La verità

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La verità fa male a tutti, punto.

O quasi. Per esempio a Caterina Caselli la verità ha fatto bene, difatti con la sua canzone che faceva “la verità ti fa male lo sai” si è fatta i milioni.

Ma escluso lei e pochi altri, la verità fa male, malissimo.

 

Era qualche mese che io e la mia compagna non ci parlavamo. Non era più come all’inizio quando lei parlava e io stavo zitto, in quel periodo nessuno dei due parlava.

Quando era ora di andare a letto ci stendevamo sul materasso, lei a destra e io a sinistra, e stavamo in silenzio.

Muti.

Io guardavo il muro pensando se questa o quella macchia di muffa ci fosse sempre stata, lei leggeva un libro.

Secondo me faceva finta di leggere. Da quando abitavamo insieme, sette anni ormai, stava leggendo lo stesso romanzo.

Ogni tanto le arrivava un messaggio sul cellulare, lo leggeva e sorrideva, allora facevo finta che ne arrivasse uno anche a me e fingevo di leggerlo, senza sorridere.

Poi, senza chiedere se e quando, spegneva la luce.

Io restavo con gli occhi aperti nel buio a fissare qualcosa a caso che tanto non potevo vedere e, appena la sentivo russare, abbassavo le palpebre e mi mettevo a dormire.

Dormire, quello non lo faceva in silenzio.

 

Eppure anche il silenzio mi faceva male.

 

Già ai tempi della scuola pensavo che la verità facesse male. Che nessuno le potesse scampare.

Se mi interrogavano e dicevo di non aver studiato prendevo due, se stavo zitto quattro. Spesso, quindi, durante le interrogazioni stavo zitto, avendo così la certezza di non poter dire una cazzata, di non rivelare all’insegnante che non avevo capito niente della lezione.

La strategia era un po’ fallimentare e non dava molto valore aggiunto alla mia carriera scolastica, visto che sono stato bocciato due volte in seconda superiore e una in terza. In un istituto professionale.

Grazie a Dio non ho fatto il liceo.

Sarei ancora al primo anno.

 

Un giorno invece le mie certezze vacillarono.

Era un periodo che la sera uscivo con gli amici: “Sai, c’è il calcetto”, “Marco ha litigato con Claudia”, “Coso parte e ci vuole salutare” (Coso era un ragazzo entrato nel nostro giro di amicizie da circa sei-sette mesi e ancora non ero certo del suo nome, non che mi importasse particolarmente).

C’era sempre una scusa per uscire o almeno per non stare a casa, in silenzio, nel letto con la mia compagna.

La chiamavo sempre la mia compagna perché lei odiava essere chiamata la mia ragazza o la mia fidanzata. Odiava anche essere chiamata per nome. Quando parlavo di lei dovevo dire la mia compagna, porco cazzo.

E io la chiamo per nome ora: Sara.

Sara.

Sara.

Sara, Sara.

Tornando al discorso. Avevo ripreso ad uscire coi miei amici da poco tempo quando durante l’addio al celibato di Mauro, che noi chiamavamo Il Merda per il comportamento che manteneva nei confronti della sua futura moglie, avevo accidentalmente rimorchiato una ragazza.

Avevamo tutti bevuto come si può fare solo in un addio al celibato: rhum e coca, rhum e pera, rhum e ghiaccio, rhum e stocazzo, birra, vino, Tavernello e chissà cosa.

E oltre l’alcool che avevamo nello stomaco c’era quello sui vestiti.

Dopo il quinto giro di superalcolici non è sempre facile centrare la bocca col bicchiere.

Ci eravamo dati appuntamento con Coso per le due di notte, era lui lo sfortunato che quella sera non doveva bere per riportarci tutti a casa in macchina ma, quando fu ora di andare, lo trovammo sbronzo su un divanetto; io ne approfittai per continuare a bere.

Ero al bancone a scolarmi non ricordo che alcolico e un attimo dopo, senza sapere come, ero finito in bagno con una ragazza a cavalcioni su di me. Io avevo i pantaloni calati, lei il vestito alzato.

Io sapevo di Alcool, lei di marijuana.

Avevo tradito Sara.

Eravamo a festeggiare un futuro matrimonio, l’unione per una vita intera, o fino all’arrivo di un avvocato divorzista, e io avevo tradito Sara, la mia compagna da oltre sette anni.

Mi sentii una merda.

Certo, non ero ai livelli de il Merda che solo in quella sera si era limonato mezzo locale con la scusa che “all’addio al celibato tutto vale” e che, almeno una volta ogni dieci giorni, lo ritrovavamo sul sedile posteriore della sua vecchia Ford con una ragazza diversa.

