Parole sul pavimento

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E quindi è questo il silenzio?  Questo è il silenzio? Quello vero… Quello vero intendo. E’ questo? Finalmente! Io ci ho provato un sacco di volte. A sentirlo. A farlo sentire agli altri più che altro. Non c’era verso. Non c’era verso di non passare per quella antipatica. Antipatica. Asociale.  Stupida. Sì, stupida… Stupida io che mi ostinavo a non alzare un muro definitivamente. Incomunicabilità. Alienazione, avrebbe detto Roger Waters.  Avrei dovuto alzarlo quel muro. Oppure, adesso, è meglio così.

Non c’era verso di non passare per quella antipatica.

–       Giulia scendi, la colazione è pronta.

Una voce sempre di rimprovero la sua. Tanto che a volte mi facevo delle domande. E quelle  poche volte che decidevo di parlare, ecco che già mi ero pentita. Mamma ma almeno tu mi vuoi bene?

–       Mamma ma tu mi vuoi bene?

–       Sì certo. Io sì. Sei tu che non te ne vuoi. Lo psicologo ha detto che stai facendo progressi e questi progressi aumenteranno; ma tu ti devi aiutare, Giulia.  E poi … Anche stanotte non sei andata a letto prima delle tre. Ma dov’è che te ne vai fino a quell’ora? Hai solo diciassette anni. Se ti succede qualcosa? Fuori è pericoloso. Non ci pensi a me e a tuo padre? Tuo padre che si fa in quattro per te.  Ma no, tu devi fare la rivoluzionaria. E non parli… Non dici niente.

Oddio quattro. Per carità uno ne basta. Uno ne basta davvero. Fuori è pericoloso? Ah fuori… Certo.

–       Ma vuoi rispondere? Vuoi rispondere una buona volta?

–       Ciao piccola.

 

Oddio… Solo la voce mi dava fastidio. Quel suono così… così violento. Ecco come lo percepivo. Figlio di puttana.

 

–       Ti ho cercata ieri sera. Dove sei finita?

–       Ma vuoi rispondere a tuo padre almeno?

Padre?

E quindi è questo il silenzio? Finalmente!

 

 

 

–       Ciao Giulia.

Laura. Una amica sincera. Adoravo la sua voce. Quel suono così… così premuroso. Ecco come lo percepivo.

–       Qualche volta potresti anche rispondermi. Stai bene? Dimmi che stai bene. Odio quando non mi sorridi.

–       Ciao Laura. Sì sto bene grazie.

–       Oh, guarda… Guarda come sei più bella quando sorridi e quando mi parli. Oggi sono riuscita a vedereti anche sei denti. Un evento, signore e signori!

–       Scema.

–       Poche parole come al solito e neanche oggi un complimento. Grazie. Ma sono contenta che almeno con me qualche parola la dici. Mi sento una privilegiata.

 

Laura… Quanto la amo. Forse avrei dovuto dirglierlo. Dopotutto non l’ho mai sentita parlare di ragazzi. Che avesse un segreto anche lei? Un segreto che non sarebbe mai stato come il mio. Un marchio sporco. Indelebile.

–       Dai ancora qualche momento di libertà, che tra due fermate sale Marco.

–       Che palle! Io già c’ho i cazzi miei. Manca solo quel deficiente che viene a rompermi il cazzo.

–       Oxford, ladies and gentlemen. Oxford! Lezioni di eleganza oggi. Poche parole ma … profonde. Un applauso, signori.

–       Scema.

Eccolo l’idiota.

Non c’era verso di non passare per quella asociale.

–       Ciao Laura. Oh… Ma guarda un po’ chi c’è… la nostra amica silenziosa.

Che fastidio la sua voce. Quel suono così… così irritante. Ecco come lo percepivo.  E se c’è una cosa che non sopporto è la gente che deve per forza toccarti quando ti parla. Se poi è un uomo ancora peggio.

–       Almeno ciao potresti dirlo al tuo amico Marco.

Amico?

–       Sei davvero un’asociale.

–       Ma ti tieni le mani a posto?

–       Oh ma allora una voce ce l’hai! Ed  è anche una bella voce… Ok, ok, non ti tocco. Cos’è? Ti ecciti?

 

Se c’era una cosa che mi piaceva era alzarmi, fare il dito medio e cambiare posto quando sull’autobus qualcuno mi rompeva le scatole. Maledetti autobus. Così stretti. Non puoi evitare i contatti fisici.  Beh, almeno dove sono ora non può succedere.

E quindi è questo il silenzio? Finalmente!

 

–       Buongiorno ragazzi.

–       ’giorno prof.

