Annalisa Fioretti, medico, alpinista e filantropa a ottomila metri

Devozione alla cima e dedizione all'altro come fili conduttori di un percorso di solidarietà che arriva fino in Siria

Annalisa mentre nutre un bambino in difficoltà in Nepal
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A volte l’amore è un fiume in piena, una marea inarrestabile che, non potendosi placare, necessita di essere sfogata. Ma la vocazione all’altro, l’umiltà di valere cento e professarsi un cinque, la devozione instancabile che porta a rimboccarsi le maniche anche quando si è sfiniti non è una caratteristica così comune, è appannaggio di pochi: nell’infinito mare di chi esprime opinioni ma non si sporca le mani, di chi si professa per l’altro ma lo fa da una comfort zone che di quest’altro non permette di conoscere che sfumature, abbiamo incontrato chi, davvero, non si tira indietro davanti a nulla.
Annalisa Fioretti è originaria di Carugate, mamma di due bambini, medico pneumologo ed esperta alpinista – con un palmares di scalate da far impallidire molti escursionisti della domenica – ma è anche fondatrice di una onlus (Il nodo infinito) e volontaria di diverse associazioni che si occupano di portare aiuto in zone difficili del mondo, soprattutto a donne e bambini, le categorie spesso più vulnerabili, più sole. Dalle pendici dell’Everest alla cima del Kangchenjunga, Annalisa ha scalato alcune delle famigerate «ottomila», una delle pochissime – si parla addirittura di 2 o 3 – donne italiane che ne hanno avuto la disciplina e il coraggio.

L’AMORE PER LA MONTAGNA

Una passione ereditata dalla nonna paterna, sua precettrice delle cime, maestra di montagna, che scalava alla maniera di una volta, con attrezzatura precaria, corde poco sicure e rigorosamente in gonna: «Lei era quella che mi sosteneva, capiva la mia passione. I miei genitori ne erano ovviamente spaventati, ma io ho continuato da sola, iniziando ad arrampicarmi con amici». Inizialmente unisce la vocazione per la medicina con l’ardore per la montagna partendo come ricercatrice per il CNR e medico d’alta quota – diversi i salvataggi effettuati nelle zone più impervie – ma dal campo base il desiderio per le cime la divora, e allora lei si attiva, racconta la sua storia e cerca sponsor in grado di concederle i permessi necessari a raggiungerle, riuscendoci.

LA TERRA TREMA: IL TERREMOTO, I SALVATAGGI, I PROGETTI E LE FOTOGRAFIE

È proprio quell’amore per la roccia che la porta, il 25 aprile del 2015, al campo base dell’Everest, pronta a sfidare ancora una volta se stessa e l’imponenza della montagna. La natura, però, aveva altri piani quel giorno, per lei e per le circa 8mila persone che non sono sopravvissute al forte terremoto – parliamo di una magnitudo di 7,8 – che ha agitato la terra nelle prime ore del mattino, seguito da una valanga devastante.

«In quel momento mi trovavo in tenda e mi sono salvata – ci ha raccontato Annalisa –, sono stata miracolata. Molti non sono stati così fortunati: i medici al campo erano in stato di shock, i feriti gravi erano moltissimi, e per quanto possa sembrare brutale era necessario concentrarsi su chi aveva possibilità di farcela». La situazione con cui si è trovata a dover fare i conti una volta uscita dalla sua tenda non è stata di facile gestione, ma Annalisa è medico e ha coraggio da vendere, così si è rimboccata le maniche e ha deciso di fare quel che poteva per aiutare i feriti, quel giorno e oltre, durante la scossa del 12 maggio – «di cui non parla mai nessuno» ci ha spiegato – e per tutti i 2 mesi di permesso che aveva ottenuto per scalare, ma che di scalate non ne hanno vista nessuna. C’era altro da fare, c’era da aiutare, scoprire, viaggiare.

Poi torna a casa, e si rende conto che tutto ciò che ha visto non può rimanere segregato dentro di lei, nei suoi ricordi o nella sua macchina fotografica. Così decide che per fare del bene non sempre è necessario trovarsi fianco a fianco con chi soffre: si può fare molto, ovunque, se si ha la determinazione per farlo. A settembre 2015 esce Oltre – Nepal, viaggio al contrario tra polvere e sorrisi, il libro fotografico nato per beneficenza che raccoglie le immagini di quel Paese che Annalisa ha imparato ad amare anche attraverso le lenti della sofferenza. «Dall’uscita del libro ho cominciato a ricevere inviti per alcune serate, e da quel momento in poi è stato un crescendo: ho iniziato a chiedere alcune quote per avviare progetti di ricostruzione lì dove il terremoto aveva distrutto tutto, ho trovato degli sponsor importanti».

