Nulla tattico

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hanno infilato preservativi su tutte le rose del mio piccolo giardino.

qui a Tokyo fa freddo e ogni storia d’amore è un fiore fragile, si spegne anche per un sorriso al momento sbagliato o per una parola appena velata di ambiguità.

i teppisti del mio quartiere hanno capelli tagliati a casaccio e giubbotti in pelle macchiati di vernice, ogni colore differente rappresenta una specie di grado nella loro folle gerarchia per cui uno comanda e l’altro obbedisce. direi che non è una novità.

il tempo mi sta diventando amico. è come imparare a suonare uno strumento musicale, non ho più addosso quella fretta ansiosa che ciclicamente mi prendeva e mi faceva vivere male tutto.

non ci crederesti quanto sono cambiata, vado anche in palestra a fare arti marziali e ho una piantina bonsai che potrebbe fiorire con la prima luna di primavera.

è vero, i giapponesi sono esseri umani goffi, scarseggiano in senso dell’umorismo e parlano un inglese monotono, ma sudano poco e sono naturalmente gentili e incredibilmente generosi con chi mostra di prendersi cura dei loro sentimenti.

 

(sentore di erba tagliata)

pensavo di prendere una scimmia, da tenere qui in casa, i ragazzi non vedono l’ora.

cosa ne pensi?

ora che ci rifletto tu hai molte cose in comune con le scimmie.

intelligenti senza dubbio, ma si sbattono solo se intravedono almeno una banana.

eri così e secondo me non sei cambiato. geloso fino in fondo dei tuoi difetti. cercare la perfezione è uno sbaglio e noi due di sbagli ce ne intendiamo.

ho ancora delle foto tue, pensavo di averle abbandonate tutte al loro destino nei giorni della rabbia e delle rappresaglie, invece. mi hanno raggiunto fino qui.

sono le foto di Alicante, traboccano di sole e calore, tu sorridi da stupido con la luce negli occhi, nero come un latino e scazzato come un nordico.

non ricordavo quelle foto, tranne una. avevi insistito tanto per farla, appoggiato a un muretto, guancia a guancia con un somaro, appena posso la trasformo in una sequenza di zeri e uni e la butto sulla nuvola.

ti stupirai di quanto è intelligente lo sguardo di quell’animale.

 

(unghie smalto graffio)

ieri ho incontrato una mia reincarnazione futura.

in testa portava un casco rosso dotato di antenna parabolica che governava grazie ad un telecomando legato alla cintura e al collo appeso un mini televisore, stava sotto questa pioggerella lieve e finta, c’è quasi tutte le sere, educatamente ti chiedeva che programma volevi vedere.

vorrei vedere una partita di tennis, dall’inizio alla fine, è una vita che non lo faccio.

vorrei vedere una partita e anche la pallina, se non tirano troppo forte, tipo Adriano Panatta contro Vitas Gerulaitis, due capelloni che vanno avanti per cinque set sulla terra rossa palleggiando da fondo campo, senza fretta di vincere, lunghi scambi cadenzati dal suono della pallina che impatta sulle corde della racchetta e lo spostamento d’aria.

ogni tanto cerco di capire chi sono diventata, vedermi da fuori.

ti ricordi quella gara scema che facevamo. sceglievamo uno qualunque per strada, dalla faccia e da come era vestito, da come si muoveva dovevamo capire chi era, e tu vincevi sempre.

uno di quei giorni invernali in cui Tokyo sembra il posto ideale per lasciarsi morire, credo di averli capiti, i giapponesi, quelli che hanno tutto, quelli che non riesci a guardare negli occhi.

i giapponesi hanno bisogno di parole d’amore.

mi siedo qui, dove ho una piccola scrivania davanti ad una veranda, guardo le mie rose bianche striate in fila per sei e scrivo lettere d’amore. lunghe, brevi, disperate, sognanti, sincere, maliziose, tristi…

scrivo quello che per loro sembra impossibile tirare fuori, per pudore, per pigrizia, per ottusa modernità, per mancanza… boh?

in realtà questa gente io ancora non l’ho capita per niente, quello che so è che mi danno una grande tranquillità, anche ai ragazzi fanno lo stesso effetto e questo mi permette di vivere e scrivere con una serenità che non ho mai avuto prima.

non parlo di futuro o felicità, il solo pensarci mi isterizza.

sai che cosa mi ha detto nostra figlia la notte scorsa?

dice che è ora di trovare un uomo, per carità nessuno che mi somigli, su quello è stata categorica. il mio caro angelo.

tu che di angeli ne hai una mezza dozzina che ti consigliano e ascoltano e condizionano, che affollano i tuoi sogni.

non saranno troppi? così affettuosi, così diversi, così ingombranti, così prepotenti a volte.

sai bene che io non ho mai avuto un buon rapporto con la tua folla di angeli custodi, ho sempre detto che avrei preferito come avversaria un’altra donna piuttosto che loro. cosa diamine si può dire o fare contro un angelo?

