Nella mia vita sono nata aspettando.
Il latte, come prima cosa, perché mia madre pensò bene di farmi gemella e meno lesta dell’altra nel succhiare. Gli amori, ho aspettato. Tanto. Perché mamma – ah! Che donna premurosa! – ritenne fosse cosa buona e giusta farmi anche brutta. Non di quella bruttezza totale, no. Indefinita. Vaga, se così si può dire. Bella a metà. Il che, a pensarci bene, è ancora peggio: significa spiragli di possibilità, confusione di verità e quindi attesa.
Percorrendo la mia adolescenza pagai lo scotto più doloroso: la speranza. Per farla semplice: se fossi stata brutta per intero, non avrei nutrito dubbi. L’interesse del più carino del liceo sarebbe stato un chiaro inganno. Un trucco. Un gioco crudele. Un mettersi d’accordo con altri, stronzi più di lui, per spappolarmi il cuore e poi berne i succhi infilati in un bicchiere. Spartirlo sghignazzando con gli amici al bar. Così si fa, no? Soprattutto con le brutte o con una come me. Un caso irrisolto, un caso tutto a sé. Un gran divertimento. Già.
Essere bella in parte, non troppo, non abbastanza ma neppure così poco, mi procurava l’agonia del poter credere alle lusinghe. Ha avuto facce e corpi diversi nel corso degli anni, il più carino del liceo, non sempre insincere. Certe volte era vero tutto, lo sentivo, ma ho preferito non rischiare. Interessarsi davvero a una come me? Era impensabile.
Per lungo tempo mi sono tenuta a margine della verità per semplice incoscienza e, più avanti, quando tutto iniziò a diventare chiaro, terrorizzata dal suo costo. Non l’ho compresa subito, forse succede anche a quelle belle per intero: tu vuoi me, me sul serio o l’involucro che mi rappresenta? Tu l’hai capito cosa sono io? Questa domanda non l’ho mai voluta fare. Mi sono presa il poco che mi dava quella verità, poco davvero, poco più del nulla. Graffi sul cuore, perlopiù. Offese di sesso usa e getta sul mio corpo così curioso.
La verità non ha mai confuso mia sorella. Per questo io l’ho amata, sempre. Anche se si è presa tutto dalla pancia della mamma. Non l’ha fatto con cattiveria, credo. Era piccola, magari quel tutto me l’ha scippato via per gioco. Forse me ne stavo distratta nella mia metà a succhiarmi il pollice o chissà cosa. Magari avrò dormito tutto il tempo, io, per non reclamare la giusta parte di capelli folti, la polpa rossa della bocca, la pelle liscia o gli occhi verdi.
Forse me ne stavo accovacciata a pensare a cose grandi che avrei fatto una volta scivolata fuori dalle cosce di mia madre: dipingere il mondo di colori, che ne so. Inventare cure sghembe per la malinconia, strategie di sopravvivenza equo solidale, sorgenti di energia ultra pulita, utopistici vaccini contro la malvagità. E mia sorella, nel mentre, infilava nel cestino della spesa tutto quello che era anche mio. Sullo scaffale rimase la seconda scelta, quella da discount.
Nella mia vita sono cresciuta attendendo una definizione, qualcosa che mi dicesse: questa sei proprio tu. Da ragazzina, per esempio, aspettavo che mi crescessero le tette. Passavo pomeriggi interi con l’immagine tatuata nello specchio, pregando lievitazioni (anche) impercettibili in una sorta di magia. E a letto, quando riempivo il vuoto di un amore con carezze tutte mie, nella confusione di brividi proibiti, sfioravo quella tavola di pelle stesa a pochi centimetri dal cuore. La straziavo tirandola forte con le dita sperando che crescesse: non è mai successo. Ero piatta. Maschia. Fallata. A metà, sospesa nell’attesa che accadesse qualcosa, che ne so. Un’altra me, per esempio.
Siamo rimaste sempre insieme io e mia sorella. Vicine, proprio come adesso. Sedute in un anonimo stanzone dell’anagrafe con i fianchi tiepidi accostati su una panchina di plastica. Aspettiamo il peso di venti persone in fila prima di noi, numeri smarriti nell’infinito della burocrazia. Sono nervosa, Gioia sorride. Mi dice che sto benissimo con i capelli un po’ più lunghi, che sono belli proprio come i suoi. E mi tiene forte le mani nell’attesa.
