Sii muta per me, contemplativo idolo, sola.
Entrambi, l’un per l’altra, scordandoci la parola,
Non mi dirai verbo; io non risponderò niente…
Perciò la conversazione non si sdorerà per niente.
(Rapsodia del sordo; Tristan Corbiere)
Prendi una notte qualunque, spezzala in due e addentrati.
L’erba umida del giardino vi carezza le caviglie; solo la luna, tra le fronde degli aranci amari, osserva le vostre braccia indecise; non abbiate paura, il buio vi protegge. Foglie, fuscelli e fiori oscuri dondolano senza posa, soggiogati dal vento incerto. La vostra pelle gode sferzata dall’aria scura e i millenni che furono e saranno giacciono sottoterra. Qui è dove tutto ritorna.
Vattene voce suadente!
Un’altra volta scendo, con le lenzuola strette nei pugni. Che io non mi svegli più.
“Quanto manca?” mi chiedi, con gli occhi; “Poco”, ti rispondo in una carezza. Procediamo sfiorando gli arbusti con le mani immacolate; ci fermiamo ad ascoltare il volo sordo di una civetta. Dorme la terra dura e dormono i suoi frutti; chi fummo lo sapremo solo alla fine. O non lo sapremo mai. Laggiù dove non possiamo arrivare, la marea sommessa rapisce l’ultimo lembo di spiaggia; il granchio dalla roccia scivola e sparisce.
Mi sudavano le mani e volevo baciarti, ma sulle tue labbra e sul tuo viso cresceva il deserto.
Attraversiamo la boscaglia fitta di rovi odorosi e giungiamo alla scalinata impietrita fermandoci sull’orlo del primo scalino. Il velo chiaro che ti avvolge sbuffa e si riposa, leggerissimo, di continuo, sulla pelle quasi trasparente. Le tue mani sono giovani colombe addormentate. La luna, docile, ti ha seguita.
Ti scuoti e per prima incominci a risalire la piccola scala che s’attorciglia dentro la torre, ti seguo automaticamente. Riposi il respiro ad ogni feritoia e guardi giù dove da una parte gli alberi vegliano tranquilli, dall’altra il mare esegue il suo motivo infinito; poi riprendi a salire, ti volti rapidamente e mi sembra di leggere un chiarore tenero nei tuoi occhi vivissimi, ti sorrido e mi sento vivo. Una volta in alto, finalmente la quiete.
La notte, distesa su Capo Bon, è un’immensa creatura morbida di sogni dispersi; dentro di lei io e te ascoltiamo i bisbigli dei nostri cuori, sembriamo esuli in cerca di rifugio. Il rumore delle onde che debolmente si gettano contro l’edificio di pietra attutisce i nostri demoni interiori; l’aria calda d’estate avvolge le nostre menti. I pensieri si disfano; siamo corpi in attesa.
Ti accovacci contro il freddo delle pietre, alzi gli occhi al cielo e socchiudi le labbra, incantata e atterrita: spazi temporali cancellati, odio terrificante, amori violenti e divini, bambini divenuti uomini e donne, tutti miracoli di polvere, tutti suoi figli, smarriti dopo la lotta, disfatti. E la luna e le stelle tacciono eternamente. Siamo piccoli e impotenti. Ciononostante dal lastricato di questa torre saracena potremmo estenderci fino al cielo, la volta celeste in verità è vicina, giace in noi.
Ma la tua mano è fredda sulla mia fronte.
La giornata scivolò tranquilla tra le rocce e le sabbie vicino Kelibia; dopo il pranzo ci spostammo percorrendo la costa fino ad Hammamet. Passeggiammo tra le case bianche addormentate della medina dove così tanta luce sembrava t’intristisse; mi passasti a fianco dando fiato a un pensiero vago: “cosa accade dietro questi muri, dietro queste porte azzurre e queste finestre inferriate?”. Su una di quelle porte aperte stava rannicchiato un vecchio su una pianola che sembrava un giocattolo e suonava una frase ipnotica, quasi senza suono, rapito, come se niente al di fuori esistesse. Ti fermasti ad osservarlo, poi con un brivido mi strinsi il braccio, “andiamocene” dicesti. La via si perdeva in altre, tutte assonnate nel pomeriggio torrido, e per tante altre dovemmo camminare, chiusi tra il bianco delle case sormontato dall’azzurro irreale del cielo, prima di riapparire sul mare, quasi immobile, specchio pietrificato nel caldo insopportabile. Riparammo sotto l’ombrellone di un locale isolato.
