Silenzio sulla riva del fiume

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E’ l’alba il momento migliore per stare in silenzio, qui presso il fiume Yalu. Le sponde devono ancora rianimarsi dalla notte appena trascorsa e nessuno è del tutto sveglio, ci si limita a stropicciarsi gli occhi, bere del tè caldo e ammirare la riva opposta, dove inizia un  paese straniero. Io sono qui da una settimana e questo è il mio viaggio di formazione, sono partito dall’Italia da solo e ho attraversato l’Oriente per arrivare fino a qui, in Cina. Ho piantato una tenda in riva al fiume che mi divide dal mio prossimo obiettivo, entrare in Corea del Nord. Se ci riuscirò mi sentirò soddisfatto e, forse, si ravviverà in me il desiderio di tornare a casa.

Sono sette giorni che mi si presenta, ogni mattina, questo panorama onirico. Non mi sono ancora stancato di ammirarlo in silenzio, ma credo di essere il solo. Ho l’impressione che la gran parte dei cinesi attorno a me guardino all’altra sponda come a una scocciatura, un’incombenza da sbrigare prima di tornare alle loro case. Per queste persone si tratta di lavoro, questo è uno dei luoghi di maggiori scambi, più o meno legali, con i nordcoreani. Un punto nevralgico, seppur disabitato e atipico.

La riva dove mi trovo è una distesa di terra chiara smossa dal vento e dalle macchine che vanno e vengono, più in giù la spiaggia incontra la città e si erge il famoso ponte costruito dai giapponesi negli anni ’30. Io ho cercato un punto defilato rispetto alla frenesia di guardie e commercianti attorno alla struttura che sovrasta il fiume Yalu, qui si sta più tranquilli e nessuno mi ha disturbato fin adesso.

Dall’altra parte del corso d’acqua la sponda nordcoreana mi dona una visione arricchita da infinite tonalità di grigio. C’è il cielo spesso nuvoloso, non si tratta di centinaia di piccole nuvolette, ma piuttosto di un manto pesante e ombroso che copre tutto l’orizzonte sin dove il mio occhio riesce a guardare. Proprio di fronte a me si stagliano due edifici a un piano, li distinguo grazie ai due tetti così diversi, uno di tegole bianche lucenti e l’altro di lastre grigie di acciaio verniciato. Case forse, o magazzini. In realtà non ci ho mai visto nessuno lì intorno, soltanto i gabbiani lo sorvolano lenti e pazienti, non so cosa si aspettino. Gli edifici sono circondati da terra brulla, montagnole scure di terriccio, fieno vecchio e alberi. Tanti alberi si profilano lungo tutta la riva, sparuti o riuniti in gruppetti diffidenti. Il grigio del fiume sembra stemperarsi verso l’alto, i rami scarni s’imprimono su quelle lievi sfumature argentee. Pare che tutto fluttui nell’aria, come gli ultimi stralci confusi di un sogno quando  si è appena svegli. Si intuiscono con gli occhi ancora semichiusi ed è proprio la sensazione che ho io, mentre il sole dona luce al panorama e le mie ossa si riprendono dopo un’altra notte in un giaciglio scomodo.

Qui nessuno parla con me, sono giorni che sto in silenzio, ma non mi dispiace. E’ un’esperienza nuova, in un certo senso appagante, ma ristoratrice. Mi permette di pensare agevolmente e con tutta la calma di cui necessito, nessuno può disturbarmi o interrompere una lunga linea infinita di pensieri concatenati. E’ il magico potere di questo luogo di passaggio.

La notte fa freddo, ma mi sono attrezzato con i vestiti adatti e non soffro. Compro bottiglie d’acqua da un ambulante che gira dopo il tramonto, vende ai commercianti che si preparano ai loro traffici fluviali notturni. Il mio cinese è stentato e assolutamente elementare, ho capito sin dal mio primo acquisto che non ci saremmo mai capiti, così compro in silenzio. Gli do i soldi e lui mi lascia l’acqua, il tè me lo sono portato dietro partendo e la scorta non è ancora terminata. E’ l’unica bevanda che riesca a scaldarmi con questo clima, preferisco non bere alcool e rimanere vigile.

Penso che domani, o magari il giorno seguente, passerò il fiume su uno dei tanti barconi che l’attraversano sotto la luna. Devo solo trovare quel pizzico di coraggio che ancora si nasconde, in realtà mi sento in pace qui, con le mie poche cose, a riflettere. E’ quello che nella mia vita mi è sempre stato più difficile, mi sembrava di correre ininterrottamente dalla mattina alla sera, da un giorno all’altro, senza mai riuscire a quietarmi. Incombenze, impegni, il lavoro, le questioni familiari, i sogni che richiedono tanto tempo, mi sentivo sul punto di crollare e così sono partito. Viaggiare è sempre stata la mia grande passione, volevo scoprire il mondo, tutto e così ho cominciato dirigendomi verso est. Non so se mi sono ritrovato qui consapevolmente o è stato l’istinto a guidarmi, ma va bene così.

In silenzio ho anche aiutato una ragazza a salvare il suo cane, è successo proprio ieri.

Non so da dove venisse, non l’avevo mai vista, ma passeggiava tenendo al guinzaglio un meticcio nero e bianco dal pelo lungo. Lei era nascosta dentro a un grande giaccone imbottito color prugna e aveva un cappello di lana bianco sui lunghissimi capelli neri, l’ho notata subito. Non passano tante ragazze da queste parti ed era molto carina. L’ho osservata, a un certo punto ha liberato il cane per farlo correre. Il meticcio è partito di corsa, felice, ma deve essere stato attirato da qualcosa nell’acqua e si è avvicinato troppo. Forse un rospo o un insetto ronzante tra l’erbetta rada che cresce vicino al fiume. Si è buttato dentro senza paura, lei l’ha chiamato gridando, un nome impronunciabile e poi ha iniziato a spaventarsi. Le emozioni umane non hanno bisogno di molte parole per essere spiegate, era chiaro che si stava preoccupando. Ha iniziato a correre anche lei perché il cane aveva iniziato ad annaspare, l’acqua era gelida.