L’ha fatto anche alla soglia delle mie nozze, disse che avrei fatto ancora in tempo, che ci avrebbe pensato lei a.
A.
A fare cosa non si sa, la frase non l’ha terminata. A proteggermi, amarmi, a essere sorella generosa questa volta, a non scipparmi più bocca rossa e occhi verdi e capelli folti? Io avevo già iniziato a perderne un bel po’, sulle tempie. Forse lo stress, chissà. Me ne accorsi proprio il giorno del mio matrimonio, mi sono sposata che non avevo compiuto trent’anni.
Mia sorella l’ha sempre saputa la verità, ancora prima che mi scoprisse infilata in uno dei suoi vestiti migliori con le labbra accese di belletti che io non usavo mai. Il suo reggiseno tenero di trasparenze discrete, non certo da puttana, moriva floscio sul mio torace piatto. Aveva gusti fini mia sorella e tanto cuore. Non fece scenate, Gioia, lei sapeva già. Anche il mio nome inizia con la G, ma nel proseguo delle mie lettere non c’è mai stata felicità.
«Io ti voglio bene, disse. Tu sei una parte di me.»
«La parte brutta.»
«Brutta cosa? Brutta perché? Tu sei…»
«Sono cosa, Gioia? Cosa?»
La mattina in cui le rubai il suo abito più bello, come quel giorno in chiesa, prima che l’atrio risuonasse dell’ipocrisia di una marcia nuziale, Gioia mi strinse forte e disse: «Sei ancora in tempo per.» Poi mi sistemò i capelli e mi insegnò a truccarmi, la mia gemella con la pelle liscia. Nessuna cipria avrebbe mai potuto regalarmi la sua stessa faccia.
Non fece scenate Gioia, quando lo scoprì. La persona che sposai, invece, un anno dopo impazzì di rabbia. Mi vomitò contro tutto l’odio possibile, un’addizione a quello che mi ero sempre spalmata addosso io. C’ero riuscita, per un po’ di tempo, a essere altro. A imbrogliare la verità che alla fine si ribellò, ovvio che sarebbe andata così.
Siamo sedute su una panchina di plastica in uno stanzone dell’anagrafe, io e mia sorella. Il quadrante a scatti s’illumina. Un bip sgraziato segnala che tocca a noi. Ci alziamo insieme, appiccicate per i fianchi come due siamesi. Lo scontrino con il numeretto plana a terra, fa la cuccia nella polvere di un angolo.
L’impiegata resta a testa bassa. Neppure un buongiorno, neppure ci guarda in faccia. Poi legge la data di nascita sul documento, si accorge della coincidenza. Sorride, mentre solleva lo sguardo, «Tanti auguri, Gior…» ma si spegne appena capisce che.
«Giorgia?», dice imbarazzata con la biro in mano.
Ho il fondotinta, un velo appena. Il lucidalabbra color carne, soltanto una passata leggera di mascara; essere donna non significa una maschera di trucco. Giorgio è testardo, si affaccia ancora nell’impercettibile segno scuro che profila la mascella, nella voce più profonda del dovuto. La schiarisco in gola prima di rispondere, a breve cancellerò anche quest’ultimo strascico di lui.
«Giorgia, sì. Non si tratta di un errore. L’errore è stato prima, ma io non ho potuto farci nulla. Me la consegna o no questa carta d’identità?»
Cerchiamo l’uscita da quell’ufficio cupo di corsa, io e mia sorella. Due ragazzine sceme saltellano per i corridoi, abbiamo fretta: gli ultimi dettagli di una festa in grande, rispondere ai messaggi degli amici che ci chiedono conferma dell’orario all’ultimo momento. Compiamo quarant’anni, oggi. Mi sono regalata Giorgia per il nostro compleanno, ho fatto appena in tempo.
C’è uno specchio enorme nell’androne, Gioia mi tira per la felpa ridendo.
«Fermati, cretina. Fermati e guarda.»
Ci assomigliamo adesso, io e lei. Il mio tempo è stato meno lesto, ci ho messo mezza vita per raggiungermi.