Quassù moltissime lucciole punteggiano il buio e una si posa sul tuo ginocchio disteso. Rimaniamo fermi, vicini e assopiti. Le nostre mani si riposano ancora dai taglietti degli arbusti e il sangue scorre muto e prorompente nelle nostre vene. Osserviamo il dorso del mare, l’oscurità che ci abita rischiara e ci abbracciamo, ci spogliamo lentamente, respiriamo i nostri profumi e ci stendiamo sulle pietre umide. Impercettibile, lo sciabordio del mare guida i nostri corpi tesi d’innocenza. La luna è un soffio visibile e pallido che annienta le nostre incertezze.
Quella sera al tavolo del ristorante sulla piazzetta poco illuminata la tua voce cominciò a intorbidarsi. Il cameriere, un ragazzo sui vent’anni scuro e rapido, con una camicia bianca sporca più grande di due taglie, ti fissava insistentemente e non sembrava infastidirti. Tu mi guardavi annoiata come se d’improvviso fossi un estraneo e rimasticavi frasi sconnesse, volevi tornare a casa, non ci facevi nulla lì con me. Vedevi altri luoghi, lontani, altre sensazioni, s’era risvegliato in te qualcosa di tortuoso e inesplicabile che ti richiamava. Io ero un limite, mi dicesti mentre tre pescatori scendevano la loro barca sull’acqua calma. Prima di prendere il largo sembrò che uno di loro indicasse il nostro tavolo, dissero qualcosa in arabo, risero e ci voltarono le spalle scivolando sulle increspature. Noi, invece, eravamo, in attesa. Pagammo il conto, ci alzammo e con un sorriso di bambina mi dissi che avevi voglia di andare a Capo Bon: sai, con i marmi di Capo Bon ci costruirono il Colosseo.
Salimmo in macchina e in quella sera tersa scivolammo sull’asfalto nero, la distesa del mare alla nostra destra, la macchia, insondabile e placida nel suo annottare, alla nostra sinistra. Continuavi a parlare della tua vita, che sentivi sbiadirsi, interrompendoti per voltarti a fissare la strada che ci lasciavamo dietro, con l’aria a farti turbinare sul volto i capelli biondi. Ti ricomponevi spossata sul sedile, mi guardavi e già più non eri con me. Cercavo di scrutare oltre le tue parole, invano. Il silenzio tra noi due, smorzato dall’impatto del vento che entrava dai finestrini, mi confondeva ancora di più. Volevo capire, volevo che tu fossi mia.
Non riuscimmo ad arrivare a Capo Bon a causa di un guasto al motore dell’auto che avevamo preso in prestito. Ci fermammo pochi chilometri prima e decidemmo di proseguire a piedi, non mancava molto. La vegetazione era fitta e a tratti si chiudeva sul sentiero, quasi impedendo di proseguire, allora con le mani ci facevamo strada; tu non avevi paura di farti male. Le stelle e la luna piena illuminavano l’atmosfera, intorno a noi regnava l’oscurità. Il mio cuore traboccava, mi parlava forte; la mia mente ragionava e strozzava il muscolo nel mio petto. Il sentiero irto di arbusti finì in una strada sterrata più chiara, sulla quale i radi pini specchiavano se stessi in ombre tremule. Iniziasti a correre come un puledro che ha appena appreso i rudimenti del galoppo; vorticavi veloce, retrocedevi e mi guardavi con la coda dell’occhio, poi ad un tratto sparisti dietro la curva. Rimasi indietro per un po’, poi finalmente ti ritrovai distesa su uno scoglio. Avrei dovuto parlare, prenderti in spalle e portarti su quella barchetta stinta che sbatteva sulla riva ad ogni onda. Non lo feci. Rimasi muto ad osservare il tuo diaframma sollevarsi ad ogni respiro. Il vestito semplicissimo che indossavi lo avevamo acquistato insieme per le nozze di sei giorni prima. Si era sfregiato su un lato e lasciava intravedere un lungo taglio sulla tua coscia. Il sangue sgorgava lento dalla ferita e veniva assorbito dal tessuto dell’abito. Ti alzasti in piedi e con lo sguardo perso girasti la testa verso di me. I tuoi capelli biondi a tratti ti scompigliavano il viso. Non capivo la tua espressione, intanto nella mia mente apparivi sempre sorridente. L’aria salina scuoteva leggera le nostre vite, così vicine e così lontane. La pace regnava attorno a noi, ma in noi non s’infondeva. Il tuo urlo lacerò il silenzio. Rimasi immobile di fronte alla scena, incapace di intervenire.