–       ’giorno prof.

–       Prof., io glielo dico già adesso… Ariosto non so un bel niente.

–       Ce ne faremo una ragione Matteo. Io la maturità ce l’ho già. E tu?

–       E io ci sto riflettendo, prof. Sa che Justin Bieber non è diplomato? Però è ricco.

–       Sì ma Justin Bieber è bello.

–       Più di me?

–       Chiedilo a Serena.

–       Sere, ti avviso: te ne torni a piedi a casa eh…

Matteo mi fa ridere. Fa lo scemo ma è educato e riservato. Lui non ha mai commentato i miei silenzi mancandomi di rispetto.

Quell’aula l’ho sempre odiata. Quei muri alti e grigi. Che tristezza. L’unica cosa che salvavo era la finestra. Enorme. Con un enorme davanzale dove appoggiarsi e guardare lontano. Vedere la libertà… da lì si può. Non c’era verso di non passare per quella stupida.

–       Giulia, anche oggi mi tieni il muso? In tal caso non mi preoccupo, vuol dire che nel weekend è rimasto tutto come prima. Tutto come sempre. Dicono che a volte è meglio così. Nessuna nuova, buona nuova.

Nessuna nuova, buona nuova. Nel weekend è rimasto tutto come prima. Già, tutto come prima.

La professoressa Cecchini ci tiene a me. Si vede. Riesco a sentirlo. Mi piaceva la sua voce. Quel suono così… così attento. Ecco come lo percepivo.

E quindi è questo il silenzio? Finalmente!

E’ così difficile capire quando una persona non vuole parlare tanto per dire qualcosa? Parole al vento. Che palle. Come quelli che la mattina appena ti incontrano hanno già qualcosa da dirti. Ma che cavolo vuoi dire? Sono le sette. Non è ancora successo niente. Ah no. Mi sbaglio. L’ex fidanzato o fidanzata ha postato qualcosa di sospetto su Facebook nella notte. E che cazzo me ne frega?  Non ho niente da dire. Non ho niente da dire a nessuno. Ma in questo mondo costruito sulla comunicazione, chi sta in silenzio è fuori dal mondo. In un pianeta  costruito sui social, se non parli sei a-social. Sei fuori. Però nessuno prova a domandarsi perchè non parlo. Perchè non ho niente da dire o perchè non voglio dire. Le cose che so. Le cose che ho vissuto. Le cose che provo. Le vorrei urlare. Le vorrei gridare a tutto l’universo. Perchè qualcuno punisca chi deve essere punito; perchè qualcuno cancelli il mio dolore, la mia vergogna, la sporcizia che ho sulla pelle. Questo odore. Questo odore schifoso di dopobarba dozzinale. E invece niente urla, niente grida, niente universo, solo silenzio.

–       Secondo me sta in silenzio perchè vuole fare la stupida.

–       Anche secondo me, bro.

Che stronzi, si battono pure il cinque. Brother: infantili.

–       Marco, Elena, alla lavagna. Subito.

–       Prof., dai… Ti sei offesa, Giulia? Scusa… Dai Prof. …

Ti sta bene, stronzo, che non hai studiato un cazzo…

E poi c’era lei. La campanella dell’intervallo. La odio. A modo suo anche lei era una voce. Riesco a sentirla. E la odiavo. Odiavo la sua voce. Quel suono così… così cattivo. Ecco come lo percepivo. Condannata a dovermi relazionare per colpa del suo suono. E i venti metri che mi separavano dal bagno: una tortura. L’agente Starling che cammina nei corridoi del manicomio dove tengono Hannibal Lecter. Con i pazzi che le gettano addosso liquidi corporei e insulti impronunciabili.

–       Sta passando la muta.

–       Giulia… Ma almeno quando scopi, il tuo ragazzo ti fa gridare?

–       Oh Bionda… Quante sono queste?

–       Hey Giulia, dimmi qualcosa dai.

Non sei capace! L’ha detto Serena a Silvia Curti ieri in bagno. Sei fortunato che non voglio parlare.

Quando non ho il ciclo riesco a trattenermi fino a quando torno a casa. Ma ogni ventotto giorni mi tocca questa gogna. Così faccio più in fretta che posso, poi entro in classe e me ne sto da sola affacciata a quella grande finestra. Vedere la libertà… da lì si può. E su quel davanzale, viene sempre a trovarmi  un passerotto che secondo me ha capito tutto,  perché  mi dice ‘cip’ una volta e poi non cinguetta più.  Da lì riuscivo a vedere le colline dell’entroterra ligure. La loro alternanza tra curve morbide e cime aspre assomigliava ad una conversazione tra chi non ha voglia di parlare  e chi invece, con voce acuta, deve per forza dire la sua. Insomma  il riassunto della mia vita. E poi arrivava la sua mano leggera sulla mia spalla. Delicata come il morso di una gatta sulla collottola del suo cucciolo.

