagine estiva, con i capelli sudati e la maglietta gialla. Qui c’è un ragazzo nudo, coperto da un lenzuolo, con macchie viola su tutta la faccia, un ragazzo alto, che si è buttato da una finestra del quarto piano della sua scuola. Non può essere lui; lui deve restare fermo, fino a quando potrò tornare, ancora pochi anni, cinque forse e poi potrà crescere e cambiare e io ci sarò. E invece è accaduto in questi anni; dieci anni, in questo tempo è diventato un ragazzo triste e arrabbiato; dieci anni che sono passati in fretta, per me, sempre uguali e immobili. Lo guardo, non riesco a smettere di fissarlo e non riesco a piangere. Di nuovo in apnea, di nuovo immobile. Forse per il resto della mia vita.