NEPAL: STORIE DIFFICILI E PROGETTI DI SOLIDARIETÀ

I progetti di ricostruzione che Annalisa porta avanti riguardano zone difficili, in cui gli autoctoni non hanno mai visto un occidentale. «Il campo a Katmandu in cui abbiamo operato era raggiungibile solo dopo 3 giorni di una strada terrificante. Una volta lì ci siamo mossi grazie al supporto di un piccolo staff proveniente da un’associazione nepalese alla quale mi appoggio».

Un aiuto importante da parte di persone fidate, che permettono ad Annalisa di sapere perfettamente come e dove vengono impiegate le donazioni che raccoglie. Una cordata – è proprio il caso di dirlo – che non si ferma, e tra ricostruzioni di scuole e finanziamenti per migliorare le coltivazioni arriva fino a Casa Nepal, un progetto importante dedicato alle donne vittime di violenza e ai loro bambini. «All’interno di questa casa è diventata necessaria la costruzione di un’infermeria, perché spesso le donne arrivavano in condizioni sanitarie pessime, e prima di procedere al superamento del trauma e al reinserimento in società attraverso l’insegnamento di un mestiere diventava necessario curarle – ci ha spiegato Annalisa –. Prima le portavano in ospedale, ma l’impossibilità di essere seguite da personale specializzato in traumi come i loro rendeva ingestibile la situazione. Molte di loro tentavano il suicidio, bisognava verificare che prendessero i medicinali, e un’infermeria direttamente in struttura era diventata indispensabile». Annalisa lì ha a che fare con storie difficili, preadolescenti incinte, donne segregate per anni in una stanza, bambine violentate dai propri parenti in un crescendo di violenza giustificata da una cultura arcaica che permette all’uomo di fare ciò che desidera della donna se questa lo contraddice, non risponde ai suoi bisogni nel modo in cui desidera o si permette di fare il più banale degli errori, come bruciare il cibo. Una cultura maschilista e medioevale che Annalisa vuole contrastare con tutte le sue forze, dove possibile.

Un grande progetto in cui – per la prima volta a fine novembre – ha coinvolto anche Lara e Gioele, i suoi figli, perché aprendo gli occhi su un mondo diverso da quello a cui sono abituati possano assorbirne un po’ della forza, nella speranza che si sedimenti in loro. Intanto, quello che hanno fatto è stato sicuramente contribuire con entusiasmo alla creazione dei braccialetti destinati alle donne nepalesi, toccando con mano quella realtà difficile che coinvolge tanto la loro mamma.

«In alcuni di questi villaggi c’è ancora in voga una pratica secondo la quale quando una donna ha il ciclo viene allontanata dalla comunità e lasciata sola in una stalla per tutta la durata delle mestruazioni. Purtroppo durante questi allontanamenti spesso le donne vengono aggredite e mangiate da tigri, leopardi delle nevi, puma e altri animali comuni in quelle zone».

A darle speranza, però, è la forza della solidarietà incontrata in questo cammino: sono innumerevoli, infatti, le donne che l’hanno contattata per donarle qualcosa per queste “sorelle sfortunate”: alcune privatamente, altre attraverso la propria azienda, hanno voluto essere parte di quell’amore che è fiume in piena, riconsegnando una vita normale a queste donne dall’altra parte del globo. Paolo Cognetti parlava del Nepal come di un luogo in cui il tempo scorre in modo diverso rispetto al nostro Occidente: forse, grazie a questo donarsi «dalle donne per le donne», come lo ha definito Annalisa, in un certo senso gli orologi, per un attimo, si sono sincronizzati.

UNA NUOVA STRADA PER ANNALISA: L’AIUTO AL CONFINE SIRIANO

Proprio in queste ore Annalisa sta vivendo un’avventura diversa, in un territorio al centro delle cronache internazionali che non porta il nome di chi lo abita, e di cui ci parlerà al suo ritorno. Dal pericoloso confine con la Siria si occupa di distribuire aiuti ai bambini di un grande campo profughi curdo: 140 kg di vestiti, coperte, giocattoli, peluches, integratori, creme per ustioni e tutto ciò che ha raccolto in diversi mesi di lavoro incessante, in cinque giorni di completa dedizione all’altro e a una Terra che calpestiamo tutti con gli stessi piedi – solo, ma è questione di pura sorte, in angoli più o meno fortunati.