–       Giulia, io lo so che non vuoi dire niente. E so che non è pigrizia. Riesco a sentire  che c’è un problema. E più me ne convinco, più il tuo silenzio mi sembra un grido disperato.  Me ne starò quì buona buona e quando avrai voglia di sfogarti io ci sarò.

–       Grazie Laura.

 

Mi diede un bacio sulla guancia e andò a sedersi al suo banco come sempre.

 

 

E pensare che da piccola parlavo così tanto che mamma non sapeva come farmi stare zitta.  E poi? E poi è successo. Il maledetto giorno di ferie. Il fottutissimo giorno di ferie di otto anni fa. Quella fu la prima volta.

 

–       Papà, come mai la mamma è andata al lavoro e tu no oggi? Mi accompagni a scuola?

–       No Giulia, oggi non andrai a scuola.

–       E perchè?

–       Perchè ho preso un giorno di ferie per stare con te.

–       Che bello! E che facciamo?

–       Facciamo un gioco nuovo.

–       Davvero?

–        Sì ma questo è un gioco segreto. Nessuno deve sapere che facciamo questo gioco.

–       E perchè?

–       Perchè funziona così. E per cominciare dobbiamo assicurarci che la porta di casa sia chiusa bene e dobbiamo abbassare tutte le tapparelle.

–       Giochiamo al buio?

–       Quasi.

–       Ma papà, perchè ti spogli?

In meno di un quarto d’ora, il dottor Lecter era dentro di me.

 

–       Papà mi fai male… Papà mi fai male… Ahia… Ti prego basta.

 

E io, l’agente Starling, con gli occhi pieni di lacrime, non dissi più nulla. Sentivo la puzza di quel dopobarba sul mio corpo. Il dopobarba che fino a un’ora prima mi sembrava l’odore più buono del mondo, ora lo odiavo. Piangevo. Piangevo in silenzio. Non capivo. Non capivo cosa. Non capivo perchè. Questo dottor Lecter era l’evoluzione del cannibale che tutti conoscono. Lui non stava mangiando il mio corpo. Stava divorando il mio futuro, la mia vita e una parte della mia anima. L’altra parte stava scivolando, fredda, sulle mie guance. Mi specchiavo in quelle lacrime per terra e la vedevo lì: l’anima di una bambina sporca, cattiva, colpevole. In quelle piccole e fredde gocce salate c’erano le mie parole future. Sono rimaste lì da allora, sul pavimento della cucina. Lasciando quasi solo silenzio dietro le mie labbra. La sua voce mi dava fastidio. Quel suono così… così violento. Ecco come lo percepivo. Figlio di puttana.

 

–       Non dovrai dire niente a nessuno, Giulia, perchè altrimenti questo dolore lo farò sentire anche alla mamma. E lei soffrirà. E sarà solo colpa tua. Vuoi fare del male alla mamma?

 

Scossi la testa. Poi ricominciò la tortura. La tortura che dura da otto anni.

 

Il professor Mura non era cattivo, ma antipatico sì. Antipatico. La sua voce mi urtava i nervi. Quel suono così… così fastidioso. Ecco come lo percepivo.

–       Dai ragazzi … Ricreazione finita, mettiamoci seduti, forza.

–       Vaffanculo muta… E’ colpa tua se io e Serena abbiamo preso quattro.

Fottiti Marco.

–       E tu Giulia? Oggi mi parli? Vieni tu alla lavagna? Perchè non parli? Perchè non parli mai? Ti vergogni? Ci metti in difficoltà. Devo anche interrogarti.  Devi smettere di nasconderti dietro ai tuoi silenzi. Non sei muta. Io lo so.

–        Ma quale muta, prof., è stupida. Stupida! E’ solo una stupida. Ma non vede che faccia da ebete? Sei una stronza! Altro che muta.

–       Serena, zitta. Nessuno ti ha chiesto niente.  Ti prego Giulia dì qualcosa.

Basta. La misura era colma. Il silenzio dietro le labbra sparì in un tempo brevissimo. Mi alzai in piedi sulla sedia. Mi guardavano tutti. Mi guardavano tutti. Mi guardavano tutti, cazzo. Mi guardavano tutti.

Muti.

E gridai. Gridai con tutto il fiato che avevo.