 

(soglia tra notte e noia)

a volte penso che l’unica realtà sono le lettere d’amore.

le scrivo a mano, con una stilografica dono di mia madre, su fogli di carta bianca, completamente bianchi, di un bianco quasi innaturale, li compro in un negozio per feticisti della carta al centro commerciale qui vicino.

mi aiuta il bianco. mi isolo con delle cuffie, sono enormi, sono registrazioni di musica classica con il volume che lentamente sfuma, ad un certo punto galleggi nel silenzio completo e non te ne accorgi neppure. mi servono il bianco e il silenzio.

infine conservo tutti i fogli dentro un unico cassettone, come fossero le lenzuola ricamate della dote di mia nonna.

ho questo cassettone pieno di lettere d’amore scritte a mano, senza un destinatario.

in realtà una il destinatario ce l’ha, è la lettera che ti scrissi prima di sparire, tre anni fa.

un aereo mi aspetta. non ti dico per dove.

sarà una sorpresa. non l’ultima.

queste erano le righe che non avevo mai avuto il coraggio di spedirti da sole, poi veniva il resto:

Sono a Tamarraset. Preparo una spedizione nel deserto.

La mia intenzione è di restare nel Sahara per almeno un mese, sento la necessità di passare le mie notti sotto i cieli più stellati che esistano, sdraiata sulla sabbia ad ascoltare il mio respiro, adeguarlo al vento e così addormentarmi.

Non sono in fuga dal mondo malato, dalla metropoli, semplicemente sento che questo è il posto giusto per rinascere l’ennesima volta, anche lontano dal tuo amore.

Rinascere.

Mi mancherete un casino, sia tu che i ragazzi e già so che rinascerò dimezzata, spero solo meno inquieta.

Silenzio.

Ti chiedo solo questo. Silenzio.

Tu lo ami e saprai rispettarlo.

Mi incazzavo quando in silenzio restavi per intere serate e io mi sentivo esclusa.

Ora sono io a volerti in silenzio. Nel silenzio del deserto.

Voglio tenere la tua mano. Voglio tenere la mano a tutte le persone per cui provo affetto e stare con loro in silenzio.

Regalami il tuo silenzio, così forte e bello e sarà un po’ come farlo insieme questo viaggio.

ero emozionata e sincera quando ho scritto quelle righe, viva come non mai.

adesso che sappiamo come è andata a finire potremmo fare i sarcastici, leggere in controluce ogni parola e ridere amaro.

se vuoi farlo tu, a me non interessa.

spero che anche per te ci sia un luogo di resurrezione, come il mio deserto di allora e di sempre, ti auguro di trovarlo prima o poi.

è una sensazione incredibile, risorgere e non manca la sofferenza, anzi, ma è una resurrezione cazzo e non puoi fare altro che tornare a vivere.

ora vado a prepararmi un tè. giapponese, ma io farò finta sia un tè da tuareg, forte e scuro, intenso come un abbraccio.

 

(paturnie e pioggia)

ho smesso di sfottere la gente per sfida. ora lo faccio solo per piacere. sono diventata cinica o buona?

non mi interessa saperlo. poche cose mi interessano, i nostri figli, i fiori, le belle limpide parole che possono stare in una lettera, l’amore. quello degli altri.

mi rendo conto che io non so niente di cosa passa per la testa a un giapponese nel momento in cui il cuore lo manda fuori giri, eppure ho la sfacciataggine e la presunzione di scavare proprio lì, nei suoi sentimenti. che svergognata.

negli ultimi giorni ho anche accarezzato l’insana idea di tornare al mio zero anagrafico, nell’umido di un deserto lombardo, a camminare col bavero alzato per qualche giorno in cerca di vecchi amici e di facce note che mi raccontino da dove vengo.

da dove proveniamo entrambi.

meglio di no.

meglio pensare che sia una distanza incolmabile.

la distanza è una grande cosa. è stata una moderna truffa barattare la distanza con la fretta.

i giapponesi hanno sempre una fretta micidiale, ma non lo danno a vedere. mai.

che fretta avevi tu dopo il deserto?

fretta di essere nel giusto? e di poter mollare tutto senza eccessivi rimorsi? fretta di liberarti di me e delle mie lune?

è passato tempo sufficiente per poter dire qualche si.

per ogni si c’è una spiegazione.

per ogni spiegazione una donna ne immagina sempre un’altra.

siamo fatte così.