Mi sentivo una merda ma ero ancora lontano dall’essere Il Merda.

 

Qualche settimana dopo decisi di dire alla mia compagna del tradimento.

La mia certezza che la verità facesse male era ormai diventata un misero dubbio. Avevo bisogno di rompere il silenzio tra noi. Il silenzio, sì, quello sì che faceva male.

Le raccontai quello che era successo durante l’addio al celibato. Di quanto fossi ubriaco, che non mi ricordavo niente e che mi sentivo una merda.

Lei si girò e mi diede una testata sul naso.

Quella notte dormii da Coso, che finalmente scoprii chiamarsi Patrick (lo avevo letto sul citofono).

Che cazzo di nome è Patrick?

Non glielo chiesi e restai zitto zitto, in silenzio per tutta la notte.

 

Le mie certezze avevano vacillato e portato all’essere di nuovo single.

La verità fa male, sempre.

Anche il silenzio fa male ma forse è un pochino meglio.

Dopo poche settimane da quando ci eravamo lasciati, o meglio lei mi aveva lasciato, Sara era rinata, sembrava perfino più giovane di quando l’avevo conosciuta.

Io invece ero invecchiato di mille anni. Ho chiuso gli occhi e quando li ho riaperti ero più vecchio del mondo stesso.

Porco cazzo.

Una volta ho parlato e sono rimasto fregato.

Fregato, single, con la barba lunga e la forfora.

Una sera decisi che era il momento di darmi una mossa, riprendere a vivere.

Andai al locale dove avevamo festeggiato l’addio al celibato per bermi una birra. Lì ho visto una ragazza che assomigliava tremendamente a quella con la quale avevo avuto la scappatella. O almeno credevo le somigliasse, visto che i miei ricordi di quella sera erano annebbiati dai fumi dell’alcool.

Mi chiesi se la colpa di tutto fosse sua, di quella ragazza, ma in cuor mio sapevo che non era così. È stata colpa della verità.

O del silenzio che si era formato a casa.

Scolai la birra e corsi nel mio nuovo monolocale in affitto. Avevo deciso che non avrei detto più niente.

Non che sarei stato in silenzio tutta la vita ma che avrei evitato di dire cose pericolose, impegnative.

Avrei scritto su un diario tutto ciò che non sarebbe stato conveniente dire nella vita reale.

Insulti verso il mio capo.

Insulti verso Mauro Il Merda.

Scrissi che avrei voluto abbracciare Patrick, nonostante quel nome orrendo.

Scrissi i miei segreti che mi ero ripromesso di non dire a nessuno. Di quando alle medie mi ero nascosto nello spogliatoio delle donne per spiarle, di quando rubai le sigarette ad un signore in stazione perché volevo provare a fumare.

Di quando ho tradito Sara.

Scrissi di tutte le donne con le quali ero stato. Tutte e quattro.

Marta, la mia prima ragazza. Era una delle sette ragazze presenti in tutto l’istituto tecnico che frequentavo e aveva un anno in più di me.

La nostra storia era basata sul sesso. Ogni tanto parlavamo di niente: fumetti, dei cartoni che guardavamo tornati da scuola, di quanto le piacesse guardare Beautiful con la madre. Parlavamo di niente, come tutti i fidanzatini a quell’età, e quando finivamo di parlare e calava il silenzio ci si spogliava. Ci baciavamo, ci toccavamo, cercando di non fare rumore, per non essere beccati dai nostri genitori.

In quello eravamo bravi.

Solo una volta siamo quasi stati beccati, da suo padre.

Lei era a cavalcioni su di me quando lui aprì la porta.

Noi eravamo stati zitti zitti durante il rapporto ma fummo traditi dal cigolare del letto. Ci alzammo di scatto e io per non far vedere che avevo i pantaloni a mezza coscia mi rannicchiai per terra facendo finta di essere interessatissimo a una presa della corrente, dicendo ogni tanto che secondo me era bruciata.

Scrissi di quanto ero pirla.

Barrai la parola ero e la corressi con SONO.

Raccontai di Sara.

Scrissi una pagina intera col suo nome: Sara, Sara, Sara, Sara, Sara…

Lei odiava che parlassi di lei usando il suo nome.

Scrissi del nostro primo bacio, quello sulla panchina di marmo del parco. Mi ero seduto su una scritta fatta a pennarello, Lucifero Culo, e non sapendo cosa dirle l’avevo baciata.

Non fu un bacio molto romantico, le avevo cacciato senza dirle niente almeno tre etti di lingua in bocca e le ero arrivato a raschiare l’esofago, però lei non si era tirata indietro, anzi, aveva iniziato a far mulinare la lingua.

Fu un bacio orrendo.