–       VOLETE CHE DICA QUALCOSA, GIUSTO? MI CHIEDETE PERCHE’? MI CHIEDETE PERCHE’? MI CHIEDETE IL PERCHE’, CAZZO?! MI CHIEDETE PERCHE’ NON DICO UNA PAROLA, PERCHE’ STO ZITTA, PERCHE’ NON HO VOGLIA DI DIRE NIENTE?… MI CHIAMATE MUTA, MI CHIAMATE STUPIDA… VA BENE, VI ACCONTENTO, COSI’ SIETE FELICI! MIO PADRE MI VIOLENTA. MIO PADRE MI VIOLENTAAA! MIO PADRE MI VIOLENTAAA! MI SENTITE? MI SENTITE ADESSO? MIO PADRE MI VIOLENTA. DA OTTO ANNI. MIO PADRE MI VIOLENTA. MIO PADRE MI VIOLENTAAA!

 

Gridavo. Gridavo e piangevo. E piangevo così  forte da non riuscire a respirare tra una parola e l’altra.

 

Laura si alzò. Mi abbracciò, mi scaldò. Mi prese le mani.

 

–       Basta, Giulia. Basta… E’ finita. E’ finito tutto. Vieni qui da me.

 

Mi stringeva. Ma io continuavo. Continuavo. Singhiozzavo e urlavo. La mia anima aveva lasciato il pavimento della cucina riportandomi tutto. La mia anima aveva lasciato il pavimento della cucina riportandomi il grido di  un’ingiustizia taciuta. La mia anima aveva lasciato il pavimento della cucina riportandomi la libertà.

–       Mio padre mi violentaaa! Aiuto, vi prego. Aiutatemi… Aiuto…

 

Non respiravo più. Ero in ginocchio per terra. Senza forze. Senza fiato.Vuota. Completamente vuota. Tremavo. Tremavo di dolore tra le braccia di Laura. Bagnata dalle sue lacrime. Le parti si erano invertite. Ora c’era solo la mia voce. Persino Marco aveva la testa tra le mani. La scuoteva. Corse fuori, piangendo. Forse non era così stronzo. Mura stava impietrito sulla sedia. Mi venne incontro. Mi tese la mano.

–        Non mi tocchi… Non mi tocchi, per dio! Non mi tocchi. Mi fate schifo. Mio padre mi violenta. Mio padre mi violenta. Mi ha rubato la vita. Si è preso tutto. Si è preso tutto. Si è preso tutto, maledetto. Che sia maledetto.

 

Laura mi abbracciava e non smetteva di piangere. La spinsi via. Andai verso la finestra. La bellissima finestra della mia classe. Vedere la libertà… da lì si può.

 

–       Laura ti amo.

 

Le mie ultime parole.

Fu il mio viaggio più breve ma anche il più bello. E mentre volavo verso il silenzio, il rumore dell’aria mi accarezzava con  feroce dolcezza.

E ora in questa enorme scatola di legno, alle spalle di questa lapide, comprendo in pieno quanto è bella la pace.

E quindi è questo il silenzio? Questo è il silenzio? Quello vero… Quello vero intendo. E’ questo?

Laura si avvicinò posando una rosa delicatamente.

–       Anche io ti amo Giulia… Ma non serve che mi rispondi. Dopotutto lo hai fatto così poche volte. Mi ci sono abituata. Ora devo andare però. Ho un impegno.

 

Poi la vidi allontanarsi con il suo zainetto. Capii. Capii subito.

 

Lascia stare Laura. Lascia stare.

 

Raggiunse casa mia in breve tempo. Odiavo il campanello di casa. A suo modo una voce. Un suono  così… graffiante. Ecco come lo percepivo.

 

–       Chi è?

–       Signor Parodi sono Laura.

–       Ah… Ciao. Vieni, entra pure. Come stai?

 

La lama del coltello che Laura aveva messo nello zaino entrò nel petto alle sedici otto minuti e venti secondi. Al ventunesimo secondo, spinta da una forza piena di odio, uscì dalla schiena. Il corpo di mio padre cadde nel suo sangue in un rumore sordo. Un rumore che sembrava una voce. Una voce mi piaceva . Quel suono così… così piacevole. Ecco come lo percepivo. Poi chiamò la polizia. “Venite a prendermi, ho ucciso il mostro”. Poi si sedette di fianco al corpo freddo di quel bastardo e aspettò.

Non mi interessava più il silenzio.  Ripensavo al rumore sordo del cadavere di mio padre.

Quel suono così… così piacevole.

Quel suono così… così piacevole.

Quel suono così… così piacevole.

Quel suono così… così piacevole.

Quel suono così… così piacevole.