Immaginate una terra bellissima. Il lungo mare dove passeggia il commissario Montalbano, le chiese e terreni coltivati a perdita d’occhio. E’ la provincia babba, buona in Italiano, ovvero il ragusano in Sicilia. La provincia più ricca dell’isola, una terra con «più sportelli bancari di Milano».
Ora immaginate un ragazzo con una laurea in giurisprudenza e la voglia di fare il giornalista. Non quella voglia passeggera, un sogno in cui crogiolarsi, ma proprio la necessità di raccontare quello che avviene dove vive, Ragusa e la sua provincia. E’ la storia di Paolo Borrometi, giornalista che vive sotto scorta per aver raccontato gli affari della criminalità nella sua terra
LA SCELTA
«com’è possibile che nella provincia più ricca della sicilia la mafia non esista?»
Questa è la domanda che si fa Paolo Borrometi, mentre collabora per il Giornale di Sicilia pagato pochi Euro (lordi, ca vas sans dire) a pezzo. Da quel momento inizia a fare giornalismo investigativo. Chiede e approfondisce. E fare certe domande e approfondire alcuni temi significa fare rumore, disturbare, portare insomma alla luce affari, interessi e connivenze che, per alcuni, è necessario restino nell’ombra. E’ così che il 12 aprile 2014, dopo aver dato da mangiare al suo cane in campagna, Borrometi viene aggredito da due uomini. Il ricordo più lacerante di quell’esperienza, afferma, non è la spalla rotta che, giura, continua a fare malissimo, ma il senso di isolamento provato nei giorni immediatamente successivi. Da quel giorno si moltiplicano le minacce e viene incendiata la porta della casa dove vive con i suoi genitori. E’ però l’intercettazione di un boss, dove racconta i dettagli di un attentato che si sta organizzando nei confronti del cronista, a convincere le autorità ad assegnarli la scorta.
Mentre risponde alle domande di fuoridalcomune.it, prima di iniziare l’incontro per la presentazione del suo libro “Un morto ogni tanto” organizzato da Libera Casa contro le mafie di Cologno Monzese ieri giovedì 2 maggio, Paolo Borrometi fuma una sigaretta circondato dagli uomini della scorta. Sorride quando gli viene chiesto cosa li sia scattato dentro per portarlo ad occuparsi di mafia oltre il dovere di cronaca, oltre il riportare la notizia di un arresto o un sequestro. «Fare il giornalismo in Sicilia significa scontrarti con la corruzione, con la violenza delle mafie e con i rapporti tra mafia e politica – ha detto – A quel punto inizi a scrivere, a fare semplicemente il tuo dovere. Se hai una notizia di un boss mafioso che tratta con un politico, da buon giornalista non puoi far finta di nulla. Devi cercare riscontri e pubblicare».
LA MAFIA DEL RAGUSANO
A Vittoria c’è il più grande mercato ortofrutticolo del sud Italia. Da qui partono tutti i prodotti coltivati nel ragusano. Pomodori, melanzane e zucchine vengono stipate nei box, in attesa di arrivare nei supermercati di tutta la penisola (e non solo). Da qui bisogna partire per capire la criminalità ragusana. Una criminalità rurale, che affonda le sue radici nella terra. Plastica per coprire le serre, cassette, packaging. Nascosta in mezzo ad una marea di produttori e agricoltori onesti, la mafia si insinua in tutta la filiera. «La stidda nasce tra le provincie di Agrigento, Caltanissetta e Ragusa – ha raccontato Borrometi – Una mafia che abbiamo conosciuto poco, una mafia rurale, ma violentissima. Le agromafie si dividono un affare da 15 miliardi l’anno. Miliardi- ha sottolineato almeno un paio di volte– non milioni».
La Stidda non è l’unica organizzazione criminale ad aver messo le mani sul mercato agroalimentare. «L’affare è diviso tra Cosa Nostra, la Stidda, la ‘Ndrangheta e la Camorra. Hanno creato una sorta di holding, pensando che facendo squadra potessero contrastare l’attenzione dello Stato».
“BENVENUTI AL NORD”
Il sangue fa male agli affari. E’ questo, riassunto, ciò che Gustavo Gaviria cerca di far capire a suo cugino Pablo Escobar nella serie tv netflix Narcos. Paolo Borrometi non utilizza un concetto troppo distante per spiegare come le organizzazioni criminali si siano radicate nel nord Italia. «Al nord le mafie ricorrono alla violenza solo quando strettamente necessario. Al nord le mafie fanno affari, hanno portato i soldi da ripulire. Hanno compreso che la disattenzione della gente, della società civile e anche di certa politica crea l’Humus fertilissimo per attecchire. Qui al nord le mafie hanno il portafoglio pieno».
Una mafia penetrante insomma, che agisce nell’ombra. Una criminalità che, tornando a Narcos, agisce più come i gentiluomini di Cali che come i banditos di Medellin.