Avvolti l’uno dell’altra stiamo stesi immobili sui ciottoli, protetti dalle merlature sbrecciate del torrione, mentre in alto frammenti di stelle crollano in ogni direzione. Dopo la paura, dopo il desiderio, dietro montagne di roccia durissima e sotto le braci di notti incendiate, là c’è la tregua dolcissima, là c’è l’acqua che risveglia. Se fossimo statue e nelle nostre vene fluisse acqua e non sangue, se avessimo un centro, allora forse ci sarebbe concessa la serenità infinita.
Le piante dei tuoi piedi giocavano a muoversi agili sulla scogliera, il sangue dalla coscia sinistra colava fino alla caviglia, il lembo stracciato del vestito faceva le tue gambe più slanciate. Eri bella, mai ti avevo vista così bella. Un piede ti ha tradita, l’urlo, stavi per dirmi “Vieni!”, forse. Il mare dopo la roccia aguzza ti prese quando già non respiravi più. Mi mossi verso la scogliera fino al punto dove eri caduta, l’acqua si frangeva cheta e rossastra, non c’eri. Cercai per molto tempo ma per i miei occhi lasciasti solo una macchia densa che mutava di forma secondo l’onda. Mi gettai in acqua coi vestiti addosso, era gelida, scesi finchè potei con la forza degli impazziti, sgranando la vista nel buio più cieco; il tuo corpo di luce non lo trovai. Riemersi come fantasma raggelato, mi aggrappai a uno scoglio e lì rimasi vuoto di qualsiasi cosa, sdraiato su un fianco, la testa sulla roccia a fissare il lavorio delle onde. Tra i flutti della mia mente riaffiorò il tuo viso, la prima notte che passammo insieme, i tuoi occhi limpidi, il disegno delicato della tua bocca e il tuo fianco appoggiato allo stipite della porta. Al mattino te ne andasti senza svegliarmi, lasciasti di te solo una forcina sulla mia scrivania; pensai che non ti avrei più rivista.
Poi cominciò a scorrere acqua nera sotto i ponti della mia testa; mi alzai fradicio e barcollante tornai sulla sabbia, tenera compagna di quella notte nera, camminai a lungo avanti e indietro sempre guardando lei, la sabbia. Intorno a me tutto s’era ritratto, non sentivo più nulla. La luna di lassù dirigeva i miei passi, non avevo il coraggio di guardarla. M’imbattei nella barca stinta che non sbatteva più sulla riva, le onde l’avevano abbandonata, immota sulla sabbia. Mi ci coricai dentro sentendomi vecchissimo, cercai di non guardare il cielo ma il legno, odoroso di sale e di marcio, che m’introdusse in un sonno di rovi.