Così mi sono guardato intorno, ma c’eravamo solo noi. Tre puntini colorati su uno sfondo grigio. Lei con la sua giacca violacea, io con la mia blu e il cane, bianco e nero. Stonavamo in quell’abitudinario grigiore. Mi sono alzato e l’ho raggiunta di corsa, vedevo che il cane guaiva, se fosse rimasto ancora nel fiume sarebbe sicuramente annegato. Lei aveva timore ad avvicinarsi all’acqua, così cercando di aggrapparmi a una radice monca mi sono sporto verso l’animale. Lo chiamavo come si fa con tutti i cani del mondo, cinesi o italiani, e lui ha cercato di nuotare nella mia direzione. Ci è riuscito quel tanto che bastava perché io gli afferrassi una zampa e lo tirassi a me. Poi l’ho preso in braccio e lasciato sulla terraferma. Il cane mi guardava con tale gratitudine che ho preso una coperta dalla mia sacca e gliel’ho avvolta intorno al corpo, tremava.

La ragazza, dopo essersi asciugata le lacrime, mi ha abbracciato con slancio. Una cosa rara, la spontaneità, qui. Io le ho sorriso e ho chinato la testa, segno universale di benevolenza da queste parti. Lei ha unito le mani e continuava a sorridere, le si vedevano tutti i denti ed era bellissima. Non ha pronunciato neanche una parola, ha preso in braccio il suo cane e ha ricominciato a piangere. A gesti le ho fatto capire che poteva tenere la coperta e lei faceva di sì con la testa. Chissà se me la riporterà prima che io decida di attraversare il fiume, chissà.

E’ incredibile quanto si possa essere comunicativi senza parlare, lasciando libertà agli occhi, alle rughe, alle labbra, alle mani e alle braccia. Sanno dire molto più di quel che pensiamo di poter trasmettere con la lingua, è una lezione che ho imparato da poco e che sto ancora assimilando. Gli occhi vengono spesso sottovalutati, eppure sanno parlare senza sosta. Anche quelli della ragazza cinese mi stavano dicendo un milione di cose insieme e penso di essere riuscito ad afferrarle tutte, un poco alla volta.

Ho quasi finito il mio tè stamattina e il sole è ormai alto. I primi gabbiani hanno raggiunto il tetto bianco, si fermano sulla grondaia  e guardano in basso, verso le finestre chiuse, curiosi.

C’è trambusto alla mia destra, un barcone carico di casse di legno è fermo vicino alla riva. Due ragazzi giovani ci stanno salendo, si guardano intorno sospettosi. Quello che deve essere il proprietario del barcone gli fa segno di sbrigarsi, ma lei trasporta una borsa che sembra molto pesante e fa fatica a issarsi sulla barca dondolante. Il ragazzo che è con lei continua a scrutare l’orizzonte, sembra distratto e infatti il barcaiolo interviene al posto suo. Quasi la prende in braccio, la ragazza. Lei annuisce appena, anche loro si muovono in una bolla di silenzio. L’unico rumore che li circonda è quello del giovane che muove i piedi sul fondo legnoso dell’imbarcazione e poi lo schiocco della cima che viene slegata da un palo di ferro infilato nella sabbia. La barca può prendere il largo, si muove prima molto lentamente, poi piano piano prende velocità. Il marinaio non dice niente, guarda la giovane e sembra preoccupato, poi si dedica a ritirare la corda che penzola nell’acqua chiara. Il fruscio della canapa contro il bordo sporgente della barca arriva sino a me, che li accompagno con lo sguardo fino all’altra riva. Lì diventano tre puntini indistinti e subito scompaiono.

Mi alzo e sciacquo la tazza. So per certo che anche il mio viaggio, come la mia permanenza qui, non richiederà parole. Basteranno il mio braccio a indicare la Corea e le mie mani a offrire un compenso e ringraziare l’interlocutore. Nessuno si aspetta altro da me, e questo mi tranquillizza. Devo solo decidermi. Ripongo le mie cose nella tenda e tiro fuori dalla sacca un libro di poesie. Non me lo sono portato da casa, era l’unico libro in italiano venduto da una piccola libreria di Dandong, la città più vicina al fiume. Non ho potuto resistere dal comprarlo, mi accompagnerà per il resto del viaggio.

E’ una raccolta di poesie di Ungaretti, che strano incontro da fare a più di ottomila chilometri da casa. Una in particolare mi ha rapito e l’ho riletta diverse volte, da quando mi sono accampato qui. Recita così e s’intitola Silenzio.

 

Conosco una città

che ogni giorno s’empie di sole

e tutto è rapito in quel momento

 

Me ne sono andato una sera

 

Nel cuore durava il limio

delle cicale

 

Dal bastimento

verniciato di bianco

ho visto

la mia città sparire

lasciando

un poco

un abbraccio di lumi nell’aria torbida

sospesi

 

Mi ha colpito molto e anche ora, mentre tengo questo libricino tra le mani, sento in cuor mio che presto dovrò veder scomparire un’altra città. La lascerò da questa parte del fiume, la sottile nebbia dell’alba circonderà ogni zolla di terra, ogni essere, anche il carretto del venditore e il profilo stesso del grande ponte andrà frantumandosi nella bruma cinerea che sale dall’acqua. Toccherà anche a me confondermi con essa e valicare lo Yalu così, come un fantasma sospeso nell’aria.