Il primo di una serie di baci orrendi. A volte sembra volesse mangiarmi. Sentivo i suoi denti sbattere contro i miei. Eravamo pessimi nei baci ma nessuno dei due aveva mai avuto il coraggio di dirlo. Perché comunque ci andava bene così.

Poi iniziò il silenzio.

La luce spenta senza dire niente, il tradimento.

La terza donna fu quella del locale. Su di lei non potevo scrivere niente, non sapevo nome, cognome e neanche il colore degli occhi. In realtà non mi ricordavo più neanche quello dei suoi capelli.

 

L’ultima donna, la quarta, era quella che mi ha insegnato più di tutti.

Quest’ultima, in realtà, non c’era mai stata con me. L’avevo solo toccata.

Ad essere sinceri sinceri non l’avevo mai toccata ma l’avevo sognata un sacco di volte.

Questa donna magnifica la sognavo da sempre. L’amavo da sempre. Era lei che mi aveva insegnato che la verità fa male.

Malissimo. Che nessuno scampa dalla verità.

E io l’avevo tradita. L’avevo tradita perché a Sara avevo detto la verità, le avevo detto che ero stato con un’altra. Avevo perso la mia opportunità di silenzio.

In una volta sola avevo tradito i miei due più grandi amori.

Ero io il vero Il Merda, non Mauro.

Avevo rovinato tutto solo perché avevo detto la verità.

Avevo deciso che il silenzio faceva più male della verità, non credendo a quello che mi aveva insegnato il mio amore di sempre.

Sono un idiota.

Eppure aveva fatto di tutto per farmi capire quanto facesse male la verità. A lei l’aveva uccisa, la verità. Aveva provato ad insegnarmelo, a farmelo capire, ma io niente. Se sono riuscito a farmi bocciare tre volte in un istituto professionale figuriamoci se potevo imparare una lezione di vita.

Non imparo un cazzo.

 

Le ultime pagine che ho scritto le ho dedicate a lei. Sorridente e malinconica allo stesso tempo.

A lei che me la immaginavo ogni sera sdraiata al mio fianco, lei a destra e io a sinistra, entrambi zitti a scrivere ognuno sul proprio diario.

Io che scrivevo di cose di poco conto ma che non potevo dire al mondo e lei che scriveva, riempiendo ogni millimetro della pagina, di cose che il Mondo non voleva che dicesse.

Io che scrivevo de Il Merda, di Patrick che era partito e non era più tornato o di quanto fosse pirla il nuovo vicino di casa.

Anche lei, come me, aveva iniziato il suo quaderno scrivendo quello che non poteva dire e parlando di donne. Di donne con le palle, quelle che si aprono i barattoli di marmellata da sole.

Che ti fanno il culo a strisce se le cose non le chiedi “per favore”.

Delle sue donne, che lei descriveva come emancipate.

Che cazzo significa poi, emancipate, all’istituto professionale mica si usano quelle parole.

Il silenzio con lei non era pesante come quello con Sara.

Non era un silenzio del tipo: tanto non abbiamo niente da dirci.

Era un silenzio del tipo: se iniziamo a parlare si sfondano gli argini e ti sommergo di parole, paroloni, sillabe, vocali e consonanti; parole a volte difficili, altre semplici, mai frivole.

Andrebbe a puttane il silenzio.

Sarebbe andato tutto a puttane se ci fossimo parlati, allora stavamo muti, io a sinistra e lei a destra.

Io che non pensavo più se questa o quella macchia di muffa ci fosse sempre stata.

Non pensavo più a Sara che spegneva la luce senza chiedere.

Il mio amore non lo faceva mai.

A volte fissavo il mio diario e pensavo a Patrick.

Alle partite di calcetto.

A quanta cazzo di voglia avevo di abbracciare Patrick.

A Il Merda.

Pensavo alle mie frivolezze.

 

Ero sempre io a voler andare a dormire per primo e ogni volta le chiedevo se potevo spegnere la luce.

Lei a volte diceva sì, altre che se non mi dispiaceva di lasciargliela accesa ancora qualche minuto, che non aveva ancora finito di scrivere.

Sembrava avesse la penna attaccata alla mano, un sesto dito che sputava inchiostro.

Quando finalmente diceva che potevo spegnere io mi allungavo verso di lei, con la scusa che sennò non arrivavo all’interruttore, e buttavo un occhio al suo diario.

Lei scriveva sempre di cose che il Mondo non voleva sentirsi dire.

Perché la verità, tranne che a Caterina Caselli e qualche altra persona, fa male.

Fa fottutamente male.

E lei lo sapeva e scriveva lo stesso.

Lei, Ilaria, scriveva di donne, armi, rifiuti e Mogadiscio.