I gabbiani urlano forsennati, un’altra mattina. Lo stesso sogno di tutte le notti, di tutti i miei sonni. Eri con me poi il mare ti ha presa. Penso ancora che un giorno riaffiorerai dalle acque e io scenderò dal faro per abbracciarti. Dal giorno che il mare ti ha stretta, ho parlato solo con le barche. Sono rimasto qui, questo è il posto dove morirò. Ho preso in prestito il faro poco distante dal tuo scoglio e l’ho adibito a dimora d’attesa. La barba folta e lunga mi ricorda il tempo che passa. Le tue gambe e la ferita sulla coscia ora saranno una squamosa pinna di sirena. Solo il tuo canto riuscirà a spezzare il silenzio. Se mi vorrai portare con te negli abissi sapremo comunicare con gli occhi senza bisogno di parole. Tengo ancora appeso al muro il papillon della cerimonia, non si è mai visto un tritone con una farfalla al collo, ma lo indosserò per la nostra luna di miele.
Alle stecche delle persiane, i raggi del sole, fastidiosi, insinuano le loro lame sui muri bianchi. Odio il giorno, le sirene appaiono solo la notte. Mi alzo dalla branda per scrutare l’orizzonte. Da quassù mi sembra di poter sfidare le onde, di me il mare non si è mai interessato. Ho nuotato per anni, con la calma e la tempesta, in lungo e in largo, per cercarti; ho rimesso a nuovo la barchetta su cui avrei dovuto portarti quella maledetta sera. Eri troppo bella per questo mondo di superficie, dovevi essere nascosta tra i coralli come una perla rara. I primi mesi qui al faro facevo quotidiane immersioni e quando mi imbattevo in un anemone giallo era come vederti girata di schiena con i capelli biondi che volteggiavano. Mi avvicinavo scaltro e una marea di pesciolini quasi mi entravano in bocca. Li scansavo, incurante di quelle piccole e magnifiche creature; tu eri l’anemone e tra i tuoi crini dorati volevo rifugiarmi. Rimanevo così, in apnea, aspettando che ti girassi, fin quando il bisogno di ossigeno non iniziava a farsi sentire; annaspavo, mi dimenavo per restare ancora lì. Salivo in superficie, sconfitto un’altra volta. Ti ho cercata sempre, in ogni forma sinuosa vedo la tua impronta.. Non mi ricordo nemmeno più il suono della mia voce, la quiete del faro attutisce i miei pensieri. Sono come il sole che si alza ritto nel cielo e poi riscende senza far rumore. Solo i motori delle navi rompono questa desolazione. Avrei potuto imbarcarmi su uno dei tanti mercantili che saluto ogni giorno e cercarti per gli immensi oceani, un tempo ero giovane. Ma la vita per mare mi avrebbe portato via anche l’ultima prova tangibile della tua esistenza: lo scoglio su cui ti sedesti; ora è un manto di piccole conchiglie bianche, che tu, sotto forma di schiuma di mare, riponi ad ogni imbrunire per dirmi che sei sempre stata qui, vicino a me.
La bassa marea accarezza i miei piedi stanchi. Qualcosa attira la mia attenzione. E’ il guscio di una lumaca di mare, lavorato diligentemente dalle correnti fino a fargli assumere la forma di un perfetto cerchio concavo. Barcollo nel tentativo di raccoglierlo, tra le mie mani mi accorgo delle sottili sfumature di madreperla. Un colpo d’onda mi schizza acqua fino alle ginocchia. Mi stai parlando? Ruvide lacrime calde percorrono i solchi sul mio viso e cadono pesanti sulla sabbia bagnata. Un’altra e questa volta incerta ondina si fa avanti per portarsele via. Non riesco più a muovermi, le caviglie sono affondate nella sabbia. Mentre piango e tremo cerco di infilare il guscio di madreperla nel mio anulare ossuto. Il mare mi bagna le dita, ecco! E’ perfetto! Alzo gli occhi al cielo; le nuvole sono sfumature di rosso e bianco. Un’onda enorme mi sconvolge. Non sto nuotando, è la tua mano che mi accompagna a scoprire il mondo sommerso in cui sei rimasta tutto questo tempo. Con le ultime energie scosto le ciocche dei tuoi capelli di Venere; i tuoi occhi e la tua bocca mi sorridono. Il tessuto del mondo si rimargina.