 

(il sole tra le fiamme)

forse ho visto troppo. troppi angeli mancati ho visto, in questi anni e troppe confuse dannose libertà e troppe regole e troppi soldi e troppe rughe e troppi che si sono ritrovati sempre con una domanda in più, facevano il carico di risposte, le andavano a scovare dovunque, rischiando tutto e quello che gli restava in mano era sempre una domanda, come una carta che non fa scopa.

non importa se oggi sono vivi o morti, ne ho visti troppi.

troppi come i tuoi angeli, che non ti lasciano mai solo davanti alla vita. sempre a sussurrarti consigli nell’orecchio.

tutto il mondo sembra più freddo e cattivo. non e’ più il nostro giardinetto preferito, da girare con le mani in tasca, il cuore svagato e lo sguardo curioso.

io, diversamente da te, ho smesso di muovermi. il mio viaggiare sono storie d’amore. timide e improbabili, magari venate di dolore, annegate dentro sorrisi femminili indecifrabili, sfide al mondo, fantasmi di gelosia, sono fragili ali di farfalla e io le tengo nelle mie mani, con tutta la delicatezza che posso.

non uccidete le storie d’amore, conservatele, sono un bene prezioso, illusorio forse ma terapeutico, il dolore è là fuori, è dentro di noi e non siamo vaccinati. nessuno lo è.

forse i nostri figli. la loro generazione.

non mi contestano mai, non contestano mai niente, sono polemici, spesso, ma non cercano mai davvero di cambiare le cose, si fanno andare bene tutto come è, mi chiedo non ne sentono il bisogno?

a volte giochiamo insieme con la Playstation, una boiata, prima ti armi e poi spari a tutto quel che capita, ad un certo punto mi è comparsa la scritta NULLA TATTICO. ecco, ho pensato che la mia vita potrebbe anche stare in quella definizione, riassunta in due parole. il nulla tattico.

mi diletto un po’ con le arti marziali, banale, cucino ravioli di farina di pesce, partecipo ogni tanto ad una specie di cineforum, spezzoni di film di genere montati a caso, a volte delirante, a volte divertente.

non sono emozioni autentiche. ma qui di autentico c’è ben poco, è la magia di questo posto, nonostante tutto, mi sento bene.

dimenticavo. mi sono comperata un nuovo computer, anche lui sembra più stronzo e cattivo del precedente.

non perdona nessun errore.

 

(cuscino insonne)

dal passato tornano a galla, nitidi, episodi marginali che pensavo di avere dimenticato.

li unisce un filo invisibile.

la metafora del filo invisibile piace un casino da queste parti, il filo invisibile che unisce i cuori, che lega esistenze, che separa, come se il mondo fosse avvolto da una enorme ragnatela che ne governa i destini.

cosa diranno i nostri figli di noi? di me?

una madre che invecchia sulla riva di un fiume giapponese, i candidi capelli bianchi raccolti con spilloni di legno scuro, vestita in kimono e ciabatte di bambù.

ci pensavo stanotte, ho raggiunto l’età in cui è ora di svuotare i cassetti, cominciare a leggere i libri che non ho mai letto, l’Ulisse di Joyce per primo e i russi, pagare i debiti, scrivere un cazzo di testamento e fare i conti con la morte.

pagare i debiti, quelli con la propria coscienza.

comincio da qui. il giorno in cui sono riuscita a lasciare l’Italia ero felice.

passavano i giorni e stavo male. aumentava la mia inquietudine e tu sai quanto sarei potuta diventare insopportabile, la mia famosa inquietudine, la mia imperdonabile voglia di essere sempre qualcun altro da qualche altra parte.

non era nelle mie intenzioni e invece è stata ancora una specie di fuga. ho respirato il profumo forte di una primavera imprevista, era una mattina serena, mi dannavo per questo, mi sforzavo per stare coi piedi in terra ma era così serena quella mattina e io ero così insensatamente felice.

me ne stavo andando ed ero felice. non sapevo perché.

 

…dolce Amore mio.

I miei occhi hanno raccolto l’immagine del tuo volto ed erano così golosi mentre lo facevano che nessuno specchio mai potrà restituire al mondo l’immagine della tua bellezza con tanta fedele venerazione, con altrettanta cura per i minimi dettagli e per le pieghe dell’animo che affiorano sul tuo viso.

I miei occhi hanno amato tanto quelle immagini da farne un film infinito, infinitamente ripetuto, infinitamente amato…

cammino per delle ore in questa città di luci artificiali, continue, cammino con la musica che sfuma nelle cuffie e mi sembra che l’asfalto sia soffice e io a piedi nudi.

sembra di sentire il rumore dei miei passi, non è plausibile ma è così, una specie di silenziatore alla città, e vado e incrocio migliaia di sguardi e anime e annuso e non sento odore e lascio impronte sulla strada.

e così mi immagino il deserto.

e così puoi immaginarlo anche tu, come non te l’ho mai raccontato.

è vero. sono stata egoista in quell’occasione e in mille altre, ma non avevo scelta.

dovevo essere io.

ora, dalla mia comoda duna affacciata sulle rose sento di avere un orizzonte infinito di possibilità.

non è vero.

ma le parole d’amore questo non lo sanno.